Ci si è amati come ci si lascia, Astrid Koncina_Aarhus(Danimarca)
Premio Energheia Sorbona 2016
Traduzione di Flavia Ruscigno
Questa mattina, ho aperto il giornale, come tutte le mattine. Questa mattina, ho iniziato a leggere i titoli divorando il mio cornetto, come tutte le mattine. Questa mattina, ho girato le pagine, fino alle informazioni regionali e ai fatti diversi finendo il mio caffè, come tutte le mattine.
Ma questa mattina, il caffè era disgustoso, il cornetto secco, e il giornale bagnato dalla pioggia. Questa mattina, ho appreso che eri partito. Te, che non ho più visto da tanto tempo, te, al quale non pensavo più, ma di cui il ricordo è sempre rimasto da qualche parte in fondo alla mia memoria. Mi ricordo di quei momenti che avevamo passato assieme negli anni ‘70, due artisti, due bohémiens che non fermava nessuno. Assolutamente nulla poteva mettersi tra di noi: i pregiudizi delle nostre famiglie rispettive, le critiche acerbe dei nostri amici gelosi, gli obblighi finanziari, i progetti più folli… noi dovevamo fare tutto, il mondo era nostro.
Ti rivedo la mattina in cui ci siamo incontrati, e all’inizio era come se avessi avuto venticinque anni di nuovo. Ritornavo da Brive, la grande città in cui ero andata per fare la spesa, con la Citroën CX nuova fiammante dei miei genitori. Mi piaceva guidare, la sensazione di libertà che mi dava, era come se tutte le strade si aprissero a me. Ciò mi trasformava dal mio quotidiano di ragazza di buona famiglia, con la vita sistemata, che si occupava della propria madre ammalata mentre suo fratello e suo padre trascorrevano tutte le loro giornate nello studio medico della città… che non si svuotava mai. Non ero da compiangere, ma non ero neppure felice. Sola, dietro al volante, potevo essere chiunque, infine, potevo essere me stessa.
È in quel momento che ti ho visto sul bordo della strada. Avevi un piccolo cartello che indicava la tua destinazione: Périgueux. Era bel tempo, ho pensato subito che avresti potuto andarci a piedi. E poi, ho realizzato che sarebbe stata esattamente l’osservazione che mio padre avrebbe lanciato col suo modo di fare arrogante. Allora mi sono fermata sul bordo stradale, ho fatto retromarcia. Ho aperto la portiera del passeggero, tu avevi l’aria di quello che mai avrebbe pensato che qualcuno si sarebbe fermato. I tuoi occhi brillavano di gioia, eri bello quel giorno di aprile del 1976. Io ti dissi che mi fermavo a Montignac, ma che comunque avresti fatto un po’ di strada…, tu mi rispondesti che saresti andato ovunque con una ragazza che aveva degli occhi così belli. Non ero abituata a questo tipo di complimenti e arrossii subito. Il tragitto passò troppo in fretta, tu mi raccontavi della tua vita e mi facevi viaggiare con le tue parole. “L’estate indiana” di Joe Dassin passava alla radio quando ti feci scendere qualche chilometro più tardi e quando ti chiesi se ci saremmo rivisti un giorno. Tu mi passasti il tuo indirizzo di Parigi, e pensai subito che anch’io sarei andata dove tu avresti voluto, quando tu avresti voluto.
Due mesi dopo, suonavo alla tua porta, io che non ero mai partita dalla mia città. Tu mi riconoscesti immediatamente, non ebbi bisogno di dirti nulla. Fu l’inizio della nostra lunga e bella avventura. Per dieci anni, girammo il mondo con i nostri zaini in spalla, passando da un posto all’altro, da una vita all’altra con la stessa facilità di un camaleonte, confondendoci con i luoghi. Tu m’iniziasti alla pittura, alla musica. In alcuni periodi, passavamo ore chiusi nel nostro laboratorio, e in altri la sola vista di un pennello o di una chitarra ci scoraggiava. In quei momenti, dovevamo uscire, e nessuno poteva immaginare quando saremmo ritornati, neppure noi. Quando sentivamo che la sindrome della tela bianca, dello spartito bianco ci avevano abbandonati, allora ci mettevano lentamente sul cammino del ritorno, sapendo perfettamente che quel cammino sarebbe stato la fonte di ispirazione della nostra prossima fase artistica.
Questa giostra durò dieci lunghi anni. Non ci rendevamo conto che il tempo passava. E poi un giorno, la giostra si fermò, noi ci svegliammo. Io, dei bambini. Tu, no. Tu, una vita da nomade, io, no. Infine, le nostre strade si separarono.
L’ultima volta che ci siamo visti era in un caffè in Place de l’Opéra. Speravo che sarebbe durato un attimo, io ti avrei restituito le chiavi e basta. Non volevo vederti più del necessario, mi avrebbe fatto troppo male. Quando ti ho visto, ho notato che provavi la stessa cosa, la tristezza si leggeva nei tuoi occhi. Un “Buongiorno”, un “Come stai?”, senza convinzione. Un lungo silenzio, ci guardammo dritti negli occhi, cercammo di incidere quel momento all’infinito nella nostra memoria. Nella nostra testa. Poi, non ce la feci più. Posai le chiavi sul tavolo, mi alzai. Mi girai, mi avviai, non ero già più lì. Tu non cercasti di fermarmi, avevamo deciso tutto già prima. Mi chiedo se era quella l’immagine che avevi serbato di me.
E ora, questa mattina, trent’anni più tardi, sono semplicemente una vecchia donna seduta nella sua cucina, e ripenso a quei momenti con te, quando eravamo giovani. Non rimpiango nulla delle nostre decisioni, ma mi chiedo lo stesso come sarebbe stata la mia vita se fossimo rimasti assieme. Non credo che avrei potuto essere più triste di come lo sono ora che sono venuta a conoscenza della tua morte. Sicuramente non riceverò mai una risposta a questa domanda. La vita continua, ma so che il mondo ha perso un po’ del suo ottimismo. Eri consapevole di quello che stava per accadere? Hai pensato a me in quel momento?
* * *
Ultima tournée. Ci mettiamo in strada per la meta finale, lì dove suoneremo insieme per l’ultima volta. Io guido il van, i miei musicisti si accapigliano. Ci sono il bassista, il percussionista, l’altra chitarra ed io, il chitarrista principale. Questo gruppo, questi ragazzi, sono io che li ha riuniti. Non si conoscevano dieci anni fa, fino a quando non gli ho proposto io di suonare insieme. Li ho incontrati diverse volte nella mia vita: il bassista era un amico del liceo, il batterista era il cameriere di un caffé in cui andavo spesso, l’altro chitarrista, un amico di un amico. I casi della vita ci hanno riunito, abbiamo passato bei momenti assieme, ma poi, cosa accadrà?
Dieci anni passano sempre troppo in fretta quando non c’è alcun problema. I primi tentativi nel mio laboratorio si sono rivelati concludenti, poi le prime vere ripetizioni sono state come una rivelazione, gli adattamenti si susseguivano, la complicità tra di noi si rinforzava. Avevamo un solo obiettivo comune, divertirsi suonando. E ancora, meglio se il successo era un appuntamento. Dai primi concerti nei bar in cui il cachet serviva a mala pena a pagare i nuovi strumenti, fino alle piccole sale riempite da sconosciuti, attirati dalla nostra fama in ascesa, niente cambiava tra di noi. Sapevamo che stavamo avendo fortuna, e che ciò sarebbe sicuramente cambiato un giorno. Ma ora, non vedevamo la necessità di agitarci, visto che tutto andava bene. Uscì il primo album, seguito dalle prime serie di concerti.
Tutto iniziò a prendere spessore, il gruppo crebbe – ingegneri del suono, le luci… ma il nocciolo duro restava lo stesso. Eravamo diventati inseparabili, facevamo tutto assieme. Anche se non parlavamo molto delle nostre vite passate, avevamo sempre qualcosa da dirci, e sapevamo quando non fare domande che infastidivano. Avevamo tutti dei fantasmi che ci seguivano, e di cui bastava semplicemente evocarli per destabilizzare tutto.
Dietro, i ragazzi hanno smesso di accapigliarsi, forse si sono addormentati. Una trentina di chilometri, e saremo giunti a destinazione. Abbasso il suono della radio, accendo le luci uscendo dal paese. Non so perché mi sono messo a pensare a lei… sicuramente perché un’altra volta, una fase importante della mia vita è sul punto di concludersi, e anche se sappiamo tutti che la fine è prossima, ci copriamo gli occhi. Mentiamo a noi stessi, pensando che ciò che viviamo non avrà mai fine.
All’improvviso una volpe attraversa la strada, proprio davanti a me, il mio cuore inizia a battere all’impazzata. La vedo scappar via nel bosco, ciò dura solo un secondo. Questa strada è una delle più monotone che io abbia mai percorso. E tuttavia ne ho fatti di chilometri! All’inizio da solo, poi con lei, e nuovamente da solo. Noi abbiamo tracciato la strada su tutti i Continenti, ogni tipo di rivestimento. Ma le linee così lisce e dritte come queste, non mi sono mai piaciute. Ci si annoia, la concentrazione è meno sollecitata e ci si addormenta più facilmente. Non è davvero il genere di strada che si prende volentieri alle due del mattino. Ma ci avviciniamo al nostro obiettivo e non devo sopportarla così a lungo.
Non vedo l’ora di arrivare laggiù, di suonare con loro. Ma questo momento mi spaventa pure, temo la separazione, la rottura, un’altra volta. Ne avevamo già discusso tempo fa, lanciando idee su progetti personali come se nulla fosse, per non allarmare gli altri e evitare una discussione troppo seria. Ho la sensazione che ne abbiano già parlato tra di loro, che abbiano già fatto tutto, solo per risparmiarmi. Forse il mio comportamento gli ha suggerito fino a che punto odio gli addii, gli arresti, la fine. Mi hanno guardato senza parlare, e gliene sono riconoscente.
L’ultima volta che mi sono confrontato con una rottura, avrei voluto fermare tutto. Avrei voluto, come nei film, accelerare quel momento e passare alla scena successiva, saltarlo tutto semplicemente. Ma la vita non è un film, e noi non siamo semplici attori di cui la vita non ha nulla a che vedere con quella dei personaggi. L’ultima volta che l’ho vista avvicinarsi, si è seduta di fronte a me sulla terrazza di quel caffè affollato. Mi ha chiesto come stavo, io le ho semplicemente risposto: “Bene, e tu?”. Ed è tutto. Dentro di me, mi gridavo di chiederle di restare, che non sapevo ciò che sarei diventato senza di lei, che non avevo voglia di saperlo… Ma ho taciuto. L’ho fissata, ho cercato di farle capire con il mio sguardo che lei rappresentava tutto per me. Ma è andata via, e non ho fatto niente per trattenerla. Mi chiedo cosa sarebbe successo se fosse ritornata, se l’avessi seguita, se fossimo rimasti assieme. Non penso di poter rispondere a questa domanda, nessuno può ritornare sul proprio passato. Se fosse stato possibile, l’avrei già fatto.
Un pannello indica che ci stiamo avvicinando alla nostra meta, ne sono sollevato. I miei occhi iniziano a stancarsi, la mia vista diventa più sfocata. Se mi ricordo bene l’itinerario, dovremmo presto attraversare una rotatoria, poi un ponte al di sopra di un largo fiume, prima di entrare nella periferia della città. Cerco di occupare la mente per tenermi sveglio, guardo regolarmente nello specchietto retrovisore, bevo un po’ d’acqua, gioco con i bottoni della radio. Mi fermo su una stazione che passa vecchie canzoni, canzoni della mia giovinezza. Ora, è “Salut les amoureux”, di Joe Dassin. Attraverso la rotatoria senza difficoltà, mancano solo quindici chilometri alla nostra destinazione. Mi ricordo di questo cantante, di quel piccolo tragitto nella Citroën CX una mattina di aprile del 1976. Perso nei miei pensieri, non sono più concentrato sulla strada. Rivedo lei, come se fosse di fronte a me, che arrossisce alle mie galanterie.
Prendiamo il ponte. Improvvisamente, prendo un buco. O almeno, è quello che ho creduto che fosse, fino a quando il suolo non si è sottratto a destra della strada, proprio davanti al mini-van. Sterzo con violenza per evitare il buco, ma urto il parapetto. Gli altri si svegliano, allarmati dall’urto. Ancora un po’ addormentati, non si rendono ancora conto di ciò che sta accadendo. Mi sento impotente, cerco di accelerare ma in fondo so che non serve a niente. La macchina inizia a cadere. In basso, il fiume sembra così lontano, ma io sento che la fine è vicina. Non so se gli altri se ne siano accorti, spero di no. Joe Dassin canta sempre il suo celebre ritornello, “ci si è amati come ci si lascia”.
Brutalmente, con tanto dolore, come noi. L’acqua si avvicina, temo l’impatto. “A domani, che viene sempre un po’ troppo presto”. Era inevitabile.
Mi giro verso gli altri, sono lividi. In un ultimo guizzo di coscienza, spengo i fari.
E tutto diventa nero.