I brevissimi 2001 – Era di maggio di Marco Magini_Arezzo
anno 2001 (I sensi – Gli odori)
“Era il Maggio del ’20,uno dei più caldi che avessi mai vissuto.
Era la fine dell’anno scolastico e già pregustavo il mio ritorno a casa.
Finivo ormai la seconda media, mio padre mi aveva mandato in un collegio di campagna, uno di quei collegi gestiti dalle suore quando ancora portavano grossi cappelli bianchi ed erano solite usare le maniere forti se trasgredivi quelle regole per cui tanto erano apprezzate.
La mattina studiavamo e il pomeriggio ci dedicavamo alla preghiera.
Eravamo solite il Sabato andare a trovare le suore Clarisse di clausura che si trovavano proprio all’ingresso della città, a pochi chilometri dal collegio.
Quel Maggio era caldo, il sole picchiava così forte che la terra sembrava tremare all’orizzonte, la polvere pervadeva ogni tuo senso lungo la strada e finivamo tutte per camminare col capo basso, seguendo i passi di chi ci precedeva. Ricordo ancora la sensazione di piacere che provavamo all’arrivo al chiosco del convento, sedersi per terra appoggiando la schiena alle fredde colonne di pietra grigia in attesa dell’incontro. L’incontro avveniva in una piccola stanzetta ove si entrava da una porta angusta. Inizialmente non vedevi niente. Soltanto lentamente lo sguardo si adattava alla poca luce che entrava. Eravamo poche e potevamo avere ognuna un colloquio singolo.
Questo avveniva attraverso una piccola finestrella che ti divideva dall’interlocutrice di cui intuivi appena la forma del viso dato che due fitte grate di ferro battuto vi separavano.
Sembrava che lì finissero i colori, un po’ per i divisori e un po’ per l’assenza di luce.
Fu proprio quel Maggio che la incontrai per la prima volta.
Era da poco entrata in convento, era giovane, lo rivelava la voce, ma non fu quello che mi colpì.
Emanava un odore soave, un profumo flebile ma allo steso tempo avvolgente che sapeva di lavanda, di prati erbosi di libertà. La mia fantasia volava, superava quelle pareti che prima parevano insormontabili. Non ricordo altro di questo nostro primo incontro, non ricordo cosa mi disse e cosa le dissi, so solo che la settimana seguente non pensai ad altro, diventò un ossessione. La cercavo a tavola nella compagna che mi sedeva accanto, spesso affacciata alla finestra chiudevo gli occhi e cercavo nel vento quell’odore, quell’emozione.
La notte mi rigiravo nelle coperte, ricercavo ovunque quel profumo, diventò un chiodo fisso, notti insonni cercando di carpire qualcosa che me lo ricordasse.
La mia mente creava dentro di se un’immagine da abbinare a quell’emozione, un viso, un ideale, ma sempre qualcosa lo rifiutava, non potevo materializzare un sentimento.
Il Sabato successivo sembrava non arrivare mai e dentro di me cresceva l’attesa, la passione.
Arrivò finalmente il giorno tanto atteso. La strada pareva eterna.
Arrivate al convento non mi sedetti come d’abitudine sotto al porticato ma aspettai in piedi, in attesa. Fui la prima ad entrare. Varcata la soglia un timore mi assalì: e se non l’avessi trovata
Non vi avevo mai pensato durante tutta la settimana.
Mi sedetti, lentamente.
Tirai un profondo respiro, appoggiai la punta del naso al freddo ferro.
Immediatamente lo sentii. Era lei.
Il profumo mi inebriò completamente e di nuovo volai lontano, dove potevamo essere sole, io e questo sentimento nuovo, profondo.
Parlammo di vocazione, ma non era importante, ero lì e niente al mondo poteva rovinare quel momento. Il cuore mi galoppava nel petto libero e felice, tutto il resto non importava, ero lì e il resto erano pure bazzecole.
La voce severa della mia accompagnatrice pose fine al colloquio.
Feci un respiro profondo per portarmi via un po’ di lei.
Tornai al collegio e ricominciarono le angosce, i sogni.
La notte del giovedì stranamente dormii, pensai che per una sera la mia ossessione mi avesse lasciato in pace. Mi sentivo stanca, vuota, caddi in un sonno profondo e agitato.
La mattina avevo dolori ovunque, non riuscivo ad alzarmi, ero priva di ogni forza.
Avevo il morbillo. Mi sembrò una condanna, sapevo che non sarei potuta andare con le altre il Sabato venturo, mi sembrò una punizione divina per quei pensieri che tanto avevano riempito il mio cuore, ma che ora tanto peccaminosi mi parevano.
Furono richiamati i miei genitori per essere riportata anzi tempo a casa.
Dissero che ormai l’anno era finito e non volevano rischiare contagi.
Io nella mia ingenuità vedevo nei loro occhi un giudizio, come se dicessero:
“so cosa hai fatto!” Partii, quell’estate nacquero i miei due fratellini e mio padre decise che c’era bisogno di me a casa e che l’anno successivo non sarei tornata a scuola.
Non la rividi mai più.
Solo anni dopo, ormai madre, ho accettato quello che ora considero come il primo amore della mia vita, ma ancora, quando vi ripenso, ho un rimorso: non averne mai conosciuto il nome.