Bambini ancora per poco_Rosa Scarlatella
_Questa sera, caro Marcus, ti racconterò una favola molto speciale. Non si tratta di una storia come tutte le altre. Non ci sono castelli e magie, i protagonisti non sono principi in sella ad un bianco destriero, né principesse dai lunghi capelli.
Questa è la storia di un bambino che non aveva paura.
Sfortunatamente, la sua famiglia aveva paura anche per lui. In particolare, la madre del bambino era talmente terrorizzata da accatastare pile su pile, montagne, discariche gigantesche, di paure infondate, una più insensata dell’altra. Essendo infondate e, per natura, un po’ traballanti, impilate come stavano una sull’altra, spesso e volentieri finivano per creare un enorme valanga di paure, che la sommergeva fino a che ogni angolo del suo corpo non era punzecchiato da un terrore diverso. Quando questo accadeva, la povera donna impazziva: girovagava irrequieta per la casa, tremante, e chiedendo che tutti in casa cessassero di fare ciò che stavano facendo, perché qualcosa di terribile stava per accadere, “se lo sentiva”. Il bambino, sguazzante come un pesce immerso in un oceano di timori, era cresciuto sano e con la curiosità sufficiente da provocare un’ulcera gastrica alla madre. Aveva troppe domande, e pochi timori che lo tenessero lontano dalle risposte che tanto cercava.
Poi accadde che il bambino, malgrado il dispiacere dei genitori, inevitabilmente, crebbe. Raggiunse quell’età particolare in cui le creature dei sogni si rivelano agli occhi dei bambini che, oramai, lo saranno ancora per poco. Curioso, penserai, che creature favolose, come fate e folletti, siano compagni di vita degli adulti, in questo strano mondo, e siano invece invisibili agli occhi infantili. La verità è che si tratta di un’ancora di salvezza: la realtà si adatta per mostrare materialmente agli adulti ciò che ai bambini è sufficiente immaginare. Dunque, in questo strano mondo, quando l’immaginazione comincia ad affievolirsi come un filo consunto, i bambini-ancoraperpoco incontrano un folletto, un compagno fidato che li terrà legati, ben stretti alla fantasia durante l’età adulta.
Un giorno come tanti altri, il bambino si accovacciò in silenzio accanto al padre che sedeva sulla poltrona.
“Sai, oggi ho visto un folletto. Come tutti gli altri bambini che conosco…”
Il padre lo interruppe bruscamente, euforico: “Oh, ma è meraviglioso! Il primo folletto a rivelarsi ai tuoi occhi! È una cosa importante, bisogna festeggiare! Ehm, Margaret!! Margaret, vieni qui! Margaret!”
“Era veloce come il vento, papà. Correva come un matto. Non riuscivo a seguirlo con lo sguardo. Correva, e il punto in cui un attimo prima era fermo ad osservarmi, finiva subito alle sue spalle, come se non riuscisse a stare a suo agio in nessun punto, fermo”.
Il bambino vide il padre impallidire, aprire la bocca in una smorfia di terrore, poi si ricompose a forza. Chiamò Margaret – perché diavolo non arrivava?
“Margaret! Margaret, vieni qui! Margaret! Il piccolo ha visto un folletto”.
Ma il bambino non aveva visto solamente un folletto. Quello che aveva visto il bambino, era il folletto del Poi, un folletto talmente veloce da essere stato incaricato di trascinare il futuro qui, verso il presente, in modo da permettere lo scorrere del tempo. Si vociferava che solitamente invitasse i bambini a correre con lui e poi, beh, chissà dove li avrebbe portati. Il terrore era che li trascinasse troppo velocemente verso il futuro e lontani dall’infanzia.
Il folletto tornò dal bambino. Tornò a cercarlo per uno, due, tre giorni, e poi i giorni divennero mesi e il bambino viveva chiuso nella sua stanza, nella fortezza che Margaret si era tanto premurata di costruirgli. Temeva gli portassero via il suo bambino. Nessuna creatura vivente, magica che fosse, ne aveva il diritto. Coprì ogni spiffero, ogni insignificante ma possibile via d’entrata per i folletti. Il bambino piangeva, voleva rivederlo, voleva poter avere un folletto per sé. Ma i genitori non glielo permisero. Nel terrore di vedere il proprio figlio crescere troppo in fretta a causa di uno stupido folletto, gli sottrassero a poco a poco ciò che restava da vivere della sua infanzia, attraverso le pareti ermeticamente sigillate della stanza in cui lo rinchiusero, nella speranza di tenerlo con loro un po’ di tempo in più.
Caro Marcus, ti avevo già anticipato che questa non fosse una storia come tutte le altre. Probabilmente non è neanche la storia di un bambino senza paura, come ti avevo detto. Penso di averti appena narrato la storia di come una paura si crea e si alimenta da sola, e più essa diventa forte in una singola persona, tanto più diviene contagiosa.
Il futuro attanaglia l’animo degli uomini da quando l’uomo si è accorto dell’esistenza del tempo, questa strana cosa che leviga le montagne e traccia rughe sui visi stanchi. Lo si può accettare, lasciando che dolcemente ci trascini; oppure, inutilmente, remare contro le lancette di un orologio che avanzano, contro le pagine di un calendario che cadono nell’ombra di un altro anno trascorso.
Il futuro remoto, ben presto, non sarà più così lontano. Indosserà presto i panni del domani, poi del presente. E ancora, diverrà ieri, e poi una data scolorita sulle pagine di vecchi quotidiani.
Ma tu, o caro Marcus, tu lascia che scorra.