I brevissimi 2006 – Cuore secco di Carlo Emiliozzi_Roma
anno 2006 (Le quattro virtù cardinali – La temperanza)
Ai diversamente abili
Val la pena esser solo, per essere sempre più io?
CESARE PAVESE
La mia diaristica mentale è senza tregua, in tempo reale: sa di
revisionismo. Le fregnacce che mi conto sono epico-sentimentali: io che
solo lotto in faccia alla malattia, per deriderla, per schernirmi; che difendo
la mia innocenza, perversione e dolcezza dalle durezze delle crisi.
Passate che sono le tempeste, riaffiorano le cose, i pezzi di progetti,
sempre meno fattibili dopo anni persi autisticamente nel mio ombelico,
pieno di convinzioni, vuoto di verità e di esperienze: un buon lavoro, gli
amici, una donna una donna una donna, la laurea le lingue e i viaggi, il
disegno il pianoforte, il jazz il blues la classica, non morire adesso, non
farmi arrestare, non divenire un Gregor Samsa qualunque senza mele né
soffitti; non impazzire, soprattutto: sarebbe la fine, non comunicare più
Ricominciare le letture? Comprare Papini, Swedenborg, Martinetti,
Shakespeare, Busi, Negri e Chomsky e Merini e Luzi, Fo e Michaux e altra
roba. Larvare ancora l’istinto coi principi e spiritualizzare la scimmia?
L acculturazione è un processo individuale irreversibile: qui non si corrono
pericoli.
Scrivo per scongiurare il pericolo: lasciare ai cari, di me, solo un guscio
vuoto di demente.
Scriverò con dignità mi darà la viola da gamba o al fagotto barocco.
Dignità per chi, di che, per che? Mi interessa quanto il borsino della
spigola.
Certo ci ho avuto il mio Inferno, magari non colmo, come quello di
Strindberg, di mani piagate e esperimenti alchemici, ma un discreto
inferno per un comune schizofrenico. Intercettazioni ambientali
appostamenti tradimenti inseguimenti cellulari videocamere spie impiccioni
derisioni articoli di giornale televisioni internet la pornografia la derisione
la derisione! Tutto contro di me!? A irridere la mia dabbenaggine PAZZO!
Manie di persecuzione, sindrome da influenzamento. Pessimismo del
temperamento e ottimismo della follia.
Sono solo uno di oltre sei miliardi ma lo dimentico spesso.
E allora giù antipsicotici, antidepressivi, ansiolitici, decaffeinati e antiacidi
e nicotina, burocrazia, giorni kafkiani, classe politica arrogante, donne che
non lo succhiano, uomini senza donne.
Sento il cuore secco: sigarette e solitudine.
Non invidio chi nasce oggi in Occidente: sempre più silicio e meno fosforo
avremo e non lotteremo che per il nostro tenore di vita.
Tutti hanno un cervello, questo deve far pensare? Il suicidio ha la
lungimiranza di un colpo di fucile. I buoni scoppiano come bare.
Vado avanti così in precario equilibrio, fumando con discreto appetito dal
pacchetto di Diana Blu: un piatto di cenere è la mia vita ora, un po’ di
pornografia e la filodiffusione la sera. Pornografia. Onanismo feroce.
L innocenza è un amore lesbico adolescenziale.
Simboli fallici ovunque a suggerirmi di rimettermi in carreggiata, quel
cocainomane di Freud ne sapeva troppo.
Preferisco, a questa democrazia della censura e dell’auto-censura, un
discreto film erotico.
Scrivere di politica è come cercare di inculare un gatto, scriveva Bukowski.
Nel caso di quella italiana il gatto diventa criceto o scoiattolo. Siamo in
guerra, spappoliamo donne e bambini. Come i terroristi. Stesse polveri da
sparo. Uno schifo indicibile. Se un cadavere va compianto guardane il
passaporto e il reddito annuo.
Le donne a qualcheduna, esser stato così didascalico da gridarle
MIGNOTTA!
In sanatorio io, in marzo, sul lettino, chiuso a riccio e rivolto verso la
finestra inesorabilmente chiusa, ascoltavo la Sesta fino a fine batterie. Poi
fumavo. Ma avevo i pensieri e allora a salvarmi venivano il cane di
Schopenhauer, Nietzsche contro gli antisemiti, la cicciona che
sverginµkowski, Baudelaire e le tette delle vecchie, il fucile di Hemingway,
Pavese e le donne e la pistola. I Genietti di Stevenson, Huxley ed Orwell,
la mignotta di Miller, London e la morfina e Pound e la gabbia. Kafka. Poe
e Dostojevskj e il Gioco.
Pensavo a Sofri, al doctor Morte, al mondo parallelo delle carceri.
Provavo a pregare ma non sapevo le parole allora bestemmiavo la Vergine.
I primi tre giorni: terrore senso di colpa e di morte, paura di essere
ammazzato, evirato, segregato per sempre. Non credevo all’11 settembre
nelle cronache dei giornali, non credevo più niente: pensavo che tutto
fosse uno scherzo ai miei danni. Istoriata la mia follia in cartelle cliniche!
I farmaci cominciavano a fare effetto e allora quelli lì mi stavano solo
curando. E non mi prendevano per il culo. Che poi cercavo di aiutare un po
gli altri offrendo sigarette e succhi di frutta ma ancora ero chiuso inibito
autistico come tutti loro del resto.
A spaventarmi c’era uno grosso enorme che voleva fumare fumare fumare.
Io davo. Ma soprattutto c era una donna (tanto per cambiare) a farmi
tremare. Veniva di soppiatto in stanza e si avvicinava molto, fissandomi in
silenzio, con un leggero sorriso negli occhi: lei non era inibita e questo mi
preoccupava.
Nella sala della televisione mi intercettò mentre stavo fumando, di
soppiatto si avvicinò moltissimo e mi prese la mano dolcemente, sempre
fissandomi prese la sigaretta: fece un tiro e la spense. Non protestai: la
mano che mi aveva toccato era nervosa calda e delicata.
“Io sono matta. Tu che dici ora?” sussurrò in accento rumeno.
“Anch’io” riuscii a risponderle, sottovoce.
I nostri incontri si infittirono. Non sapevo il suo nome ne lei sapeva il mio,
ci guardavamo senza parlare. Sapeva poco l italiano e si scaldava subito.
Era non bassa, mora, capelli corvini tagliati molto corti, forse lì dentro, i
seni piccoli e a punta, sensibili. I fianchi giusti ed il sedere tondo e molto
morbido. Non portava intimo sotto al pigiamino rosso che le stava largo:
era un po’ buffa, carina. Ma cercava tutti noi del padiglione maschile e
veniva scacciata dagli altri, forse non dagli infermieri Io l’accoglievo
perché avevo bisogno di lei come lei di qualcuno, l’affetto muto di un
contatto. Contatto come essere accettato. (I pazzi hanno forse un corpo?).
Monella, la chiamavo, e lei sorrideva piano e gemeva. Gemiti e risolini.
Fra le cosce democratiche della ninfomane rumena c’era la poesia di una
cosa triste, che diviene in segreto quasi gioia, di sicuro affrancamento dal
dolore. Monella era per me la prova di appartenenza al genere maschile e,
ancora, a quello umano.
Gli addetti alle pulizie ragliavano in coro il tormentone : “Sono fuori dal
tunnel del divertimento”, io ringhiavo.
Ero lì per aver minacciato la strage familiare in cambio della VERITA sul
COMPLOTTO nei miei confronti. “Esigo logica, se sono pazzo”, avevo detto
“ho da stare in manicomio”. Difatti.
Venne il giorno che dovevo uscire di lì l’infermiere mi gridò quasi: “Non
farti più vedere qui. Ci siamo capiti?”.
“Arrivederci” gli dissi, e uscii.
Prendo ancora i farmaci, ho pubblicato un libro di poesie tristi in giugno
(non ho il senso del ridicolo, giacché il giovine poeta gli flippava il cazzo
nel mezzo delle rappresentazioni orgasmiche), mi aggiro con timore per i
quartieri Marconi Portuense Magliana, con l’occipitale alla VanGogh, e il
passo spedito.
Quella farfalla non l’avrei dipinta ma fortunatamente è lì sul quadro, e
forse ce la faccio.
Appena fuori ci fu Madrid. Ero già esausto.