Bjork_La chanteuse dei ghiacci
_di Claudio Fabretti
La sua carriera musicale l’ha rivelata chanteuse sopraffina e icona del nuovo pop elettronico trans-nazionale. E la sua interpretazione in “Dancer in the dark” di Lars Von Trier le è valsa la Palma d’oro a Cannes. Ma nella sua vita non sono mancati anche i momenti drammatici. L’affascinante storia di Bjork, il folletto venuto dai ghiacciai
Folletto, principessa dei ghiacci, elfo, cartone animato, eroina da videogioco. Sono tanti gli appellativi fantasiosi che hanno circondato la carriera di Bjork Gudmundsdottir da Reykjavik, Islanda. Una carriera che l’ha consacrata star del pop alternativo degli anni Novanta e personaggio tra i più bizzarri del mondo dello spettacolo.
Sono tornata in Islanda e sono rimasta a vivere per un po’ sulla cima di una montagna, dove tutto ciò che potevo sentire era il crepitare del ghiaccio, con i campi di lava che sfrigolavano sotto. Era veramente techno.
(Bjork)
D’altronde Bjork (“betulla”, in islandese) ha sempre amato gli eccessi. Ha recitato a lungo la parte della diva, tra capricci e look eccentrici. Ha accumulato folle di fan isterici. E anche per questo ha rischiato di finire in frantumi. È successo tutto nel 1996, “l’anno dello schianto”. A Bangkok, in preda a una crisi di nervi, ha aggredito una troupe televisiva che stava riprendendo il figlio Sindri. Poi, qualcuno le ha inviato un pacco-bomba, intercettato per miracolo dalla polizia: il mittente, un fan ossessivo, si è suicidato poco dopo. Lo shock ha impresso una svolta alla sua vita: “Ho dovuto frenare, dare un taglio a tutto lo schifo che mi circondava – racconta – Per questo sono tornata in Islanda e sono rimasta a vivere per un po’ sulla cima di una montagna, dove tutto ciò che potevo sentire era il crepitare del ghiaccio. Era nero, le luci del Nord giravano intorno a uno strato di nuvole, con i campi di lava che sfrigolavano sotto. Era veramente techno…”. Già, techno come è anche la musica di Bjork. Ma non solo. Dance, pop, trip-hop, house, punk, industrial, funk, soul-jazz: sono alcune delle etichette che la critica ha tentato di dare alle sue canzoni.
In realtà, il “sound” di Bjork sfugge alle classificazioni. È una miscela di battiti cupi e tastiere elettroniche, campionature e sinfonie d’archi, su cui si innesta una voce unica, capace di passare da urla sfrenate e rantoli agonizzanti a gorgheggi sensuali stile Broadway.
Tra gli hippie sui ghiacci
“Per me, cantare è sempre stato qualcosa di puro, il mio modo di dialogare con le cose – racconta – Mi è sempre piaciuto cantare nel vento, sotto la pioggia, in una tormenta di neve, su un torrente di lava… Io contro gli elementi”. Una vera forza della natura, insomma, che si è manifestata fin dall’infanzia, quando Bjork viveva con i genitori in una comune hippie a Reykjavik: “Ho pensato a lungo che fosse fantastico. Avevo sempre intorno gente che passava ore e ore a raccontarmi storie, a scherzare e a sognare improbabili viaggi collettivi a bordo di una grande nave. Poi, intorno ai sette-otto anni, ho finalmente chiesto loro: ‘Perché non vi mettete a fare qualcosa?’ Da quel momento, sono diventata iper-attiva. E ho sviluppato una volontà d’acciaio”.
La prima volta che sono stata veramente orgogliosa di me è stato quando ho suonato un mio brano al pianoforte per la morte di mia nonna.
(Bjork)
Così, il piccolo elfo dei ghiacci, già undicenne, compone un album di canzoni pop demenziali che in Islanda vende settemila copie, diventando “Disco di platino”. “Ma la prima volta che sono stata veramente orgogliosa di me – ricorda – è stato quando ho suonato un mio brano al pianoforte per la morte di mia nonna”. Poi, la militanza precoce in una serie di gruppi punk: a 13 anni suona negli Exodus, a 14 nei Tappi Tikarrass, a 18 nei Kukl; quindi, nel 1987, fonda i Sugarcubes insieme a Thòr Eldon (suo ex-marito e padre di Sindri), dando vita a un pop danzereccio, godibile, ma senza grandi pretese, di cui è manifesto (e unico hit) il singolo “Birthday” del 1987.
La sua carriera solista è una continua accelerazione verso la stardom. Dopo Gling-Glo, una raccolta di classici islandesi, è nel 1993 con Debut che arriva il primo, grande successo internazionale. Con questo disco, Bjork conia una nuova formula di pop, in bilico tra techno e avanguardia, capace di appassionare al contempo gli abitue’ delle discoteche e i cultori di indie-rock. Merito di brani sempre potenti e immaginifici, sensuali e ammalianti fin dalle prime note. Ascoltare per credere l’upbeat di “Crying” o la ballata sinuosa di “Big Time Sensuality”, la filastrocca magica di “Venus As A Boy” o le pulsazioni ossessive di “Violently Happy” (quasi un manifesto dell’esuberanza incontrollata della cantante islandese), la soffice “Human Behaviour” o l’incedere cupo della splendida “Play Dead”. Un debutto folgorante, insomma: dodici canzoni unite da arrangiamenti superbi e da una voce già inconfondibile, capace di improvvise escursioni di registro, di trastullarsi dolcemente prima di inerpicarsi su sentieri tortuosi e inaccessibili ai più.
Le sonorità sono prevalentemente elettroniche, fredde e ghiacciate, ma Bjork sfodera anche strumenti acustici a sorpresa, come l’arpa che accompagna l’eterea “Like Someone In Love” o la tromba che gioca a ipnotizzare l’ascoltatore in “The Anchor Song”. Il segreto del disco è anche nella perfetta miscela tra ritmi e melodie, tra suoni e rumori, tra strutture armoniche semplici e arrangiamenti sempre eccentrici e spiazzanti.
Per Bjork è l’inizio di un successo mondiale che sarà poi consacrato dal premio Mtv come miglior artista femminile (1995), da due Brit Award come miglior cantante e da una decina di milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Per una volta, però, ai trionfi sul versante commerciale si abbina anche il plauso praticamente unanime della critica.
Il successivo Post (1995) accentua la vena sperimentale di Bjork, con architetture sonore sempre più raffinate e complesse. I battiti techno si fanno più corposi e spesso costituiscono il vero scheletro dei brani – l’incalzante novelty di “I Miss You”, la dance lussureggiante di “Enjoy” (in collaborazione con Tricky), lo psicodramma cupo di “Army Of Me” – altre volte invece è la melodia a prendere il volo, sfruttando arrangiamenti quasi sinfonici (la struggente “Isobel”), o addirittura revival swing, come nel caso della spiazzante “It’s Oh So Quiet” (vecchio brano inciso dall’attrice/cantante Betty Hutton), quasi un tributo di Bjork alla sua passione per Broadway. Ma la cantautrice islandese prosegue anche la sua esplorazione dello spirito primigenio della Natura, con il recupero dell’arpa e dei rumori catturati dal vivo in “Cover Me” o con l’uso onomatopeico della voce in “Zing Boom”.
Musicalmente più vario e curato dell’esordio, Post non ne rinnova tuttavia l’esuberanza e la continuità, perdendosi in qualche eccesso d’autocompiacimento e smarrendo, a tratti, quel filo che Debut era riuscito a mantenere dall’inizio alla fine. Bjork, comunque, si conferma artista ormai matura, pienamente padrona del suo strumento principe (la voce) e a suo agio sui più svariati versanti musicali.
Ho sempre pensato che il nostro sistema nervoso, se amplificato, produrrebbe il suono di un violino, di una viola o di un violoncello.
(Bjork)
Violini e sensualità
Dopo l’immancabile album di remix (Telegram, 1996), la sua carriera musicale, sempre accompagnata da uno stuolo di professionisti del suono (da Howie B. a Tricky, da Goldie a Mark Bell), raggiunge il suo apice nel 1997 con Homogenic: un disco scuro e romantico, costruito attorno a campionamenti, battiti elettronici, dissonanze e accordi di violini. “Adoro gli archi – ha raccontato Bjork – e ho sempre pensato che il nostro sistema nervoso, se amplificato, produrrebbe il suono di un violino, di una viola o di un violoncello”. Ascoltare per credere la struggente sinfonia di “Bachelorette”, sorta di versione ancor più cupa e drammatica del trip-hop di matrice Portishead, nonché saggio di sensualità senza freni: “I’m a fountain of blood, my love, in the shape of a girl” (“Sono una fontana di sangue, amore mio, con la forma di una ragazza”). Una sensualità che Bjork definisce “oltraggiosamente ingorda” e che abbina a una voracità altrettanto smodata (riesce a mangiare perfino intere bistecche crude!).
A conferma che Homogenic sia un disco straordinario, basti ricordare che cinque tracce su dieci sono state pubblicate anche come singoli. Si tratta della stessa “Bachelorette”, di “Joga”, straordinario melange di violini, violoncelli e high techdominato dal suo contralto cristallino, di “Hunter”, altra geniale partitura thriller nel solco di “Play Dead”, di “Alarm Call”, ossessiva e magnetica ballata techno, e della più melodica e radiosa “All Is Full Of Love”, prodotta da Howie B.
Non sono da meno, comunque, anche gli altri brani, con una menzione speciale per il bizzarro esperimento tecnologico di “Pluto”, per gli arrangiamenti maestosi di “Unravel” e per le dissonanze elettroniche di “5 Years”.
In Islanda, Bjork diventa una figura istituzionale. Il premier David Oddsson le promette di darle in usufrutto l’isoletta di Ellidaey, di proprietà dello Stato, precisando che “Bjork ha fatto molto più della maggior parte dei suoi connazionali per rendere famosa l’Islanda”. E la stessa artista, in perenne migrazione tra Londra, Spagna (dove ha incisoHomogenic) e New York, non rinnega le sue radici: “Noi islandesi siamo più soggetti alla depressione, perché viviamo con poca luce. D’inverno è buio quasi tutto il giorno, d’estate non è molto meglio. Ma abbiamo sviluppato una speciale immunità anti-depressiva, di cui l’arte è una delle espressioni. E siamo anche i più grandi ribelli del pianeta. È per questo che non abbiamo un esercito: non potremmo mai marciare tutti allo stesso ritmo”. Il suo idolo da bambina non era una rockstar, ma Albert Einstein. Oggi, dice di adorare i romanzi “tropicali” di Garcia Marquez (“così lontani dalla mia terra, ma così vicini alla mia sensibilità”) e i film di Jane Campion, in particolare “Lezioni di piano”, “che ogni fan di Bjork dovrebbe vedere”. Ma ha annunciato di avere già abbandonato ogni velleità di attrice. “La mia unica ambizione – spiega – è la musica. Solo nel mio studio di registrazione mi sento nel mio mondo, vivo i miei sogni, canto e sono me stessa”.
Ho sofferto, perché non sapevo accettare che quello che accadeva a Selma fosse finzione; per me era tutto vero. La musica è gioia, il film è stato dolore.
(Bjork, a proposito di “Dancer In The Dark”)
Nell’inferno di Von Trier
E’ apparsa così una sorta di “tortura”, per Bjork, la partecipazione, nei panni della protagonista, al film di Lars Von Trier “Dancer in the Dark”. Un sacrificio che le ha fruttato, però. E molto. Pochi, infatti, avrebbero immaginato che, al suo debutto sul grande schermo, la cantautrice scandinava avrebbe vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes come miglior attrice. A stregare i giurati è stata la sua interpretazione di Selma in una pellicola (cui è andato anche il premio per il miglior film) che è a metà tra musical e melodramma: una favola nera che fa a pezzi il “sogno americano”. Un film atipico in cui Bjork canta, balla, ama, soffre e si immola, con un sacrificio che ricorda molto quello di Emily Watson in “Le onde del destino”, l’altro successo del regista danese. Quello tra la rockstar islandese e il regista “maledetto” di “The Kingdom” è stato un rapporto turbolento fin dall’inizio. Bjork si voleva occupare solo delle musiche, Von Trier l’insaziabile ha preteso di immortalare anche il suo volto infantile, dagli inconfondibili tratti lapponi. E alla fine l’ha spuntata. Ma per Bjork diventare Selma, giovane immigrata dalla Cecoslovacchia e sull’orlo della cecità, è stato come annullarsi: “Ho sofferto, perché non sapevo accettare che quello che le accadeva fosse finzione; per me era tutto vero. La musica è gioia, il film è stato dolore”. “Mi sono sentito come un boia che la conduceva all’inferno”, ha confessato Von Trier. Ma le Palme d’Oro hanno messo tutti d’accordo, tra abbracci e dichiarazioni d’amore reciproche.
Nella colonna sonora di “Dancer In The Dark”, intitolata Selmasongs, Bjork, per entrare in simbiosi con il pathos della protagonista, si allontana in parte dai suoi canoni musicali. Il risultato non è sempre convincente, anche se le indubbie qualità vocali della chanteuse islandese restano intatte. Troppe, in particolare, le concessioni a un revival in stile Broadway un po’ logoro. Da ricordare, però, il pregevole duetto con Tom Yorke dei Radiohead in “I’ve Seen It All”.
Mi piace restarmene da sola in casa, in uno stato d’animo quieto e introverso, a sussurrare fra me e me. È una sorta di bozzolo ben protetto, casa mia.
(Bjork)
Dopo l’esperienza sofferta di “Dancer In The Dark”, Bjork torna alla sua musica nel 2001 con Vespertine, un album nel solco dell’elettronica minimalista e d’avanguardia, in cui la cantante islandese dà voce a tutti i suoi sentimenti ed umori più tormentati, inseguendo uno spazio “intimo”. “E’ un disco dalle molteplici, apparentemente contraddittorie, allusioni – spiega – L’amore e la caccia, l’aprirsi alla preghiera e il ritirarsi nella contemplazione, l’abbandonarsi alle energie dell’universo nel momento in cui la notte si chiude su di te. Mi piace restarmene da sola in casa, in uno stato d’animo quieto e introverso, a sussurrare fra me e me. È una sorta di bozzolo ben protetto, casa mia”. E proprio “Cocoon”, “bozzolo”, è uno dei brani più emblematici di questo nuovo corso di Bjork: una ballata tenera, bisbigliata, e lievemente sporcata da rumori “lo-fi”. “Una canzone perfetta, soffice e lieve come la neve di Natale”, la definisce Jean-Daniel Beauvallet su “Les Inrockuptibles”, il settimanale musicale più quotato di Francia. E’ il clima che domina il disco, se si fa eccezione forse per le pulsazioni trip-hop del singolo “Hidden Place”, il pezzo più prossimo al sound diDebut.
“La parola ‘Vespertine’ – spiega Bjork – racchiude in sè molti concetti: il fiore che si schiude all’imbrunire, l’animale che diventa attivo al calare delle tenebre, la preghiera della sera, Venere, la stella della sera, il tramonto e l’oscurità totale”. E’ un disco notturno, insomma, da ascoltare all’imbrunire, magari in una gelida serata invernale. Tra le note, si avverte la mano sapiente di uno stuolo di collaboratori di lusso: da Mark “Spike” Stent al mixer ai programmatori Valgeir Sigurdsson e Marius de Vries, dall’arrangiatore Vince Mendoza al duo elettronico americano dei Matmos.
Nel suo “bozzolo”, Bjork ha costruito un pugno di melodie scarne, atmosfere minimaliste e rumori sottili, che fanno da sfondo ai suoi vocalizzi liberi, tanto fragili ed eterei da ricordare, a tratti, il canto di una bambina. La sua ricerca passa anche per trovate eccentriche e spiazzanti, come la litania “I love him/She loves him” in “Pagan poetry” o il finale di “Unison”. Ma la sensazione finale è che forse, per Bjork, Vespertine sia un disco di transizione, alla volta di nuovi orizzonti musicali.
Nel 2002 è uscito Greatest Hits, che raccoglie tredici dei suoi successi.
Voce alla voce
Protagonista assoluta di Medulla (2004) è la voce di Bjork, unita alla raffinatezza degli arrangiamenti; e a scongiurare il pericolo di un album autocelebrativo provvedono le “altre” voci presenti, quelle soavi dell’Icelandic Choir, quella funambolica di Mike Patton, quella della straordinaria Tagaq, in cui tecnica ed espressivita’ si fondono alla perfezione, quelle delle drum machine umane Rahzel e Dokaka e, dulcis in fundo, quella baciata da sempiterna grazia dell’arcangelo Robert Wyatt. L’album non rinuncia alla peculiarita’ “cinematica” cui Bjork ci ha abituati in passato, come nel pezzo d’apertura “Pleasure Is All Mine”, in cui la voce della nostra sale e scende, cullata dalle onde di un tappeto vocale che sottolinea con enfasi i momenti topici delle liriche, ancora nella sublime “Vokuro”, originariamente composta per pianoforte dal compositore islandese Jorunn Vidar, che, riarrangiata da Bjork, diventa una maestosa fusione tra musica sacra e musica profana, e soprattutto in “Oceania”, uno dei capolavori dell’album, in cui il coro pare guizzare fuori e dentro l’acqua attirando l’ascoltatore, con la malefica soavità delle sirene. Altamente evocative anche “Sonnets/Unrealities XI”, ancora per solo coro e voce, il cui testo è mutuato dall’omonima opera di E.E.Cummings, la delicata “Show Me Forgivness” in cui Bjork fa tutto da sola e “Submarine”, in coppia con Wyatt.
Vi sono poi episodi in cui è messa più in risalto l’inusuale “sezione ritmica” costruita con le voci di Patton, Dokaka e Rahzel: “Where Is The Line”, cupa e violenta invettiva con un Patton in forma smagliante che disegna ritmica e bassi, “Who Is It”, l’unico pezzo “pop” dell’album, con tanto di ritornello accattivante, e la conclusiva, sfrenata e “dancey” “Triumph Of The Heart”, condita da stratosferici beat di fischi e pernacchi e da tromboni umani. Ma la chicca del disco è “Desired Constellation”, struggente canzone d’amore dal testo intimo e surreale, la straordinaria e drammatica voce di Bjork e piccoli tocchi di elettronica ad accompagnarla.
Con Drawing Restraint 9, Björk firma la colonna sonora della nuova opera più o meno filmica del suo attuale compagno Matthew Barney, la prima dopo il fortunatissimo ciclo di Cremaster.
We are the earth intruders
Muddy with twigs and branches
Turmoil, carnage
(“Earth Intruders”)
Nel 2007 esce il nuovo album in studio, Volta, che però delude in buona parte le attese, indugiando su un sound ormai un po’ stantio e autoreferenziale.
Più che gli elementi di novità, quindi, in primo piano finiscono i legami con il passato. Quello prossimo si manifesta nel diffuso utilizzo di fiati che ricreano le atmosfere “navali” di Drawing Restraint 9. Quello più remoto fa capolino nei dettagli, nello stile, nel cantato, nella produzione, che però non mostra l’obliqua genialità delle sue prove migliori.
Anche i testi, sebbene più diretti del solito, mirano ai soliti obiettivi. La supremazia della natura sull’uomo (“Earth Intruders”, ma anche “Vertebrae By Vertebrae”), il dialogo con le persone amate (“I See Who You Are” è dedicata alla figlia Isadora, “My Juvenile” al figlio Sindri). La stessa “Declare Independence”, pur ottima, è un chiaro ritorno alle forme del passato. Il break più o meno techno prima del dolce finale è lo stesso schema di molti suoi live e di Homogenic: alzi la mano chi, ascoltandola, non ha pensato a “Pluto”, e infatti in entrambi i pezzi c’è lo zampino di Mark “LFO” Bell.
E la lucidissima capacità di Björk di scegliersi i collaboratori (seconda solo a quella del miglior Bowie) sembra per la prima volta appannata. Mark Bell si conferma produttore e beat-maker straordinario ma incapace di influire sulla qualità della scrittura: quando è sublime ne escono le tracce di Post, quando è quello che è viene fuori “Exciter” deiDepeche Mode. Anche se dobbiamo ammettere che le ritmiche made in Bell-Land sono sempre un piacere. Quando entra in scena quella cassa implacabile in “Declare Independence” l’adrenalina sale. E anche in “Wanderlust” è lui il valore aggiunto. Però in “I See Who You Are” e “Vertebrae By Vertebrae” il miracolo non si ripete.
E il famigerato apporto di Timbaland è talmente discreto da non essere identificabile. Sì, c’è una ritmica diversa in “Earth Intruders” e “Innocence”, ma è un po’ poco. Nonostante l’astuto produttore, “Innocence” è puro lato B di Homogenic, con pregi e difetti del caso.
Un ultimo appunto: la collaborazione con Antony funziona pochino e suona un po’ forzata, specie in “Dull Flame Of Desire”.
Alla fine, si salvano soprattutto “Earth Intruders”, primo singolo dai denti aguzzi e cori in marcia. “Wanderlust”, intriganti armonie coniugate a un beat tutt’altro che banale. E naturalmente “Declare Independence”, con il suo testo a doppio senso (da una parte è per ogni donna soggiogata dal proprio uomo, dall’altra per nazioni ancora colonizzate come Groenlandia e Faer Øer) e la furia della voce accompagnata da una cassa che è colpi di mortaio.
Il sospetto, tuttavia, è che la creatività dell’islandese si stia godendo un meritato ma non gradito riposo.
Dopo il live correlato a quel disco, Voltaic (2009), e dopo un paio di singoli isolati come “Comet Song” e “Nattura” (con Thom Yorke), l’islandese volante comincia a far circolare le prime indiscrezioni sul nuovo progetto, Biophilia. Il nuovo disco in studio fa subito sensazione per la forte carica multimediale che lo attornia, per l’uso di strumenti preparati e autocostruiti di cui si serve per la sua lavorazione, e per una delle forme di distribuzione che verrà adottata, l’App per iPad e iPhone, in cui ogni canzone rappresenta un microcosmo costruito sulla singola traccia musicale e le sue specifiche, un vero gioiello interattivo.
Ma dal punto di vista musicale Biophilia si rivela goffo quando cerca la via dell’avanguardia (le fasce vocali di “moon”, il beat impazzito di “Sacrifice”) e minore quando prende spunto dall’organo (“Thunderbolt”, la semplice ambient di “Dark Matter”).
La connessione tra la dimensione futuribile e cosmica della confezione (pur di altissimo livello tecnico) e quella privata e umile del contenuto semplicemente non avviene. Per quanto appassionata e sinceramente entusiasta, la quarantacinquenne Bjork fa ormai la figura della dilettante, specie paragonata talenti come Julianna Barwick e Joanna Newsom (che lei stessa ha contribuito a forgiare con le sue opere passate).
What is it that I have
That makes me feel your pain
Like milking a stone
To get you to say it and
(“Stonemilker”)
Per il nono Vulnicura (2015) Bjork invece riprende il modus operandi di circondarsi di produttori di grido, vale a dire Alejandro “Arca” Ghersi e Bobby “Haxan Cloak” Krlic all’ingegneristica. Quello che sulla carta potrebbe essere il suo parto più ambizioso e monumentale, in realtà è una tronfia appendice della sua carriera. Tra tutta la pompa contenuta nell’album, dovuta in gran parte alla sezione d’archi che spesso offusca l’elettronica, solo “Stonemilker” (la sua più felice forma-canzone in anni) e “Lionsong” ricordano che Bjork è prima di tutto una scrittrice di melodie. Sul lato sperimentale, le reali sperimentazioni sono rare: il gioco dell’opera è quello di variare all’infinito gorgheggi, decorazioni elettroniche e archi ondeggianti, ma rimanendo per assurdo piantato al blocco di partenza. I dieci minuti di “Black Lake”, grossomodo una lunga pausa senza reale dramma, sono in questo senso un buon esempio. Solo la prima parte di “Family” perviene a un vero espressionismo da camera.
Le più brevi “Quicksand” e “History Of Touches” (l’unico episodio solamente elettronico) sono più essenziali e affocati requiem per la fine della sua relazione con Matthew Barney. Soprattutto, è un album segnato dalla mancanza di equilibrio, quell’equilibrio che aveva forse a inizio carriera e che è andato digradando di album in album. E’ l’opera di confronto con sé stessa, in cui a tratti effettivamente evoca i suoi spettri reali, ma purtroppo non rinuncia ancora una volta all’autocelebrazione, anche se una delle sue più impressionanti per respiro e impianto, confezione e regia.
Contributi di Nicola Mazzocca (“Medulla”), Nicola Minucci (“Volta”) e Michele Saran (“Biophilia”, “Vulnicura”)