I brevissimi 2003 – Le sfioro la schiena di Davide Zambon_Padova
anno 2003 (I sensi – Sfiorare)
Le sfioro la schiena. Percorro con le dita, quasi senza toccarla, la curva
della sua colonna vertebrale. Il suo respiro è lento, regolare – dorme. Mi
dà le spalle. I suoi capelli neri coprono il cuscino, e mi risalgono su un
braccio, ancora umidi di sudore. Dalle fessure delle imposte entra l’aria
fresca, carica dell’ozono del temporale. Porta il suo odore fin dentro alla
stanza, dove si confonde con il nostro. Mi passo la lingua su un labbro, ed
è di nuovo il suo sapore, pungente. Ripenso a prima – ut ora dei madida
rorantia barba contigit – e non posso trattenere un sorriso.
Fuori, oltre la ringhiera, la strada ricomincia ad animarsi.
Le sfioro la schiena. Percorro con le dita, quasi senza toccarla, una piega
del lenzuolo. Dove poco prima c’era lei, ora c’è il vuoto. Il suo cuscino è
freddo. Aspetto che ritorni dal bagno, o dalla cucina. O da qualunque
posto in cui sia andata. Guardo verso di lei, ma c’è soltanto il muro, oltre.
Le sfioro la schiena. Percorro con le dita, quasi senza toccarla, la curva
della sua colonna vertebrale. Sfiorarle la schiena. Un vocabolo, uno tra i
molti, di un lessico evanescente, di un lessico formato da gesti incorporei,
sfumati. Preludi verso qualcosa di più, o soltanto accenni, piccoli assaggi…
Sfiorarle la schiena. Avvicinare la mano alla sua, a cena, attraverso il
tavolo. Gesti che tendono al contatto, gesti che il contatto lo eludono.
Accostare le labbra alla sua fronte, in piedi su quel quarto binario che mi
portava via da lei, ogni settimana. Misurare i suoi capelli, con la punta
delle dita. Un contatto appena palpabile. Preludi, dolcissimi. Approssimarsi
al suo corpo, finalmente. Indugiare, i suoi occhi socchiusi, in attesa,
indugiare, prima del coito…
Le sfioro la schiena. Ormai questo lessico è caduto in disuso, è perduto.
Certo, qualcosa lo si ricorda ancora, ma la memoria è ingannevole.
Riaffiorano dall’oblio solamente vaghe sensazioni, ogni tanto. Un lessico
evanescente, un lessico formato da gesti incorporei, sfumati. Un lessico la
cui delicatezza, i cui sottili, eleganti movimenti, ne hanno decretato la
rovina. No, non era fatto per resistere al Tempo. La decadenza. La
raffinatezza di una volta ha lasciato il posto al ruvido, spigoloso linguaggio
di oggi. Utile, ma non certo bello. E, soprattutto, mercenario.
Ma forse, forse sarà possibile recuperarlo. Forse, un giorno, come un
segreto. Forse un papiro emergerà dalle sabbie. E forse qualcuno sarà lì
per decifrarlo, per capirlo, per calcarne, ancora una volta, gli accenti e le
pause. Oppure, dimenticato per una seconda volta, questo prezioso
manoscritto attenderà, stretto tra altri fogli, un numero e niente più, gli
incisivi dei topi a minacciarne i bordi…
L’odore stantio del vino; macchie sbiadite sul cuscino. Anelli perfetti sul
ripiano del comodino. Bruciature e mozziconi di sigaretta, i pacchetti vuoti
sono appallottolati per terra. Sulla scrivania, trenta cartelle di traduzione,
mai nemmeno sfogliate, mi attendono da una settimana. Mi sono lasciato
scivolare il tempo addosso. Non mi sembrava importante.
Mi rigiro tra le lenzuola.
Le sfioro la schiena, percorro con le dita, quasi senza toccarla, la curva
della sua colonna vertebrale. Solo un’ultima illusione, prima di chiudere gli
occhi. Anche se so già che non sarà possibile, nemmeno stasera, dormire.