I brevissimi 2001 – Naftalina di Sebastiano Bisson_Castelfranco Veneto(TV)
anno 2001 (I sensi – Gli odori)
Menzione speciale dell’Associazione Energheia
Riemerse improvviso nella memoria il ricordo dell’unico ritorno a Rosario.
E subito, l’odore. Prima di qualsiasi volto, immagine o parola, Giacomo
percepì in modo dolorosamente intenso l’odore di naftalina.
Lo zio Giulio possedeva un solo vestito per la festa. Un abito grigio topo,
in tinta unita, con righe a lisca di pesce. Le maniche della giacca,
leggermente troppo corte, svelavano l’osso del polso, quel carpo spigoloso
che tendeva la pelle come il fondo di un tamburo.
Giacomo poteva ricordare a malapena cinque o sei occasioni in cui
quell’abito era stato indossato. Il battesimo di sua sorella, la sua prima
comunione.
L’aveva visto pure in qualche vecchia foto sbiadita, scattata in occasione
del matrimonio dei suoi genitori. Comunque il computo totale rimaneva
esiguo. Perché neppure alla domenica zio Giulio lo indossava. Lui non
andava alla messa. Diceva che la domenica era semplicemente il giorno del
riposo.
– Per riposarsi non serve un abito da cerimonia – diceva, incurante
della dannazione eterna che, secondo zia Chiara, pendeva sul suo capo.
– Un giorno o l’altro verrà il diavolo in persona a infilarti la forca
nel sedere! – esclamava puntualmente, avviandosi verso la chiesa, dopo
aver tentato senza esito di convincerlo ad accompagnarla.
Zio Giulio non ne voleva sapere. In quelle mattine di riposo, egli stava
sotto il portico a riempire pipe che si scordava d’accendere. Si dondolava
sulla sedia con gli occhi ridotti a due fessure. Giacomo gli era sempre
accanto.
Dalla cucina usciva l’odore del brodo. A pranzo ci sarebbe stata la minestra
con i capelli d’angelo, la carne bollita cosparsa di sale grosso, il pane
all’olio e le erbe soffritte nella pancetta. La tavola era già apparecchiata: la
tovaglia bianca; i piatti coperti dai tovaglioli per tenere lontane le mosche;
i bicchieri capovolti; le sedie accostate e appena piegate, tanto quanto
bastava per dissuadere il gatto dal saltarvi sopra.
Una mattina d’agosto, in un giorno che non era domenica, zio Giulio non si
sollevò dal suo materasso di crini di cavallo. Si limitò a piegare il capo
verso sinistra, in direzione della finestra. Rimase così per un intervallo di
tempo che a zia Chiara, in attesa giù in cucina, parve infinito. Alla fine la
donna non resistette e risalì nella camera. Lo trovò ancora nella medesima
posizione.
– Qualcosa non va, Giulio?” – gli chiese con una voce intrisa di
triste dolcezza.
L’uomo strinse le lacrime fra le ciglia.
– Dammi il mio vestito – disse.
Avuta la notizia, Giacomo si precipitò verso la casa. Dopo la lunga corsa
rimase pietrificato sulla soglia della camera. Non lo aveva mai visto
disteso. E solo per il fatto di vederlo disteso, con quel vestito grigio
addosso, temette di non avere fatto in tempo.
Ma zio Giulio gli fece cenno d’accostarsi, quindi sussurrò le sue ultime
poche parole:
– Quando si va dal capo è sempre meglio vestirsi bene.
Giacomo lo vegliò per una notte intera, seduto presso una lampada velata.
Una coperta di lana grossa ad avvolgergli le spalle e un senso nauseante di
freddo piantato nelle ossa. Le narici possedute dalla naftalina.
L’angoscia della morte incipiente si aggrovigliò attorno a quell’odore che
esalava dalla stoffa, libera dai tarli ma condannata ad una perenne tortura
olfattiva. L’afrore della conservazione, in forma di granulose palline
bianche, si associò inscindibilmente con il tragico emblema di come sia
impossibile conservare alcunché. Giacomo era in balia di tali sensazioni
forti, le sentiva imporsi su di sé, sentiva che prendevano possesso del suo
naso e della sua mente. Naftalina e morte, simboli di forze opposte, segni
contrastanti di mantenimento e decadimento, divennero apparenze di una
sola triste realtà.
La realtà di zio Giulio disteso sul suo letto, col pensiero terribile di vederlo
andarsene da un momento all’altro. Giacomo respirò l’odore soffocante di
naftalina. Capì che presto non gli sarebbe rimasto che quello.