Cicatrici inevitabili_Eleonora Vasco, Roma
_Racconto finalista tredicesima edizione Premio Energheia 2007.
“Mary Anne. Quattro anni prima”.
Faceva molto freddo quella sera. Il vento soffi ava con forza; le fronde degli alberi sbattevano tra di loro, agitandosi convulsamente; le nuvole coprivano il cielo minacciando un’imminente temporale. Sarah stava in piedi in prima fila, stretta nel suo mantello, il braccio destro a cingere le spalle di Mary Anne, la sua sorellina. I freddi occhi azzurri erano fissi sui fasci di fieno, al centro della piazza. Il viso tirato, le labbra serrate. Una bambina che si sentiva grande, una bambina che sopprimeva il dolore per non dare soddisfazione agli altri [ «A volte vorrei non avere sentimenti. Eppure la forza del mio odio è così tangibile… A volte, forse dovrei pensare di più a me stessa…» ]. Covava così tanto dolore e rancore dentro di sé che, se solo lo avesse lasciato fuoriuscire, avrebbe finito per fare del male a qualcuno, di questo ne era certa [ «Io Vi ucciderei! Ma solo con pochi colpi, precisi, veloci… Dritti al cuore! In questo modo vi ucciderei… Uno dopo l’altro, in un macabro gioco… Solo per scurire l’acqua già tinta…» ]. Le grida del popolo risuonavano alle loro spalle. Insulti, sputi, spintoni. Ma Sarah non se ne curava. Lei aspettava il momento della vendetta. Perché sapeva ci sarebbe stata una vendetta [ «Odio tutti. Odio anche me. Altre cicatrici…inutili…» ]. La donna venne portata a forza al centro della piazza, trascinata per i polsi legati, i piedi scalzi, l’abito consunto e strappato in più punti. Inconsciamente, Sarah strinse a sé Mary Anne con più forza, quasi a proteggerla da quello spettacolo così deplorevole.
L’accusata venne fatta salire sulla pira, legata con forza all’alto palo in legno massiccio, esibita davanti a tutti come un trofeo. “A morte la strega!”, urlò qualcuno alle spalle delle bambine. Mary Anne si voltò, le pupille degli occhi dilatate per lo spavento, i capelli biondi scompigliati che ricadevano in ciocche scomposte sul viso d’angelo. Sarah la scrollò piano. “Non ascoltare…”. Solo poche parole, ma bastarono. Mary Anne annuì, appoggiandosi alla sorella in cerca di conforto. La uccidevano perché era una strega. O almeno perché lo sospettavano. Ma Sarah sapeva di non dover piangere. Glielo aveva promesso. Lo aveva promesso alla mamma. “Non piangerò e penserò io a Mary Anne”, aveva detto. E ora lo avrebbe fatto.
La donna aveva alzato gli occhi su di loro, mentre le fiamme cominciavano ad avvampare. E aveva sorriso. Fu in quel momento che Sarah decise di non lottare più. Non voleva più combattere la pazzia che si insinuava piano nella sua mente sin da quando era molto piccola. Non voleva più sforzarsi per essere una brava bambina. Voleva solo smettere di respirare [ «Ho fatto la mia scelta, giusta o sbagliata che sia. Ora non posso tornare indietro… Nuove cicatrici… inevitabili…» ].
Aveva piovuto per tutto il giorno e anche quella notte il tempo non sembrava decidersi a migliorare. Sarah stava in piedi, di fronte alla finestra della sua stanza.
Le piccole mani poggiate contro il vetro freddo, i piedi scalzi. Guardava la pioggia scrosciare sulla tranquilla campagna, gli alberi piegarsi sotto le raffi che del vento, il cielo nero privo di stelle. Mary Anne stava dormendo, poco lontano da lei.
Rannicchiata sotto le coperte, i boccoli biondi che ricadevano sul visino magro, le labbra rosee appena dischiuse. Rimase per un secondo ad osservarla, quasi in apprensione. Mary aveva solo due anni meno di Sarah, ma sembrava molto più piccola.
Da quando la madre era stata uccisa, sul rogo, due mesi prima, Mary Anne non era più riuscita a dormire tranquillamente.
E nemmeno a vivere tranquillamente. Spesso scoppiava a piangere per delle sciocchezze e durante la notte invocava il nome della madre con insistenza, quasi nella speranza che così facendo lei potesse tornare, per abbracciarla e consolarla. Sarah riportò lo sguardo fuori dalla finestra, sospirando. Odiava vedere la sorella in quelle condizioni. Si sentiva molto protettiva nei suoi confronti. In fin dei conti, lei aveva già dieci anni, doveva prendersi cura della piccola Mary Anne. Tornò nel suo letto, affondando sotto le pesanti coperte. Il mattino dopo, la signora Halliwen sarebbe passata da loro, come sempre, per assicurarsi che tutto fosse a posto. Era una vecchina molto in là con gli anni che aveva sempre abitato poco distante dalla loro casa. Conosceva la madre delle due sorelle, Daisy De Villers, e faceva il possibile per aiutare le due piccole, ora che si trovavano sole. Nessun altro voleva prendersi cura di loro. “Piccole streghe”, così le chiamavano in paese. Sarah chiuse gli occhi, provando ad addormentarsi. La signora Halliwen avrebbe preparato per loro una buona colazione e dopo lei e Mary Anne sarebbero uscite a giocare sui prati. “Speriamo smetta di piovere…”, pensò mentre il sonno annebbiava la sua mente, “così potrò giocare con Mary…”.
Sarah spalancò gli occhi, tirandosi a sedere. La piccola fronte imperlata di sudore, il cuore che batteva forte nel petto.
Cos’era stato quel rumore? Si guardò attorno, poi un altro tuono infranse il silenzio della casa, facendola sussultare. “Solo un tuono…”, pensò. Si era spaventata per un semplice tuono. Lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra: era ancora buio. Che ora poteva essere? Forse le tre, al massimo le quattro del mattino. Come sempre, spostò l’attenzione verso il letto della sorella, per assicurarsi che non si fosse svegliata: Mary Anne aveva sempre avuto paura dei tuoni. “Mary Anne…”, dischiuse appena le labbra, come per dire qualcosa, ma le parole non uscirono. Il letto era vuoto. Scese rapidamente dal suo, uscendo dalla stanza. “Mary Anne!”, ispezionò ogni stanza, nel tentativo di trovarla. Dov’era Mary? Era ancora buio, certamente non poteva essere uscita… Non poteva…
Senza vestirsi, spalancò la porta di ingresso e corse fuori, sotto la pioggia, urlando il suo nome. Il cuore batteva senza sosta nel petto, sempre più prepotentemente. Perché Mary non stava dormendo? Possibile fosse uscita senza avvisarla? Percorse tutta la zona erbosa che circondava l’abitazione, senza trovarla.
Poi si decise ad entrare nel bosco. Era buio, ma la piccola andava spesso lì a giocare, nelle giornate di sole. Le piaceva arrampicarsi sugli alberi. Camminò per un po’ in mezzo agli alberi, incurante delle piccole ferite che si procurava ai piedi, essendo scalza. I lunghi capelli neri le si appiccicavano al volto bagnato, impedendole di vedere chiaramente dove si dirigeva. Alla fine, sbucò in una piccola radura. Conosceva bene quel posto: era lì a giocare innumerevoli volte. Quando Daisy era ancora viva, portava lì le due figlie, raccontando loro storie fantastiche di draghi, principi e principesse. Storie dove l’amore trionfava ed i cattivi pagavano per i loro misfatti. Sarah adorava ascoltare quelle storie. Mamma Daisy le raccontava così bene…! Si fermò ai piedi del grande albero.
L’albero su cui Mary Anne giocava sempre. Erano lacrime che le rigavano il viso o erano solo gocce di pioggia? Non lo sapeva. Non le interessava saperlo. Il corpo di Mary Anne pendeva dal ramo più basso, legata per il collo ad una lunga corda. Sarah conosceva quella corda. Era sempre stata nella dispensa della loro casa. Non l’avevano mai usata ma mamma Daisy la teneva lì, assieme ad altre piccole cose. A terra c’era un piccolo sgabello, probabilmente portato via da casa. Sarah non ne aveva nemmeno notato la mancanza, nella fretta di ritrovare la sorellina. Davvero era riuscita ad issarsi fin lassù da sola? “Guarda come mi arrampico bene, Sarah! Mamma, guarda anche tu!”. La voce di Mary Anne, così dolce e cristallina, era ancora vivida nei suoi ricordi. La vedeva salire sugli alberi con l’agilità di una scimmietta, mentre mamma Daisy rideva di cuore e si avvicinava appena, per controllare che non si ferisse. “Sarah non è capace!” diceva ridendo, dall’alto di un qualche ramo. “Sarah non si sa arrampicare bene come me!”. Lentamente ritornò verso casa. Non si era accorta che il sole, in lontananza, cominciava a sorgere e tanto meno che la pioggia aveva improvvisamente smesso di scendere. I suoi occhi azzurri erano fissi a terra, mentre ripercorreva la strada fatta in precedenza.
Entrò in casa, raccolse poche cose utili, poi torno alla radura. Sedette a terra, sotto l’albero di Mary Anne, poggiando la schiena contro il tronco, ancora bagnato. Aprì il suo vecchio album da disegno, molto sciupato dal tempo, e cominciò a disegnare su un foglio libero. Adorava quell’album, glielo aveva lasciato suo papà, prima di scomparire. Chissà dov’era papà ora…? Anche lui era andato in cielo, come mamma Daisy e Mary?
Sarah disegnò per molto il tempo, fino a che il sole fu alto e la stanchezza prese il sopravvento. Disegnò con estrema cura il piccolo corpicino di Mary Anne appeso al grande albero.
La veste bianca, ricamata ai bordi, che quasi copriva i piedini nudi. Il volto abbandonato in avanti, sul petto, con i lunghi boccoli d’oro che ricadeva disordinatamente sulle spalle. Lo sgabello a terra, poco sotto i piedi della bambina. E la pioggia che scrosciava tutt’attorno.
Poi si addormentò ai piedi dell’albero. Rannicchiata a terra, un piccolo fagottino bagnato e smunto, stretto al suo albo da disegno. “Guarda come mi arrampico bene mamma, guarda!”… Mary Anne… il suo ultimo pensiero, prima di addormentarsi…
“Sarah. Quattro anni dopo”.
La Taverna, come sempre, era sporca e forte di odori acri. I clienti, per lo più vocianti omaccioni dalle mani incallite e dai modi poco eleganti, osservavano Sarah con sguardi carichi di desiderio, regalandole pesanti apprezzamenti che fingeva di non sentire. Odiava la Francia e odiava quel posto. Ma era lì che si trovava, ed era quello l’unico lavoro disponibile. Non poteva lamentarsi. Fare la cameriera non era poi male come aveva creduto in un primo momento, anche se gli inizi non erano stati dei più felici. Le capitava spesso di spaventarsi, quando con noncuranza qualcuno allungava le mani per toccarla o urlava qualche volgarità in sua direzione. Aveva rotto un buon numero di piatti e bicchieri e più di una volta aveva deciso di andarsene. Ma i padroni della locanda l’avevano dissuasa dal farlo. Loro non erano cattivi, solo molto furbi.
Sapevano che nonostante la giovane età, Sarah era a dir poco splendida. Una cameriera così, di certo richiamava un gran numero di clienti. E solo questo realmente importava. Erano anche a conoscenza che la ragazza non aveva altri posti in cui andare e si sarebbero sentiti in colpa abbandonando al proprio destino una ragazza di soli quattordici anni. Sarah servì l’ennesimo boccale di birra ad uno degli avventori, cercando di non prestare attenzione a ciò che diceva o al cattivo odore del loro alito. Si voltò, per tornare verso il bancone, finché non sentì una mano serrarsi attorno al suo braccio destro, con forza. “Ehi, ragazzina, ti sto parlando!”, esclamò lui, tirandola verso di sé «chi ha detto che potevi andartene, eh?”. Sarah trattenne a stento un grido, mentre gli occhi vagavano per la stanza, in cerca di aiuto. Nessuno sembrava interessato alla faccenda e i padroni, quel giorno, si erano recati in città per fare rifornimenti. “Di cosa avete bisogno?”, chiese, cercando di mantenere un tono di voce gentile. “Della tua compagnia, bambina”, rispose quello tuonando in una fragorosa risata. Poi, con gesto rapido, la trasse a sé, facendola sedere sulle grasse gambe. “Quanto mi costerai?”. Lei cercò di tirarsi indietro, avvertendo la paura crescere “Per favore…”, disse agitata, “questo non è il tipo di locanda che fa per Voi, monsieur…”. “Su piccolina non farti pregare!”. Mentre allungava la mano per toccarle l’acerbo seno, all’improvviso un pugno lo colpì dritto in volto, facendogli reclinare il capo all’indietro, il naso gocciolante di sangue scuro. “Ma cosa…?”. Prima che potesse rendersi conto di ciò che stava accadendo, qualcuno aveva afferrato il braccio di Sarah, trascinandola via correndo.
Seguì lo sconosciuto per le strette vie secondarie di Parigi, sbucando infine in una specie di piazza, che non conosceva. Si guardò attorno, spaventata, stringendosi nel misero scialle di cotone che indossava. Di fronte a lei, un giovane era chino su se stesso, le mani poggiate sulle ginocchia, mentre cercava di riprendersi dalla folle corsa, respirando a pieni polmoni. “Tutto bene?”, chiese poi, alzando il volto sorridendo. Sarah non aveva mai visto un ragazzo così bello. Era sicuramente più
grande di lei, il volto dai lineamenti delicati era incorniciato da corti capelli neri, spettinati. Poco sopra il sopracciglio sinistro troneggiava una piccola cicatrice, ma più che sfigurarlo, sembrava quasi mettere in risalto i suoi occhi. Le labbra, carnose e ben delineate, erano sorridenti e il naso, appuntito, era piccolo ed in perfetta armonia con il resto del volto. “Forse non avrei dovuto portarti via così…”, ragionò poi lui, tra sé e sé, “ma quelli sono tipi pericolosi…non sapevo che altro fare…”. “Non importa”, asserì lei dopo un attimo di esitazione, “avevo deciso di lasciare quel lavoro molto tempo fa… Ora temo sia giunto il momento di farlo”. Lui le tese la mano, in un gesto amichevole: “Io sono Davien, piacere… Tu sei…?”. “Sarah…”, stringendo appena la sua mano “Sarah Morris…”.
Vivere con Davien si era rivelato essere molto divertente. Sarah, sin da subito, si era affezionata a quello strano diciannovenne che girovagava senza un’apparente meta per le strade parigine, rubacchiando pane per cibarsi e passando le notti nei posti più disparati. Non importava dove fossero o cosa stessero facendo, se erano assieme, Sarah era felice. Aveva sempre odiato Parigi, quella città straniera in cui tutti si comportavano in maniera così superficiale, ma dopo aver fatto amicizia con lui, un nuovo mondo le si era aperto davanti agli occhi. Ora riusciva a divertirsi, riusciva a ridere, riusciva a pensare in maniera più positiva alla vita. Sebbene la notte ancora non riuscisse a dormire per gli incubi che la perseguitavano, una nuova speranza era apparsa all’orizzonte.