Cercando Psiche_Alessia Zolfo, Veroli(FR)
_Racconto finalista quattordicesima edizione Premio Energheia 2008.
Il caldo era ancora più caldo, quel giorno di mezzo agosto.
E sulle strade si accalcavano processioni di automobili arroventate e assetate, lamiere laccate in file interminabili.
Inutili le scorciatoie. I turisti s’erano impossessati persino delle banchine, violando le corsie d’emergenza di un’inutile fretta, di un’urgenza inesistente.
Anche io desideravo arrivare al più presto. Quei minuti a cinque chilometri orari mi sembravano interminabili. T’avrei trovata a studiare all’ombra di qualche melo…?
Il cuore mi batteva nel petto dall’entusiasmo… mi sembrava di sentirlo rimbombare ed esplodere, rimbombare ed esplodere…
Sorpassai una Ford Fiesta e una Punto rossa, ferme sulla seconda corsia. Incidentate. I due conducenti s’urlavano parole per nulla felici. Insulti. Insulti pesantissimi e bestemmie per un tamponamento. “Mannaggia…!!!! E mo chi me li dà i soldi per riparare la macchina, eh? Ma a che stavi pensando mentre guidavi brutto idiota..”. “Idiota a chi? guarda che la precedenza ce l’avevo io figlio di…” “Figlio di una cagna sei tu maguardacherazzadistronzo, guarda che t’ammazzo brutto imbecille!”
E l’altro gli metteva le mani al collo, mentre quello cercava di liberarsi e gli tirava un calcio in mezzo alle gambe…
Accostai poco più avanti.
Scesi dalla macchina.
Di corsa li raggiunsi.
Feci per dividerli.
Il tipo lasciò perdere il colletto già sdrucito del poveraccio, sottomesso, sfinito, ormai a terra.
Si avventò su di me “e tu che cazzo vuoi che t’intrometti frocio, ma vaffanculo…”
Il coltello.
Non so da dove spuntò il coltello, né come, né perché.
Né perché risparmiò quel poveraccio.
Me lo ritrovai infilzato in petto.
Vedevo solo sangue e sangue, rosso Punto rossa, sangue rosso rosso.
Fu un attimo.
IL CUORE
Erano passati giorni. Fossero stati mesi o anni, sarebbe stato lo stesso. Il tempo s’era fermato su quella lama e di quello ch’era stato poi non avevo ricordo.
Ero solo, in un posto straniero e scomodo. Un letto d’ospedale, coperte verdastre, puzza d’alcol. O ero vivo o l’inferno era diventato accogliente ed estremamente fresco. A mezz’occhio intravidi un’infermiera cambiarmi la flebo e in un monitor qualcosa, come una sinusoide elettrica che faceva bip bip bip. Ero vivo. Bella sensazione essere vivi… incominciare a prendere coscienza delle dita delle mani, dei piedi, dei muscoli della faccia… non avevo mai dedicato particolari cure alla percezione del mio corpo prima di allora, forse perché, prima di allora, davo per scontato di averne uno…
È come se appena svegli al mattino si è ancora memori d’essersi addormentati con un corpo in un letto: risvegliandosi non c’è motivo di preoccuparsi che il corpo possa essere morto nel sonno o essersi modificato nel sonno, o spostato in qualche modo nel sonno… esistono persone a cui hanno amputato degli arti, un braccio, una gamba e che ne percepiscono ancora la presenza… mi prude il mignolo… chi mi gratta? Oddio che prurito! Strano caso della natura che tutte le umane percezioni siano chimica… neuroni che passeggiano lungo le vie buie del sistema nervoso e si urtano continuamente, come in una danza frenetica e incessante, si urtano e vediamo il bianco, si urtano e sentiamo odore di pizza, si urtano, si baciano e si scambiano elettroni appesi ai fili microscopici delle loro molecole… e ora cosa si sussurrano nella mia mente appisolata? Ora che vedo una stanza d’ospedale e forse m’ingannano questi stupidi che si divertono alle mie spalle… forse questo è l’inferno e i miei neuroni giocano al dottore…
Vaneggiavo.
Il mio cervello s’era risvegliato d’improvviso e aveva acceso l’interruttore della coscienza.
“Ben svegliato”. Un camice bianco s’avvicinava a me. Ah, ah, il diavolo travestito da dottore! “Sono il vice primario del reparto di cardiochirurgia. L’intervento è andato per il meglio; siamo riusciti a salvarla miracolosamente con una lunga operazione. Ha subito una grave emorragia e a causa di lacerazioni profonde del miocardio abbiamo dovuto espiantarle il cuore biologico. Ma si deve ritenere fortunato. Non potendo trovare un donatore compatibile e immediatamente disponibile al momento dell’intervento, abbiamo dovuto impiantarle un cuore totalmente artificiale. È di ultima tecnologia ARC”.
E scandendo accuratamente la sigla del “made in USA”, scomparve chiudendo la porta dietro di sé.
Cuore biologico… tecnologia ARC… totalmente artificiale…
No. No. Era un incubo. Ne avevo già fatti di simili. O era il diavolo che si beffava di me. Ah, Ah! Era un incubo. Come faceva ad essere vero tutto quell’essere finto? Io sentivo il mio cervello pensare, il mio mignolo prudere, il mio corpo vivere! Senza cuore biologico? Chi ero senza cuore biologico?
Cosa ero? Bip bip bip… se non era il cuore a pompare sangue, cosa mi batteva nel petto, quale liquido scorreva nelle mie vene? Metallo? Ferro, circuiti, un microprocessore e olio a lubrificarne i cingoli…?
Per giorni smisi di pensare. Per giorni mi sentii cavia di qualche esperimento alieno… mi misuravano, testavano, monitoravano quotidianamente persino al gabinetto. Mi riabilitavano, rassicurandomi che non avrei avuto rigetti e che quella pompetta artificiale, dietro lo sterno, mi avrebbe garantito una “vita normale”. Tutto normale, un battito normale, un sonno normale, un normale camminare, un normale mangiare, un normale parlare, tutto assolutissimamente normalissimo.
L’entusiasmo che mi aveva svegliato dal sonno di una presunta morte s’era spento con l’ultima sigaretta fumata al mare. L’unica cosa che potevo accendere era la lampada sul comodino.
Decisi di dormire. Avrei dormito. Mi sarei abituato al mio nuovo cuore. Un cuore messo a punto dalla tecnologia più sofisticata dell’ultimo ventennio, un organo metallico dalle prestazioni organiche ineccepibili, la “crème de la crème” dei cuori, garantito anni e anni a milioni di pulsioni…
Ho letto da qualche parte che la prospettiva di vita di un essere dotato di miocardio è inversamente proporzionale alla quantità di battiti effettuati nell’arco di vita stesso… per cui la prospettiva di vita di un cane, il cui cuore effettua dai 120 ai 140 battiti al minuto sarà suppergiù di 14, 15 anni… dovrebbero aggiornare le statistiche nel caso di cuore artificiale.
Tuc tac tuc… lo senti? Batte metodicamente come un metronomo che scandisce gli attimi… tac tuc tac come se fossero tutti uguali a piccolissimi secondi, plastificati e rinchiusi in un marchingegno, a materializzarne il passare del tempo: le mie valvole s’aprono e chiudono con precisione matematica, sempre allo stesso modo tuc tac tuc tac. E se urlo, se strepito, se mi dimeno in un vortice incontenibile ed esasperato, a costringere le mie pulsazioni ad una corsa folle…? se digrigno i denti e scalcio contro il soffitto fino a slogarmi le ginocchia, forse questo insipido ticchettio inizierà ad accelerare come un superboing in fase di decollo, fino ad esplodermi nella gabbia toracica come un ordigno… ?
Tuc tac tuc tac.
È monotono.
Sono rassegnato ai miei 72 battiti al minuto.
Maledetto muscolo!
Il sovrano dei muscoli… quanto inchiostro s’è versato per te!
Si è mai scritto qualcosa a proposito del tricipite o dell’adduttore?
Nobile, regale cuore umano! Nemmeno sul cervello si è mai fatta tanta letteratura! tam tam tam… tum tum tum… provo a sentire l’eco del mio vecchio amico sanguinolento… mi sembra di sentirlo ancora sospirare… e invece è solo uno scivolare di cingoli macchinici, sistole e diastole affidate a complicati marchingegni di rotelle sintetiche gni gni gni…
“T’amo Claudia e il mio cuore sanguina. T’amo Claudia e il mio cuore cigola”.
Gni gni gni sussurra il mio cuore a pompa plastificata, tra soffi d’aria compressa…
Dove sono i miei 330 grammi di tessuti, globuli e fibre organiche? Niente di più che uno scarto chirurgico abbandonato alla formalina…
Dormo. Dormo ore ed ore fino ad esser sazio di sonno.
LA PRIGIONE
Chi avrebbe mai scommesso sulle passioni umane?
Un giorno molto lontano da questo, Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Gli donò un cuore, un cuore umano e frangibile, promettendogli la vita immortale. E fu quello stesso cuore mortifero a desiderare… Desiderò la conoscenza.
E l’uomo si spinse oltre il proibito, per sfiorare solo con un dito l’immortalità che gli era stata promessa: colse la mela, la buccia del dolore. Piccolo cuore mortale! In qualche modo hai condotto l’uomo lungo le strade della perdizione e della passione, privandolo del peso insostenibile della sua ragione menzognera e corruttibile.
Fummo creati quel giorno a immagine di Dio.
Non ci fu mai perdonato di bruciare il nostro corpo, di sfigurarlo o violarlo per dispetto ad un potere appisolato dietro a qualche paradiso lontano e vacuo. Pena: le roventi fiamme infernali.
Così custodiamo il nostro corpo, come si custodisce la più preziosa delle reliquie.
Lo imbalsamiamo con unguenti cremosi per prevenire il disfacimento, come se il sopraggiungere dell’età fosse una maledizione alla carne; auscultiamo ogni suo frenetico sussulto con timore della malattia, monitorando i suoi confini, per prevenire orde clandestine di parassiti a infestare la carne; lo preserviamo dall’intemperie e dalla polvere dell’incuria e della vergogna, imbellettando questa epidermide come una bomboniera si confeziona in sfarzose velette colorate.
Siamo umani. E la carne è la nostra prigione. Divina prigione.
E cosa c’è poi? Oltre questo involucro biochimico di epidermide e tessuto fibroso, oltre le varie cartilagini e i più piccoli tendini, oltre questa impalcatura calcificata e una pioggia di globuli ferrosi, cosa c’è oltre?
LO SPECCHIO
Non c’è giorno in cui non mi guardi allo specchio.
Lo fisso attentamente, con stupore.
Da quando sono tornato a vivere, mi specchio ancor più assiduamente nel bagno dell’ospedale. Forse perché è una delle pochissime attività che mi è stata finora consentita dai medici.
Cerco di capire se questo corpo ha qualcosa da dirmi, se ha parlato senza che io abbia potuto ascoltare. Cerco di sentirne la voce. Se mi specchiassi continuamente senza interruzioni, forse solo per un momento, mi apparirebbe questo cuore metallico, come il Nirvana ad un profeta, per mostrarsi a me in tutto il suo splendore. Si mostrerebbe dicendomi: “Guarda! Sono vivo e ti parlo”.
Follia. Follia di Narciso, sprofondato in quello stesso abisso acquitrinoso che aveva generato la sua vanità.
Da piccolo, mia madre non tollerava gli specchi. A casa ne avevamo uno piccolo nel bagno, sufficiente appena per mettere in ordine i capelli. Non c’era specchio abbastanza grande, per osservare il corpo totalmente, dalla testa alla punta dei piedi. Ero mutilo. Mia madre odiava il corpo e m’insegnò a vergognarmi di lui, come se fosse un estraneo involucro, una condanna indesiderata da coprire, un morto da occultare. La nudità era assolutamente proibita. E proibito era specchiare la propria nudità, per osservarla con pudico interesse.
La mia curiosità infantile sul corpo si rassegnava ad un sospiro cieco nella vasca da bagno. Ma non potevo vedere tutto, disteso in quella ceramica colma d’acqua e sapone.
Allora immaginavo. E mi chiedevo cosa ci fosse oltre il visibile.
Pensavo che se mi fossi guardato attentamente avrei scoperto che il mio corpo aveva ancora una traccia d’ali o una coda. E in qualche assurdo modo avrei potuto superare Icaro o dondolarmi appeso ad un ramo, a testa in giù, come una scimmia.
Solo dopo molti vani tentativi scoprii, specchiandomi, che quel vetro riflettente è solo una finestra: posso vedere tutto al di fuori di me, fuorché me stesso dentro di me.
E come precipitando in un baratro, iniziai a domandarmi, dove fosse l’anima.
E la cerco ancora, ora che il mio cuore è immerso in un qualche dimenticato barattolo di formaldeide…
L’ANIMA
Facevo una breve passeggiata nel parco.
Fuori era tutto normale, dalle aiuole gremite di ciclamini, alle nauseabonde folle d’infermieri a fumare, e i vecchietti appisolati sulle panchine. C’era, persino, un cane a fare pipì, sotto la grande sequoia del pronto soccorso e qualche merlo a dondolarsi, sui cavi dell’alta tensione.
Passeggiavo lungo il vialetto che porta al reparto di malattie infettive.
Avrei potuto incontrare chiunque.
Incontrai una bambina.
Le piccole manine muovevano, avanti e indietro, le ingombranti ruote di una carrozzina, come a trascinare a fatica un peso più grande di lei; e il venticello del pomeriggio le stropicciava i capelli neri, fino a farli precipitare giù, lungo la fronte. Girava la testolina freneticamente per liberarsi dal ciuffo dispettoso e soffiava storcendo la bocca, ad occhi chiusi, verso l’alto. E quel soffio s’univa al vento, a farle dispetto dei capelli neri. Mi chinai per aiutarla: con un dito riposi il ciuffo dietro il piccolo orecchio.
“Ora va meglio?”, le domandai.
“Sì, grazie” mi rispose quella vocina timida e piccola, maledettamente piccola.
“Cosa hai fatto alle gambe?” le chiesi, vergognandomi immediatamente per la domanda indiscreta…
“Sono così”.
La risposta fu lapidaria.
“Tu perché sei all’ospedale?”, mi domandò.
“Perché mi hanno tolto il cuore”, le risposi, malamente.
“E allora come fai a vivere?”
“Ne ho uno finto”.
Rimase perplessa.
Poi mi disse: “Allora non hai più un’anima”.
E scomparve dietro il reparto di colangiografia.
L’anima sopravvive al corpo. In ogni luogo del mondo, in ogni angolo conosciuto del visibile, persino nel più piccolo luogo in cui abita anche solo un piccolo uomo, lì in quel luogo remotissimo, questo piccolo uomo crederà che la sua anima sopravvive al corpo; e questo piccolo uomo lavorerà ogni giorno per una lunga vita e con fatica si ricondurrà a casa ogni notte per una vita, felice di sapere che, alla fine, non tutto andrà perduto, quando, di lui, resteranno solo poche briciole d’ossa a sfamare la terra e tutto del corpo sarà perso, l’anima vivrà ancora. E poco importa il nome del luogo in cui finirà la sua povera animella: essa sarà; e questo gli basta.
A me non basta più raccontarmi a memoria la favola del paradiso con leggerezza e senza dovizia di particolari. Io devo sapere se, senza cuore, l’anima vivrà. Devo sapere se vive ancora.
Del corpo posso essere certo.
Ma come posso essere certo dell’anima?
In realtà a ben pensarci non credo di sapere nemmeno cosa l’anima sia in realtà. Un vano, labile e impercettibile sentore che rende di me un essere dotato di vita e non un granello di sale abbandonato sul bordo di un piatto di minestra…
Si ama con l’anima, col cuore.
O forse, a pensarci bene, per amare non serve cuore. Non si ama poi solo con la mente? L’amore si nutre di ricordi.
Ricordi di odori, di piacevoli momenti, trascorsi assieme ad un amato, ricordi tormentosi di dolore, ricordi di frasi dette, di attimi vissuti con leggerezza e intensità, ricordi di ricordi.
Amiamo i nostri ricordi. Amiamo chi ricorda di amarci e conserviamo memoria di chi amiamo. Con il passare del tempo i ricordi si annebbiano, scemano e spariscono, cancellati da una coltre di polvere e di silenzio; a poco a poco dimentichiamo l’amato, il colore dei suoi occhi, la forma della sua bocca e il suo sapore. Diamo per assodato che quei colori, quelle forme e quel sapore siano così e non altrimenti. Dimentichiamo di rinnovare il ricordo. E tutto il desiderio si disperde. E tutto l’amore si dimentica.
È solo cervello.
Di tante cose appartenenti all’essere che Parmenide distinse in coppie di opposti, due di esse appartengono all’anima più di tutte le altre: l’amore e l’odio. L’umanità oscilla incessantemente tra l’uno e l’altro, come un pendolo perpetuo.
L’ALTRO
Guardavo il cielo, dalla finestra: un corteo di nuvole sfilava lentamente e sembrava che il vento sfiorasse un’ovatta impercettibile di vapore, un’ovatta leggera che mutava forma a poco a poco. Il vento è lo scultore più estroso. Crea fantasie di forme con soffi leggeri, plasmando l’implasmabile. In quell’istante vidi riflessa nel vetro della finestra un’immagine di bambina. La riconobbi. Mi girai. Era lei.
“Cosa sei venuta a fare qui?”, le chiesi; felice ma stupito della sua presenza
“Sono venuta a vedere se hai visto”.
“Visto cosa?”
“Se hai visto l’anima…”
Non so se fosse stata la curiosità infantile a spingerla fino a me, o forse, la noia d’essere costretta a vivere in quell’ospedale maledetto, prigioniera delle sue gambe. Comunque era lì che mi fissava con due occhi neri, di un così malinconico desiderio di conoscenza, che non potevo evitarli.
“Non l’ho vista”, le risposi.
Sembrò aspettarsi la risposta. E, senza lasciarmi il tempo di finire la frase mi disse: “Ti ho portato un regalo”.
Da una manina spuntò un bisturi.
Me lo puntò contro con determinazione e, guardandomi intensamente negli occhi, mi chiedeva di accettare quel dono. Lo presi tra le mani e lo guardai. Era affilato e lucido. Freddissimo.
“Cosa devo farci con questo?”, le chiesi.
“Può servirti per cercare l’anima”.
Era un invito a guardarmi dentro. A scavarmi.
Forse troppo a lungo avevo cercato di vedere in me l’invisibile, immaginando nel mio corpo luoghi, stanze, corridoi d’illusioni sterili; nessuno mi aveva mai mostrato la verità e il corpo aveva taciuto.
Ricordavo un tempo non molto lontano, da bambino, in cui il desiderio di vedere oltre il visibile, mi spingeva a scavare al di là dell’involucro delle cose, smontavo il telefono e la radio cercando di capire il meccanismo attraverso cui giungeva la voce e null’altro. Cercavo i circuiti, i marchingegni.
Non sopportavo l’idea di non poter raggiungere il perché e il come delle cose. E in quel momento, più che mai, desideravo capire il perché e il come di quel mio cuore. Era il momento di vedere l’anima.
Col bisturi, stretto fra le dita, corsi verso il bagno. Chiusi la porta.
C’era lo specchio, e nello specchio, c’ero io. Iniziai a incidere il petto, proprio lì, sotto lo sterno…
Il bisturi mi scivolò dalle mani e cadde rumorosamente nel lavandino; non riuscivo a scalfire nemmeno la superficie della pelle, come se, improvvisamente, questo involucro di cui mi era certo il peso e la vulnerabilità, si fosse trasformato in un vuoto leggero e impalpabile. Non c’era ferita, né sangue. Non c’era nulla di nulla in me che fosse umano.
Terrorizzato, con gli occhi sbarrati, fissavo lo specchio, accorgendomi d’essere diventato mostruosamente un nulla inconsistente.
La bambina era dietro di me. “Hai trovato l’anima”, mi disse.
Ancora non capivo.
“Seguimi”, mi ordinò. E spingendo la carrozzina lungo un corridoio e poi un altro, mi condusse in una stanza. C’erano decine di celle d’acciaio chiuse come un alveare spettrale. La bambina ne indicò una.
“Apri”.
Lì trovai il corpo. Il mio.
Lì, disteso in una cella d’obitorio giaceva il resto di me, il corpo lacerato e terribile che non avevo più, che non ero più.
Ero morto.
Quel giorno di mezzo agosto torrido e soffocante fu l’ultimo giorno.
E questi che sono stati poi, non so’ nemmeno se siano stati giorni. Non so se siano stati parte della vita trascorsa a mezz’aria, come in un limbo, oscillando tra la vita e la morte, in uno stato che non saprei chiamare se non come i medici, chiamano quel frangente dell’esistenza umana che corrisponde al passaggio: il coma.