I brevissimi 2009 – La giustizia di Ida di Margherita Bodini _Corbetta(MI)
anno 2009 (Le quattro virtù cardinali – La giustizia)
Menzione dell’associazione Energheia
La figura d’uomo che somigliava ad Enrico mi guardava. Per strada non
c’era nessuno e mi poteva osservare per intero. Erano solo le nove e già
l’afa aveva posato il suo velo opaco sulle case e sui miei capelli,
appiccicandoli al collo.
– Ida?
Quando sentii il mio nome pronunciato della sua voce, mi accorsi che
aveva un bel suono e che l’aveva detto con incertezza.
*
Quel pomeriggio avevo un appuntamento con Enrico al caffé di piazza
mercato. La piazza mercato è enorme e nera e ogni mattina frutta e
verdura vengono abbandonate lì a marcire, ad emanare odori dolciastri e a
venire spappolate. Catania è nera, come nera è la lava usata per costruirla.
A qualsiasi ora del giorno le pietre del lastricato bruciano. Anche un
decadente palazzo pubblico si affaccia nero sulla piazza, sbiadito da
decenni di sole cocente. Non posso dire se fosse a causa della calura
insopportabile, e nemmeno se fosse giusto o meno, ma quel giorno di
giugno inoltrato non andai al caffé.
Le persiane accostate, stavo distesa sul sofà a pancia in giù, un cuscino
appallottolato sotto la pancia. Mi dava piacere la sensazione del sangue
che si affrettava verso la testa, mi faceva una leggera pressione calda nel
collo e nelle tempie. Mi ricordai di una filastrocca con cui Enrico ed io
giocavamo da bambini. Nel cantarla fra i denti la trovai stupida; mi alzai a
bere per scacciarla dalla mente.
Un saltello in avanti
ed uno all’indietro
due passi in qui
e cinque in lì,
sopra la testa
batti le mani.
Dimmi,
di Biancaneve
quant’erano i nani?
Sette, come sette sono i peccati capitali, mi risposi. La canzonetta e il
numero sette mi condussero, per ambiziose vie della mente, a relazionare i
nani lavoratori con le antivirtù deturpatrici. Piccoli uomini dai sani principi
e pericolose donne senza tempo che minano l’integrità morale. Mai la lotta
all’eguaglianza tra i sessi si sarebbe sentita più ingiustamente ridicolizzata.
Mi dissi poi che Gola non era degna d’essere inserita tra le grandi
peccatrici. I parroci che avevo incontrato fino a quel giorno si potevano
senza dubbio annoverare tra le persone più fedelmente seguaci della
buona cucina. In stretto ed evidente rapporto con essa sta poi Lussuria,
pure condannata alla vergogna. Qualsivoglia mezzo si potesse cercare per
sedare la fame d’amore, con me non aveva mai funzionato, e avrei voluto
sapere se chi ci riusciva ne era davvero felice. Annotai infine anche la
sig.na Accidia nella triade innocente. Stare sdraiati per un giorno intero col
proprio innamorato e non occuparsi di faccende terrene… lo trovavo più
giusto della solitudine di quell’angolo senza mare che era il mio bilocale.
Mi chiesi come pensasse Enrico ora, se avrebbe ritenuto ridicoli questi miei
pensieri. Sarei voluta andare a chiederglielo, ma l’odore di pesce fritto del
piano di sopra si infilava nelle persiane e appesantiva la mente. Cercai di
stabilire quand’era successo che ci eravamo sentiti troppo grandi per poter
giocare insieme con le filastrocche, ma non ci riuscii. Ricordai solo che
avevo iniziato ad inventare canzonette tutte per me, quando accompagnavo
mio padre al porto.
Ida Idabella
il nastro fa la vita snella
la gonna una ruota,
idee nella testa vuota.
Fai una riverenza
amo canna e lenza
retino e cestello
Enrico è il più bello.
La luce ora cadeva tanto obliqua da sembrare orizzontale e la stanza era
diventata color pompelmo. Enrico mi aspettava al caffé ormai da ore,
probabilmente se n’era andato da tempo.
*
Ricordo chiaramente che quella notte non riuscii a dormire. La piana di
Catania ribolliva in 34 gradi di sudore e umidità, l’Etna si stagliava enorme
e scherniva gli assetati insonni con la sua cima bianca di neve, sotto la
luna. Mi aggiravo per la cucina alla ricerca di correnti d’aria salmastre che
il mare spingeva su qualche battigia ad oriente… Mi vestii ed uscii. Passai i
resti dell’anfiteatro romano, i giardini di Villa Bellini, Via Etnea, vuota e
muta nella notte, poi una lunga colonna di cartelli stradali. Sugli ultimi
due, sbiaditi dal tempo e dal sale, si leggeva con fatica Linguaglossa e
Fiumefreddo. Due villaggi dispersi ai piedi del vulcano, due nomi che tanto
ci avevano fatto ridere da piccoli. Linguaglossa era un paese tutto polvere
e pietre, un odore di lava secca che si attaccava subito in gola, pecore
miserabili al pascolo in terra arida. C’ero stata una domenica con Enrico e
avevamo deciso di non tornarci. Ma un giorno un giovane di Linguaglossa
era venuto a Catania ad aiutare mio padre al porto. Era venuto anche il
giorno dopo e quello dopo ancora e avevamo finito col baciarci. Era moro
e si diceva che fosse bello. Passammo l’estate insieme e anche l’autunno.
Quando però arrivò l’inverno e iniziò a portarmi carne e zuppa di pecora
dal suo paese, mi accorsi che non sapevo che farmene. Mi dava prurito
l’averlo attorno e soprattutto non sapere di che parlargli e decisi di non
incontrarlo più. Mi ero distratta così a lungo che, nel frattempo, Enrico se
n’era andato da Catania. Sua madre mi disse che si era trasferito sul
continente per studiare all’università. Pensai che all’università ci si poteva
andare anche in Sicilia.
Ero giunta al mare e avevo messo i piedi ammollo nell’acqua tiepida
della notte. Lo Ionio ondeggiava tranquillo e dolcissimo, mi rinfrescava.
Pensai che doveva avere un’infinita pazienza nel rigettare acqua e
conchiglie a riva da secoli.
*
Il giorno dopo passeggiai in piazza del mercato e comprai pomodori
freschi e rossissimi. Portavo un vestito bianco che quasi faceva male a
guardarmi contro il muro dell’antico palazzo nero. Vidi la figura d’un uomo
che somigliava ad Enrico che mi osservava dai tavolini del caffé. Mi
avvicinai e chiesi che sapore avesse la granita dopo tanto tempo. Enrico
continuava a guardarmi e non rispondeva. Lo invitai a vedere la mia casa.
Tre baci sul petto
uno colpisce al cuore
un morso al labbro
e quattro per amore.
Una mano sul seno
una mano sul collo
il piede in spalla,
pronti, si balla.
Lo scirocco entrava delle finestre aperte.
Che cosa studi all’università? chiesi.
Botanica.
Sì, l’avevo chiesto a tua madre.
Tu?
Storia.
Anch’io lo sapevo già.
Ti ricordi di quando andammo all’orto botanico di Palermo?
Sì.
*
Com’era venuto, il mattino seguente Enrico se n’era andato. In tasca
avevo un foglio ripiegato in otto parti con un indirizzo nuovo, dal sapore di
metropoli. Anche quel giorno c’era un sottile strato opaco sopra la città, il
mercato vociava e puzzava, il lastricato ardeva. Ricopiai l’indirizzo nella
rubrica e decisi di spedire una fotografia dello Ionio sul continente.
letto senza fiato…Con ammirazione assoluta. Grazie