Un Paese brutto_Roberta Angeloni
_Un Paese brutto. Non c’è mai niente da fare qui. I vecchi rimasti parlano poco e male, con denti radi e la mandibola che si trascina a destra e a sinistra, un continuo biascicare che nessuno capisce più. Stanno seduti ai tavolini dell’unico bar, che poi è anche frutteria, emporio e rivendita di pochi quotidiani. D’estate gli “stranieri” si contano sulle dita di una mano: Il professor Diotallevi, docente di storia in pensione, rimasto vedovo l’anno scorso, e che si fa vedere solo la domenica in piazza, a passeggiare col suo cane triste e invecchiato come lui; i Thyrssen, coi quattro figli indiavolati che parlano uno sull’altro e corrono come pazzi sulle bici scarcassate; la bella Marie, una signora francese che viene ogni anno con un nuovo compagno e chiacchiera con le donnine del Paese, per cercare di imparare l’arte del tombolo, ma poi lei lo sa che non ci proverà mai, non sa lavorare nemmeno all’uncinetto.
E poi ci siamo noi, mio padre, mia madre, mio fratello ed io, ormai stanziali da quando i miei hanno deciso che la città a loro sta stretta, ma a noi mica ce lo hanno chiesto, se volevamo venire a vivere quassù, in mezzo alle montagne abruzzesi, dove pure gli elicotteri girano a largo perché hanno paura di essere inghiottiti dalle spire di questo silenzio infernale. Io vado a scuola in una città a venti chilometri da qui, con la corriera. Mio fratello è ancora piccolo, non sa neanche cosa sia la scuola materna; a me, per forza di cose, la “gioia” dell’isolamento è stata risparmiata, se non altro perché frequento ancora la scuola dell’obbligo. Mi guardo intorno e vedo le facce truccate delle mie coetanee, i loro motorini, e addosso quel senso di libertà che a me manca, ma che non conosco, così alla fine non so nemmeno perché, mi manca.
Franz, il secondogenito dei Thyrssen, classico vichingo bianco in testa, è l’unico con il quale riesco a scambiare qualche battuta, con il suo italiano stentato che intruglia con l’inglese e il tedesco, e io che lo prendo in giro di continuo, correggendolo un po’. Ma lui non se la prende mai. Oggi mi va di salire in bici con lui, verso il crinale dalla parte opposta del monte, dove c’è un bosco fitto che nasconde lamponi a profusione. Ѐ Franz che si accorge per primo di un cumulo di rovi da cui spunta un braccio. Scendiamo dalle bici, e per un istante restiamo immobili, senza neanche la forza di parlare. Ѐ un momento nel quale i sudori freddi lasciano pian piano il posto alla certezza che stiamo davanti a una statua di terracotta, divorata dalle piante selvatiche.
La scoperta ha il sapore di un’eccitazione mai provata prima. Lesti e impacciati ci aiutiamo come possiamo con un bastone, per liberare un uomo in piedi in grandezza naturale. Da come è vestito deve essere un monaco; la faccia torva e minacciosa, gli occhi neri dipinti su un volto rugoso e una bocca che volge all’ingiù. Col braccio destro tiene stretto un libro contro il petto, il sinistro è tutto teso verso il basso con un indice che punta la terra poco avanti a lui.
“Qvesto è un prete”, azzarda Franz spalancando occhi e bocca, ancora incredulo.
“Vuoi dire un frate. Guarda Franz, indossa un saio. Ma che ci fa qui, la statua di un monaco in mezzo al bosco?”
“Mette dito verso la tera…credo che vuole dire qvalche cosa, forze c’è un tessoro… qvi sotto”.
Franz ride e comincia a scavare con le sue manone da nordico.
Franz ha un’intuizione grandiosa, scavando con le mani trova quello che sembra una parte di un muro di pietre. Corriamo a casa a raccontare a tutti l’accaduto. Giungono dopo pochissimi giorni gli archeologi convocati dal Professor Diotallevi, un uomo nuovo, trasformato. Gli studiosi trovano una cella sotterranea, dove, ben conservati ci sono pergamene e documenti di valore inestimabile scritti dai frati amanuensi. Quello più importante, dicono, fornisce istruzioni dettagliate sul luogo esatto in cui si troverebbe sepolta l’Arca dell’Alleanza…
Un Paese brutto, ma adesso sono sicura che cambierà.
Roberta Angeloni