Apocalisse_Clelia Fiore, Salerno
_Racconto finalista ventesima edizione Premio Energheia 2014.
La pelle è verdastra. Gli occhi, iniettati di sangue, mi scrutano famelici e il cranio, spaccato a metà, lascia intravedere la parte destra del cervello ormai marcio. Parte dei pantaloni, sudici e stracciati, ricadono mollemente sulla strada. Il mio sguardo abbandona l’orrenda visione per spostarsi sul paesaggio intorno a me. Desolato è l’unica parola che mi viene per descriverlo: le macchine sono ferme ai lati delle corsie, alcune hanno vetri spaccati e macchie di sangue rappreso sui vetri, altre appaiono volontariamente abbandonate con gli sportelli aperti e i portabagagli sollevati. Quante di quelle persone sono effettivamente riuscite a fuggire? Quante sono ancora vive?e, soprattutto, quante ancora hanno voglia di continuare a lottare? Intorno a me c’è un silenzio profondo, non confortevole, ma neanche inaspettato. E’ un silenzio a cui sono abituata e che accolgo con piacere, perché significa che nessuno è in pericolo. Non in quel momento, non su quell’autostrada. Ma ecco, il silenzio è rotto da un gorgoglio inquietante, proveniente da quella…cosa. Avanza verso di me, trascinandosi quasi disperatamente con entrambe le mani. Cerca di raggiungermi, nonostante l’assenza di gambe. Lo sguardo è famelico e privo di qualsiasi emozione umana, a parte l’ingordigia. Visualizzo chiaramente le mosse che farò da lì a poco. Non è la prima volta che uccido uno di quegli esseri e di certo non sarà l’ultima. Così allungo quasi meccanicamente il braccio all’indietro per afferrare il coltello che tengo dietro la schiena. Chiudo la mano su quella che dovrebbe essere l’elsa, ma il mio pugno stringe l’aria. Sbalordita da quest’inconveniente, mi accorgo lentamente di non avere alcuna arma a portata di mano, ma non mi faccio prendere dal panico. Sono di solito una di quelle poche persone che, in momenti di difficoltà, riescono a tenere il sangue freddo e a pensare lucidamente. So già cosa devo fare: il non-morto è disteso a terra, una mano tesa verso di me nonostante la distanza che ci separa; non sarebbe difficile sfondare il suo cervello con qualche calcio. Ma non posso muovermi. Non sono ferita, non ancora almeno, ma le mie gambe sembrano non funzionare. Aggrotto la fronte senza riuscire a capire il problema. Non è una situazione impossibile, né diversa dalle tante altre che ho dovuto affrontare. Non ho paura. Non ho paura! No! – mi rendo conto dopo un istante – sono terrorizzata!. Osservo con gli occhi sbarrati il non morto, e sento un brivido percorrermi la schiena. Ho voglia di urlare, ma la mia bocca non ne vuole sapere di aprirsi. Deglutisco pesantemente, perché è l’unica cosa che riesco a fare. E’ ridicolo. Mi sento ridicola. Razionalmente so che non dovrei sentirmi così spaventata, perché ne ho passate così tante da essere diventata quasi insensibile a questo genere di cose, ma la paura non è razionale e sento le mie gambe tremare. Qualche secondo e sono in ginocchio, al livello della carcassa vivente. Lo zombie ormai è poco distante dal mio viso. Afferra la mia gamba, mi tira verso di lui e il mio corpo si prepara all’inevitabile. Il suo viso putrefatto si avvicina e posso già sentire i suoi denti marci penetrare nella mia guancia. Ma allora inizia a mutare. I pochi capelli, prima grigi, diventano scarlatti e gli occhi, prima di un azzurro innaturale, diventano meno brillanti, fino ad assumere una tonalità di verde che mi è molto familiare. Allora… mi riconosco. Apro gli occhi di scatto, ansante. Con un rapido movimento afferro il coltello che tengo sotto il cuscino e mi piego in avanti, ringraziando per un folle attimo di potermi muovere. Impiego ancora qualche secondo per capire che non c’è alcuno zombie nelle vicinanze, che mi trovo nel mio rifugio sotto terra, nel mio letto, insieme a quelle che – e questa novità non smetterà mai di stupirmi – sono arrivata a considerare mie amiche. Qualche altro secondo e gli occhi iniziano ad abituarsi al buio della stanza, completamente di colore bianco. Non per scelta mia ovviamente, ma i tizi dell’ organizzazione per cui lavoravo in passato non avevano molta fantasia. Mi distendo sulla schiena e il mio sguardo vaga sulle altre due ragazze con cui condivido la stanza. Charlotte, sul letto alla mia destra, mi dà la schiena e di lei posso solo vedere i lunghi capelli color del grano. Shawnee, invece, mi mostra il suo viso sereno, perso in quello che spero sia un bel sogno. Cosa stai sognando Nee? Ripensi ai bei tempi andati, vero? Quando l’unica tua preoccupazione era quella bestia del tuo capo, che ti faceva la guerra ogni volta che entravi in ufficio?” Prendo un lungo respiro e mi alzo, convinta che ormai non riuscirei più ad addormentarmi. Mi dirigo nel piccolo bagno a pochi passi dalla stanza da letto e poggio entrambe le mani sui bordi del lavandino. Guardo il mio riflesso allo specchio, quasi timorosa di scoprire i segni della mutazione. Emetto un respiro di sollievo non appena vedo che, sì, sono sempre la stessa Scarlett: capelli lunghi e ricci, di colore rosso, contornano un viso dai lineamenti delicati; grandi occhi verdi, naso piccolo e dritto, labbra carnose, rosee e ben delineate. Un aspetto innocente cela un’ identità tutt’altro che mite. Quando ancora c’era una vera vita sulla terra, ero un agente segreto. Assassina provetta, uccidevo i miei obbiettivi senza ripensamenti, seguendo delle regole morali che solo io conoscevo. Non è cambiato molto dopotutto, ma ancora non riesco a capire quale dei due mondi odio di più: se quello in cui ero manovrata da gente “superiore” o quello in cui il caos regna sovrano. Forse preferisco l’apocalisse. Niente acqua corrente, cibo quasi inesistente e perenne sensazione di pericolo. Ecco come si vive di sopra. Per fortuna, nel rifugio possiamo permetterci alcuni “lussi”, infatti non corriamo il rischio di morire di fame o di sete. Aggiungiamo poi armi in quantità e completa assenza di zombie, e potete farvi un’idea di come deve essere un paradiso quando al mondo ci sono più morti viventi che persone vive. Tuttavia vivere all’interno di quattro mura non è il massimo, per cui qualche volta decidiamo di correre il rischio di uscire per goderci il calore dei raggi solari. Apro il rubinetto e chiudo la mano a coppa sotto il piccolo getto d’acqua. Mi porto le mani al viso, bagnandolo e rinfrescandolo. Rigiro la manovella e mi asciugo il volto, poi mi dirigo verso la cucina, per il mio solito rito. Da un po’ di tempo, infatti, continuo ad accendere la radio, con la speranza di ritracciare qualche sopravvissuto. Porto indietro la sedia e mi siedo. Inizio quasi senza speranza a cambiare frequenza e spero distrattamente che il rumore della radio non svegli le due ragazze che stanno riposando nella stanza affianco.
– Aiuto! Qualcuno mi sente?…C’è..c’è qualcuno?
La voce di una donna disperata mi ferma la mano e, pietrificata, spingo il busto in avanti guardando la radio. Mi schiarisco la voce, premo un pulsante e dopo un attimo di esitazione, avvicino le labbra al microfono.
– Qui Scarlett, ti sento forte e chiaro.
– Oh mio Dio! Tu puoi aiutarmi? Ti prego, ti prego aiutami!
Mi mordo il labbro per evitare di rispondere affermativamente. Per quello che so, quella donna potrebbe trovarsi all’altro capo del mondo e sarebbe inutile darle false speranze. Sento il lamento di un bambino ma non mi scompongo. Il mio addestramento mi ha insegnato come mantenere la freddezza in situazioni del genere.
– Indicami la tua posizione.
– Sono sul palazzo del New York Times!
Stringo le labbra e chiudo gli occhi, sentendo la delusione crescere. New York, enorme cittadina probabilmente piena di zombie e troppo lontana per essere raggiunta a piedi. Stringo i pugni e osservo le nocche sbiancare. Poi rispondo con distacco.
-Non posso raggiungerti, sono troppo lontana.
Segue un lungo silenzio, so che ho appena spento l’ultima luce di speranza in quella donna.
– E ora cosa faccio? C’è mia figlia qui con me!
Alzo le sopracciglia sorpresa di risentire la sua voce.
– Descrivimi la situazione.
Non posso raggiungerla, ma voglio cercare di aiutarla a distanza, magari indicandole le mosse da fare per evitare gli zombie. Potrebbe trovare un mezzo di trasporto ancora in funzione e…….
– Sono sul tetto, quelle…cose… premono contro la porta…cercano di sfondarla..ti prego! Ti prego!…Non so cosa fare!
Sento il panico nella voce della donna e i singhiozzi della sua bambina, ora decisamente più vicina. Faccio un profondo respiro. Sono spacciate. Sento la mia espressione irrigidirsi e diventare, se possibile, ancora più inespressiva. Assurdo come, anche quando in teoria sarei libera di dare sfogo alle mie emozioni, la forza dell’abitudine mi spinge a nasconderle il meglio possibile. Risoluta, le illustro chiaramente cosa fare.
– Hai due possibilità..o aspetti che gli zombie sfondino quella porta, raggiungendo te e tua figlia, oppure prendi coraggio e… salti giù da quel tetto.
Altro momento di silenzio. Sento una mano sulla spalla e giro lentamente il viso, ritrovandomi a guardare le ragazze. Mi osservano con un espressione tetra e so che hanno sentito tutto, infatti spostano entrambe le sedie, prendendo posto al tavolo.
– Non..posso..io non..posso…..
La mia attenzione si sposta di nuovo sulla radio e velocemente interrompo quello che so sarebbe solo un insieme di frasi senza senso.
– Hai intenzione di lasciare che quegli esseri vi mangino vive?
Forse sono stata troppo dura, l’occhiata severa che mi sta lanciando Charlotte è piuttosto esplicita.
– Va bene io…
La frase è interrotta da un rumore assordante, un ammasso di ringhi, un forte suono acustico. Poi il silenzio. Il fruscio della radio ora diviene insopportabile. Mi fa venire voglia di ribaltare il tavolo e scagliare qualcosa contro il pavimento. Voglio gridare e battere i pugni contro il muro solo per trarre conforto dal dolore, che in quel momento è l’unica cosa che conosco. Ma resto ferma al mio posto, i palmi distesi sul legno del tavolo e l’espressione vitrea. E a quel punto succede una cosa inaspettata, una cosa che non mi capitava da quando avevo quattro anni e ancora non conoscevo la paura, perché quella l’avrei incontrata a sei anni, quando sarei stata iniziata nei ranghi dell’esercito. Sento qualcosa di bagnato rigarmi la guancia e sollevo, sorpresa, una mano a toccare la scia di acqua salata. Inizio a piangere in silenzio. Piango perché avrei dovuto mettere un punto alla mia misera vita quando ancora ne avevo l’occasione, prima dell’inizio dell’apocalisse e prima di riuscire in qualche modo a fare breccia nel cuore di due ragazze che si aggrappano a me con forza, perché rappresento l’unica costante in un mondo imprevedibile. Piango perché è l’unica decisione che posso prendere che non influenzi in alcun modo chi mi sta accanto. Perché qualche lacrima non può uccidere nessuno e io sono stufa di tutta questa pressione, sono stufa di sentirmi responsabile di tutto ciò che accade intorno a me. Piango perché era tutto così semplice prima, quando le mie azioni erano controllate da qualcuno sopra di me e mi ripetevo che non avevo altra scelta. Buffo vero? L’intera mia vita è stata dettata da regole amorali, istruzioni da seguire, modalità comportamentali, segreti da nascondere. Ho desiderato così tanto di essere libera, di essere padrona di me stessa, perché una volta districata dai fili dell’organizzazione allora tutto sarebbe cambiato. Avrei vissuto una vita degna di essere considerata tale. Che illusa che ero stata! Perché una scelta l’avevo sempre avuta. Si ha sempre una scelta e la mia era stata quella di lasciare che degli sconosciuti mi usassero come un burattino. Avevo scelto di porre fine a quelle vite, non perché ero costretta, ma perché non avevo la forza di ribellarmi. La verità è che ero un’assassina e lo sono ancora, in un modo o nell’altro. Preferirei trovarmi da sola nel mio unico attimo di debolezza, ma ci sono loro e le vedo scambiarsi sguardi preoccupati e stupiti, perché sono stata la loro scialuppa per tanto tempo e ora sto lentamente affondando in un mare di lacrime. Ancora un attimo e sento quattro braccia forti intorno alle mie spalle e alla mia vita… e io non posso fare altro che accettare le loro carezze, trarne conforto e utilizzarle in qualche modo per tornare a galla.