I brevissimi 2009 – Il mio insegnamento di Marina Arillotta_Ravagnese(RC)
anno 2009 (Le quattro virtù cardinali – La giustizia)
Ma che ne so. La gente è pazza, questo lo so per certo. Ho raggiunto
appena meno di quarant’anni e già ne ho abbastanza, è tutto molto
confuso. Le donne poi… pettegole, solo così mi viene da qualificarle.
Non è giusto. E dire che ritenevo ogni mio pensiero talmente corretto,
giusto. Cos’è la giustizia se non ciò che ogni uomo sceglie per sé e per gli
altri? “Virtù per cui si dà a ciascuno ciò che gli è dovuto”: ecco la sua
definizione riportata sul vocabolario – l’ho consultato appena ho potuto,
perché non capivo -. L’ho letta e riletta e c’è da impazzire, ancora mi viene
da masticarmi le unghie per quanto mi logora.
Ho rubato. Già, sono finalmente un ladro e fra poco quando uscirò di qui
anche le loro facce me lo diranno. Ogni giorno c’è sempre qualcuno che
ruba qualcosa ma non verrà mai giudicato. Non deve neanche scomodarsi
a farla franca. Ed ora sono quasi come lui, in virtù del gesto compiuto,
s’intende, perché come uno stupido credevo che avrei avuto lo stesso
trattamento, in qualità di uomo e di parità di diritti. E poi parlano di
giustizia! Meglio allora dire che è “ciò che ad un uomo conviene per sé e
per gli altri”. Ognuno cambia un significato a seconda dell’occorrenza.
A me hanno rubato me stesso.
Mi hanno disorientato: ti fanno crescere con convenzioni che spesso
trascinano con sé pregiudizi e chiusure mentali, che sono idonee ad una
coesistenza civile ed armoniosa, ma di colpo ti accorgi che ciascuno fa ciò
che vuole.
Mia moglie era incinta, ricordo con amarezza quanto eravamo felici per
l’attesa di questa seconda creatura. La vita restituisce ciò che si costruisce,
certo, ed io non sono mai stato uno studioso, ma perlomeno come orfano
sono stato scrupoloso nel procurarmi un lavoro dignitoso che permettesse
di mantenere la mia nuova famiglia. Ma un giorno la crisi me lo ha portato
via, così, come dire, come un soffio che è troppo leggero in paragone a ciò
che di più pesante mi aveva schiacciato. Come quelle tre parole
pronunciate con sprezzante disinteresse, almeno un’intonazione con un
po’di umanità le avrebbe sorprese ragionevoli:
– Ti devo licenziare.
“Devo” ma che significa “devo”, il concetto e la coscienza non cambiano,
con o senza il giustificarsi dell’essere obbligati. Quel foglio del
licenziamento da firmare ne aveva lo stesso peso.
Dopo: urla, pianti, l’amore di mia moglie divenuto disprezzo, la ricerca di
un lavoro anche il più misero ma niente, e ancora notti insonni, la testa
che mi ronzava per l’esaurimento, straziarmi a vendere quel poco che
possedevamo, ma sopra ogni tormento, la fame dei mie due figli. L’uno di
sei anni, l’altro non ancora al mondo ma già cosciente a tal punto dal poter
desiderare che non gli convenisse. Nei mesi successivi la liquidazione che
non voleva arrivare. Sembrava si fosse nascosta bene come quelle persone
che fuggono in un’isola deserta e scompaiono per sempre. Quando la sete
di giustizia si associa alla disperazione diviene un caleidoscopio rotto che
deforma le immagini. Forse non decisi neppure su due piedi, è probabile
che agii e basta quel giorno. Andai al market come di consueto a pregare
senza decenza affinché si ricordassero di rendermi ciò che mi spettava e
trovai l’ambiente vuoto – il proprietario era sicuramente nel retrobottega –
con quella cassa a cui avevo lavorato per decenni in primo piano e
purtroppo libera. “Virtù per cui si dà a ciascuno ciò che gli è dovuto”: mi
riempii le mani e le tasche di soldi e di sfogo e stranamente pari a un ladro
fuggii, urtando qualcosa che nel voltarmi sorpresi avesse due occhi
disorientati, vergognosi ed una bicicletta che lo fece rifugiare presto sul
grembo della madre a rivelare il visto. Era mio figlio. E lei mi denunciò. “…
si dà a ciascuno ciò che gli è dovuto”. Sono rimasto solo, l’innocenza di
quello sguardo conosceva unicamente il mio insegnamento di giustizia
nelle sua forma ancora pura, per il resto la vita farà da sé. Ma, ascoltatemi,
in nome della giustizia, ora vorrei solo riavere i miei figli.