Che Dio non Voglia!_Thuku S.Muthee
_Racconto finalista seconda/terza edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Mariella Silvestri
In genere per un adulto ci voleva il tempo che il sole, dal momento in
cui si sveglia, impiega per rifugiarsi dietro le Colline Nyandarua per andare
a piedi da Gatuanyaga a Kirati. Era un viaggio lungo e faticoso e
molti sostenevano che era come essere in compagnia del sole. Altri dicevano,
scherzando, che non avrebbero voluto che i loro figli sposassero
persone di quelle parti per paura che gli animali della dote dimagrissero
troppo durante il viaggio. Njoroge era sicuro che oggi aveva
battuto un record. Nel momento in cui gli animali cominciavano a ripararsi
dal sole cocente del pomeriggio, egli poté scorgere le colline di
Kirati all’orizzonte. Vi arrivò nel momento in cui le prime mandrie lasciavano
i pascoli. Quel record era stato ottenuto solo nel lontano passato,
quando un messaggero era andato a raccontare della distruzione,
a causa della sua sfortunata caduta, dell’albero sacro di una famiglia.
Un evento davvero terribile.
Kirati era il luogo d’origine dei nonni di Njoroge e suo padre era emigrato
a Gatuanyaga solo 24 stagioni complete prima. Una stagione completa
era formata da due stagioni minori, quella delle patate dolci e quella
del miglio. Era stato proprio dopo il raccolto del miglio che il padre
di Njoroge era emigrato. Non era stata un’emigrazione normale. In realtà,
un ragazzo aveva minacciato di ferirlo per essere riuscito a conquistare
una ragazza che quest’ultimo aveva scelto come sua moglie. Alla
gente di sangue Munene era proibito combattere e quindi gli fu consi-
gliato di andare a vivere con suo zio a Gatuanyaga. Njoroge aveva accompagnato
suo padre nel pellegrinaggio annuale a questo luogo circa
cinque stagioni complete prima. Allora era un ragazzino.Ora, dopo aver
affrontato il coltello con coraggio due stagioni prima, era diventato un
uomo, e pochi lo avrebbero riconosciuto a prima vista. Sua nonna Wangeci,
comunque, fu molto rapida nel riconoscerne i tratti somatici salienti.
“Quello è il figlio di Munene, vero?”, chiese Wangeci.
“Sì, nonna”, rispose mentre si stringevano la mano.
“E questo non è mio marito?”, chiese la donna, scrutandolo attentamente.
“Vedo che non riesci a dimenticarmi”, disse lui, scherzando.
“Come posso confondere mio marito con qualcun altro?”, chiese Wangeci
orgogliosamente. “Vieni qua, figlio mio”.
Essendo stato chiamato con il nome di suo nonno, Njoroge sarebbe sempre
stato il marito di Wangeci, sebbene ne fosse il figlio. Così è la vita.
Il padre è figlio dei suoi figli. La vita è una ruota e il presente è solo un
riflesso del vecchio e del passato.
Alcuni parenti e vicini vennero a salutare Njoroge mentre una ragazza
gli portava patate dolci e latte sotto un albero Muu, situato nel cortile
della casa. Come voleva la tradizione, non si chiede mai alcunché a un
visitatore prima di aver tolto la polvere dalla sua gola. Wangeci era famosa
anche per la sua ospitalità.
Dalla porta della cucina Wangeci cercò di leggere sulla faccia di Njoroge
il motivo della sua visita. Sebbene la sua vista stesse lentamente
peggiorando, riusciva a vederlo abbastanza nitidamente. Il fisico del ragazzo
era ormai quello di un adulto e lei si chiese se fosse già sposato.
Ma che cosa poteva essere accaduto? Aveva notato che la faccia del nipote
aveva meno vita di una pietra. E poi era strano che una persona venisse
sola da Gatuanyaga, soprattutto durante la stagione delle patate dolci.
Forse si trattava della morte di Munene? No! Non poteva essere! No,
i suoi genitori, eravano ancora vivi. E’ troppo giovane. Dio non poteva
permettere che dei genitori sopportassero l’angoscia di dover seppellire
i loro figli! Doveva essere qualcos’altro.
“Che Dio non voglia!”, sibilò e sputò per liberarsi di quel cattivo pensiero.
Njoroge era appoggiato al tronco. Aveva letteralmente divorato tutto ciò
che gli era stato offerto perché non aveva mangiato nulla per tutto il giorno.
Pensò che fosse così dolce essere fra la gente del proprio sangue.
Guardò il mucchietto di bucce di patate dolci fra le gambe distese e pensò
che assomigliavano a un grosso formicaio.
“Sei arrivato, figlio mio?”.
Njoroge fu sorpreso nel vedere suo nonno che si reggeva a malapena in
piedi appoggiandosi a un bastone annerito.
“Sì, nonno”, rispose e si alzò per stringergli la mano. Non poté fare a
meno di notare che il nonno era diventato molto vecchio e debole. Come
si dice, nessuno può rifiutarsi di andare quando gli antenati ti chiamano.
Mentre andavano verso la capanna vicino al rifugio degli animali,
Njoroge si tormentava ripensando alla domanda “Sei arrivato?” che gli
era sembrata quasi un’affermazione. Sapeva che sarei venuto? Sa già
cosa è avvenuto? Njoroge era sconvolto. Naturalmente egli apparteneva
alla stirpe di Gitene, il famoso paciere. Tutti quelli nelle cui vene scorreva
quel sangue erano conosciuti per la loro natura non violenta e per
la loro capacità di prevedere gli eventi. La pacificazione era il loro compito
principale. Tra i loro motti più usati c’era quello secondo cui il sangue
non è acqua che si possa versare senza motivo. Essi non partecipavano
mai alle guerre e non cacciavano gli animali selvatici. Per loro tutte
le forme di vita erano sacre ed era loro persino proibito sposarsi con
gli Aturi, i fabbri. Gli Aturi costruivano lance, spade e frecce, tutte armi
assetate di sangue. Sarebbe mai stato possibile per un Gitene offrire
il proprio seme per incrementare una tale attività?
L’oscurità si approssimava e gli anziani del villaggio dovevano essere
convocati in fretta. Arrivarono anche alcune donne anziane per fare
compagnia a Wangeci. Nessuno osò chiedere perché fossero stati convocati.
Non bisognava mai mostrarsi troppo ansiosi di conoscere le novità.
Il vecchio Njoroge presentò il figlio di Munene e gli chiese di soddisfare
la sete delle orecchie degli anziani.
Njoroge si schiarì la voce, facendo capire che era disponibile a vuotare
il suo cuore. Tutti i presenti sentivano che non si sarebbe trattato di
notizie piacevoli. Njoroge, come futuro anziano, non avrebbe raccontato
la sua storia senza il necessario tatto. Innanzi tutto spiegò in dettaglio
la vita pacifica che si conduceva nel villaggio di Gatuanyaga pri-
ma dell’arrivo dei bianchi. Tutti ascoltavano con attenzione, senza interrompere.
“Sei mesi fa ricevemmo un messaggio in cui si comunicava che sarebbero
arrivati”, spiegò. “Per un certo periodo si accamparono a Kiri dove
causarono molti problemi”.
Naturalmente, tutti i presenti erano già al corrente dell’arrivo di uomini
che sembravano farfalle nella zona orientale del Paese. Nelle due ultime
stagioni complete, queste farfalle erano aumentate. Molti ora credevano
a Mugo wa Kibiri, che tre generazioni prima aveva “visto” molte
farfalle arrivare da Est con un serpente di ferro. A quel tempo molti
non capirono e i guerrieri minacciarono di uccidere il serpente e bruciarlo.
Ora erano arrivati e le loro gesta efferate stavano causando preoccupazione
in tutto il Paese.
“Sono arrivati tre mesi fa”, continuò. “La nostra gente diede loro il benvenuto
nel miglior modo possibile. Demmo loro un posto dove edificare,
offrimmo loro miglio e patate dolci e gli anziani portarono in dono
pecore macellate”. Fece una pausa e trasse un profondo respiro.
“Sembra che abbiamo commesso un errore. Sono uomini cattivi con gli
occhi avidi delle cose che appartengono ad altri”.
“Con tutta quella ospitalità?”, chiese qualcuno del gruppo. Come poteva
essere possibile? Come era possibile che degli ospiti desiderassero
le proprietà di chi li accoglieva? Molti scossero la testa increduli.
“Un giorno presero con la forza una pecora che non apparteneva loro e
quando gli anziani andarono da loro si rifiutarono di consegnarla. I
guerrieri decisero di affrontarli per ottenerne la restituzione ma non sapevano
quanto quegli uomini potessero essere malvagi. Sapete, loro hanno
dei bastoni magici che emettono fuoco da una bocca che non si chiude
mai e produce un suono terrificante. Se quel fuoco ti colpisce, vieni
scaraventato all’indietro e muori rapidamente. Quel giorno abbiamo perso
due giovani guerrieri”.
Nella stanza si udirono dei rantoli. Qualcuno emetteva un suono assolutamente
innaturale. Una donna invocò il nome di Dio, probabilmente
per la paura.
“Gli anziani decisero di approvare un massiccio attacco contro i bianchi.
Non li volevano più lì. Comunque, mio padre protestò dicendo che
ulteriore sangue sarebbe stato sparso sulla madre terra. Accettarono di
rinunciare alla deliberazione quando propose di offrire una fratellanza
di sangue al capo dei bianchi”.
Si potevano vedere gli anziani annuire approvando. Munene si era dimostrato
degno della sua stirpe. Njoroge spiegò come si svolgeva una
cerimonia per suggellare una fratellanza di sangue. Il capo dei bianchi,
soprannominato Wakaniuru per il suo lungo naso appuntito, era divenuto
fratello di sangue di Munene dopo essere stato “unito” a una pecora
di un solo colore.
“Mio padre gli diede anche un pezzo di terra e venti pecore come simbolo
di fratellanza. Wakaniuru promise di non creare più problemi”. Njoroge
si allungò per prendere una zucca vuota colma di latte acido e ne
bevve un sorso controvoglia. Tutti aspettavano con ansia.
“Questi bianchi sono animali”, cominciò Njoroge in un tono di voce più
acuto in cui si sentiva una potente nota di odio. Molti furono anche colpiti
dal desiderio di vendetta che vi si poteva leggere, ma sperarono che
fosse solo una loro impressione. “Sono andati anche oltre e avant’ieri
hanno rubato una mandria e un gregge. Abbiamo perso altre tre persone
per mano degli uomini di Wakaniuru”.
“Incredibile!”, urlò una donna che dovette essere calmata dagli anziani.
“Ieri i nostri anziani hanno costituito una delegazione di pace e si sono
recati da loro”, continuò Njoroge “ma proprio Wakaniuru ha fatto tuonare
il suo bastone magico contro uno di loro”.
“Cosa?”, chiese incredulo un anziano. Non si era mai sentita una cosa
simile. Non si può uccidere qualcuno che viene in pace! Tutti gli anziani
scossero la tesa mentre le donne invocarono i nomi di alcuni antenati
famosi.
“Il resto è avvenuto troppo velocemente”, continuò Njoroge. “Gli uomini
accorsero da ogni dove, urlando con le armi in pugno. Wakaniuru
e i suoi uomini puntarono i bastoni magici contro i nostri uomini e
fecero fuoco. Molti furono respinti fra il terribile dolore e la morte.
Ma la gente era accorsa in gran numero e gli uomini di Wakaniuru,
presi dal panico, corsero via. I guerrieri catturarono Wakaniuru e lo
fecero sfilare di fronte alla gente del villaggio che urlava. Lo condannarono
immediatamente a morte”. Njoroge fece una pausa. Tutti i
presenti nella stanza erano rimasti senza parole e molti ascoltavano
con la bocca semiaperta.
“Com’è tradizione”, continuò “a mio padre, quale unico fratello di sangue
di Wakaniuru, fu richiesto di colpirlo per primo in modo che non
potesse più richiedere alcun altro contributo di sangue. Ma come poteva
farlo una persona del nostro sangue? Come?”. Njoroge fece una pausa
dolorosa. Nessuno nella capanna male illuminata aveva voglia di rispondere
alla sua domanda.
“I guerrieri afferrarono mio padre, gli misero a forza in mano una lancia
che infilzarono nella faccia di Wakaniuru, e poi colpirono il bianco
a morte”.
Tutte le facce si piegarono in avanti e tutti coloro che si trovavano nella
stanza sputarono. Quella era l’azione rituale della gente di Gitene quando
immaginavano il sangue di un essere umano.
“Mentre esaminavano Wakaniuru e il suo bastone magico, riapparvero
gli altri bianchi e cominciarono a far risuonare i loro bastoni. Molti caddero
per la stregoneria dei bianchi. Non furono risparmiati neppure
donne e bambini. La gente urlava e correva. Era una pazzia completa.
Io mi nascosi in un boschetto e quando sbirciai attraverso gli alberi vidi
una scena di morte. Moltissime persone giacevano per terra morte.
L’unico rimasto vivo era mio padre che si trovava in piedi accanto al
corpo di Wakaniuru, con in mano il suo bastone da cerimonia e un ramoscello
verde. In quel momento gli altri uomini bianchi si avvicinarono
e fecero rimbombare i loro maledetti bastoni. Lo vidi cadere al suolo”.
Non ci potranno mai essere abbastanza parole per descrivere i sentimenti
dolorosi che il gruppo provava. Wangeci si alzò, si colpì le cosce e si
sedette nuovamente con il viso rivolto verso il muro di fango. Molti sputarono.
Tutti cercavano di capire. Come, come avevano potuto uccidere
il loro fratello di sangue? Era tutto incredibile. Mai nella storia della
tribù era avvenuto qualcosa di simile. Il vecchio Njoroge si schiarì la
voce e tutti gli prestarono ascolto, pronti a sentire almeno una parola
rassicurante di buon senso.
“Figlio di mio figlio”, cominciò “non sapevo quali notizie portassi, ma
questa fa sicuramente male. A voi tutti dico, non dimenticate mai che
la vera fonte del nostro orgoglio è l’essere pacifici con tutti. Munene
non ci ha delusi. Avete sentito ciò che è avvenuto?”; fece una pausa. “Il
vostro lavoro come pacificatori diventerà più difficile e pericoloso. Ma
non dimenticate che nella pace c’è orgoglio mentre nella guerra c’è solo
dolore. Sia la pace sia la guerra vengono dalle viscere profonde della
terra. Molti hanno riempito queste profondità con l’odio, l’invidia e
la guerra e costoro non sono migliori degli animali selvatici. Siate pronti
perché sta per arrivare un tempo in cui uccidere un essere umano sarà
uguale a uccidere una capra. Un tempo in cui donne e bambini uccideranno
e saranno uccisi sul campo di battaglia”, fece una pausa e sospirò
profondamente.
“Gente del mio sangue, temo che ammazzeranno anche voi e vi costringeranno
ad ammazzare. Ma affinché questo non avvenga, prego che
Dio dica di no”.
Cercò tentoni il suo bastone, si alzò e si avviò verso la porta, ma improvvisamente
si voltò. “Non dimenticate mai ciò che diciamo. Non dobbiamo
mai ingrassare le iene usando esseri umani”. Uscì e si avviò nella
notte buia come la pece.
Sul gruppo discese una quiete strana e terribile, la gente cominciò ad
allontanarsi in silenzio, l’uno dietro l’altro. Njoroge era assorto nei suoi
pensieri. Quando la vita di un essere umano sarebbe diventata uguale a
quella di una capra? Quando gli uomini sarebbero diventati simili ad animali
che uccidono donne e bambini? Che ne sarebbe stato degli uomini
che come suo padre erano strumenti di pace? No! Nessuno poteva vivere
in un mondo tanto malvagio.
Era sul punto di addormentarsi quando gli parve di sentire l’urlo di una
ragazza. Seguì un trambusto di rumori e di voci. Una donna continuava
a ripetere “E’ stato chiamato! E’ stato chiamato!”. Njoroge non fece
alcuno sforzo per alzarsi. Aveva già visto abbastanza e aveva un brutto
presentimento per il futuro… Sì, quando il sangue sarà sparso come se
fosse acqua. Strinse il pugno per la rabbia e non poté evitare di pregare
“Che Dio non voglia! Che Dio non voglia!”