I brevissimi 2002 – L’ultimo volo di Cristiano Callegari_Pavia
anno 2002 (I sensi – I suoni)
Accadde nell’estate dei miei dodici anni. Quel giorno ero uscito per cercare
l’orso. L’avevano avvistato nei boschi, sopra il villaggio e pensavo che con
un po’ di fortuna avrei avuto qualcosa da raccontare al ritorno a scuola.
Uscii prestissimo, diretto a nord. Camminai a lungo e ben presto mi persi.
Ma non m’importava: volevo vedere l’orso. Tutto intorno a me c’era il
silenzio luminoso della montagna: echi lontani, fischi tra gli alberi, foglie e
vento. Poi d’un tratto, nessun rumore. Tacevano gli uccelli, tacevano le
foglie. Il vento smise di accarezzarmi le braccia. Durò qualche secondo.
Ebbi paura.
Quando, piano, il vento ricominciò ad animarsi, mi portò solo un suono.
All’inizio era una piccola vibrazione dell’aria. Poi diventò una nota dolorosa
e lontana che rimbalzava tra gli alberi, fino a me. Non si capiva cosa fosse.
La cercavo nell’aria e la seguivo, ma gli echi mi confondevano e giravo in
tondo. Due pernici passarono a volo radente, senza rumore. Le seguii. Vidi
uno scoiattolo che di ramo in ramo facevano la mia strada. Il suono
sembrava più vicino. Modulava da una nota all’altra, come il verso di un
uccello in amore. Non conoscevo animali in grado di cantare così. Risalivo
il bosco, curioso. E non ero l’unico ad esserlo: due topolini, un tasso, altri
uccelli. Tutti diretti nella stessa direzione. D’improvviso gli alberi finivano
e si apriva una piccola radura. Musica. Era una musica. Mi chinai tra i
cespugli, il suono era vicinissimo. Spostai un ramo e lo vidi. Al centro del
prato, sopra un masso che sporgeva dal terreno, un vecchio in piedi. Un
vestito nero, i capelli bianchi e gli occhi chiusi. Era a pochi metri da me.
Mi sedetti senza rumore e ascoltai. La sua mano sinistra era piccolissima.
Si muoveva appena lungo il legno scuro. A volte sembrava scossa da un
piccolo tremito e le note vibravano con lei. L’archetto sfiorava le corde con
un movimento ampio e costante. L’uomo ondeggiava lievemente sul busto,
piegandosi alla melodia lieve del violino. Tutto intorno taceva. I rami sulla
mia testa erano fitti di uccelli muti. Dai cespugli, a guardarvi bene,
sbucava ora una coda, ora un muso peloso. Ma tutto era silenzio.
L’aria portava solo quella musica, luminosa e dolcissima. Fu allora che vidi
la prima farfalla. Danzava bianca, sopra la mia testa. Superò i cespugli e si
diresse verso il vecchio. Senza indecisioni gli si posò su una spalla. Presto
una seconda e poi una terza la raggiunsero. Il vecchio suonava e le farfalle
accorrevano: sul petto, sulle gambe, sulle braccia. Una fece capolino dietro
la testa candida. Ora non le contavo più. Gli occhi dell’uomo restavano
chiusi. Ben presto il nero della giacca sparì, sostituito da un silenzioso
sbatter d’ali.
Non avevo mai visto così tante farfalle in tutta la mia vita. Nel giro di
qualche minuto faticavo a vedere il viso dell’uomo. Anche il violino
divenne completamente bianco. Il vecchio indugiò su una nota lunga e
dolorosa. Ripeté la cadenza tre volte e poi si fermò. Subito le farfalle, tutte
quante insieme, presero a sbattere le ali. L’uomo sorrise. I suoi piedi si
staccarono dal suolo.
E il vecchio si alzò nell’aria, lentamente. Quando fu a qualche metro da
terra, la musica riprese. Ma il volo proseguì. In alto, sopra i primi alberi
che delimitavano la radura. Verso le rocce, verso il cielo. Quando il
vecchio sparì oltre il costone della montagna, anche la musica cessò. Il
bosco riprese vita.
Gli uccelli si alzarono. Gli altri animali sparirono tra gli alberi. Forse tra
loro c’era anche l’orso. Non ci pensavo più a quell’orso. Me ne andai e
riuscii a rientrare prima di notte. Non feci parola con nessuno di ciò che
avevo visto.
Qualche giorno dopo, dal giornale del nonno, seppi chi era il vecchio: il
primo violino dell’orchestra della città vicina. Un dottore gli aveva detto
che non avrebbe suonato molto a lungo. Il giornale diceva che l’avevano
trovato impiccato a una quercia, in una valle vicina. Io sapevo che non era
andata così.