Chi sei tu?
– di Roberto Vacca
Chi sei tu? Sei il tuo corpo. Sei la tua fisionomia. Sei il tuo cervello, che immagina le ore future a danzargli innanzi vaghe di lusinghe – come scriveva Ugo Foscolo. Ma è più interessante che ti identifichi con i memi che generi. Con le parole, le idee, i concetti, le invenzioni, le abilità, le memorie che puoi trasmettere e ti possono sopravvivere.
Tempo fa sono morti alcuni amici miei. Erano uomini interessanti e originali. Hanno lasciato segni profondi nella mente mia e in quelle di tanti altri. Le loro mogli erano tristi – alcune disperate. Gli ho detto:
“Tuo marito è vivo. Ascolta le parole di lui che ricordo bene e che ti ripeto. Rileggi le cose che ha scritto negli ultimi anni.”
Erano esortazioni ragionevoli e che sono state accolte bene dalle mie amiche. Però, ora che sono vivo, non potrei spiegare chi sono rimandando alle parole che ho detto o scritto o alle idee che ho diffuso. Molte le avrò dimenticate. Ogni tanto qualcun altro le ricorda e mi sorprende citandomele.
Per definire a te stesso chi tu sia (un esame di coscienza?) normalmente non pensi alla tua cronologia – date, giorni, ore – ma alle tue memorie. Tu sei quello che ha fatto, ha detto, ha visto – anche se vedi sfocati certi eventi, certe situazioni, certe parole. Alcune di queste – spiacevoli – vorresti non ricordarle più. Quelle che hai scordato [cioè: “tolto dal cuore”] o rimosso dalla tua coscienza, è come se non fossero mai esistite. Non fanno più parte di te.
Lo stesso si può dire dei “ricordi”: lettere, cartoline, oggetti, ciocche di capelli. In genere non sono datati e non funzionano bene. Tom Lehrer, il matematico e cantante satirico noir, mezzo secolo fa prese in giro crudelmente quell’abitudine:
I hold your hand in mine, dear Tengo la tua mano fra le mie, cara,
I press it to my lips la premo sulle mie labbra
The night I killed you I cut it off — la notte che ti uccisi, la tagliai —
Anche i “cari ricordi” non sono te. Potranno, forse, evocare solo qualche mesto sorriso sul volto dei tuoi nipoti mentre mettono a posto le tue vecchie cose abbandonate:
“Guarda quanti ciaffi inutili conservava il nonno! Be’: smettiamo di frugare. Dopo tutto è roba molto personale. Dovremmo sentirci come degli intrusi. Buttiamo, buttiamo.”
Taluno tenta di lasciare miserevoli tracce di sé. Le troviamo barbaramente incise sul marmo dei monumenti:
LILLO E LUISA DA ORTE 4 MARZO 1990 ORE 15:45
Non migliora certo le cose utilizzare strumenti tecnologicamente avanzati invece di chiodi e coltellini. La memoria degli smartphone può registrare le immagini che vediamo minuto per minuto. La mole cresce a dismisura. In seguito soffocherà la nostra memoria senza alcuna utilità. È curioso: anche certe persone che passano per colte e sensibili, sfruttano ogni strumento creato dalla tecnologia dell’informazione e della comunicazione in modo sfrenato. Non si chiedono nemmeno che fine faranno le impronte tecnologiche che lasciano. Sono pulite, non come i graffiti – quindi confidano che qualcuno le troverà e le apprezzerà. Non è così. Dimenticano che il modo migliore di fare in modo che una foglia non venga mai più trovata, è quello di buttarla in una foresta.
È curioso il caso di Gordon Bell – inventore, teorico e tecnologo di valore e di successo in informatica e scienza dei computer. Da qualche anno porta addosso telecamere, registratori, connessione con Internet e di continuo copia in forma digitale: tutte le fotocopie che fa, tutti gli E-mail e i messaggi della segreteria telefonica, i programmi che girano sul suo computer e i risultati delle elaborazioni, tutto quello che scrive, più di mille foto riprese ogni giorno da una webcam che porta a tracolla e che entra in azione ogni volta che cambia la visuale intorno a lui.
Robert Lucky, già direttore della ricerca ai Bell Laboratories e critico acuto degli sviluppi tecnologici – troppo indulgente – ha commentato:
“La raccolta dati che sta facendo Bell sembra inutile: produce un mucchio di rifiuti che non riguarderà mai più.”
Per essere più soddisfatti di chi siamo, evitiamo gli appunti banali. Proviamo a faticare e a formulare idee che abbiano qualche valore.