L'angolo dello scrittore

Claudia Mancini – racconto di Giorgio Fontana 3/3

Terza parte

Passarono due giorni. Claudia aveva tenuto i ritagli nascosti con sé fra le coperte. Li aveva stretti fra le mani come un fiore, e aveva dormito come mai negli ultimi tempi. Al buio cercava quel nome con le dita: sapeva a memoria che si trovava lì, fra le parole giovane e , anni 27. Ce n’era anche un altro, poco prima di ragazza semplice, dicono gli amici, generosa, sempre sorridente. A furia di toccarli, pensò di averli segnati con un piccolo solco, e quel piccolo solco significava amore.
Il terzo giorno sua madre le disse che non sarebbe rientrata fino alle quattro. Le lasciò un vassoio con del pollo freddo accanto al letto, e una bottiglietta d’acqua, e un panino all’olio, e la pastiglia nel centro di un piattino, lievemente più opaca dello sfondo. Claudia annuì a tutto.
Poco più tardi si alzò dal letto e si vestì. Era una sensazione strana, vestirsi senza essere obbligata a farlo. Insieme agli abiti le parve di rimettersi addosso la vita normale: questo poteva essere un progresso, il dottore sarebbe stato d’accordo: una nuova forma di terapia. Claudia cercò di concentrarsi nuovamente sulle sue crisi. Non voleva guarire in quel modo così stupido. Ebbe quasi subito un conato di vomito, e lo percepì come un successo.
Poi uscì per strada. Lo Xanax dava a quell’estate un nitore invernale, sbiancava l’intero paesaggio. Claudia avanzava a fatica, con una mano sullo stomaco e un foglietto nell’altra. Prese un autobus. La città era uno sfondo più intenso di quello che si aspettava, uno specchio ancor più brulicante del suo vuoto. Orecchini a stella. Un neo in mezzo alla fronte, come un buco. Odore di sigaretta. Sciarpe arcobaleno. La Marcia alla turca. E il terrore di incontrare qualcuno che conosceva. Giustificare la sua scomparsa, mascherare la malattia con un sorriso strappato. Fu solo quando vide la fermata che capì di avercela fatta.
Scese in fretta. Guardò sul suo foglietto. La casa non doveva essere distante. Ricordava benissimo la forma del palazzo alla televisione. La tonalità fra il rosa e l’arancio. Davanti alla porta d’ingresso c’era ancora una coccarda di lutto. Molte imposte chiuse.
Claudia si avvicinò. La porta era aperta. Non c’era nessun portiere. Controllò i nomi del pianterreno, poi si diede della stupida: doveva essere per forza più in alto. Decise di cominciare dal terzo, e trovò subito la targhetta che voleva. Seconda porta a sinistra. Era stato facile.
Si ravviò i capelli, suonò il campanello, e attese. Il pianerottolo era vuoto e puzzava di minestra sui vestiti. Per un istante Claudia si sentì ancora più perduta di quanto le fosse mai capitato. Un grano di sabbia nel fondo di una clessidra, dove nessuno l’avrebbe mai salvata. Appoggiò una mano contro lo stipite. Era un momento importante nella sua vita, stava facendo una cosa e la stava facendo da sola.
Poi una voce rispose.
«Chi è?»
Era una voce di donna, una voce vestita di garze nere. Claudia si riscosse.
«Buongiorno, signora.»
«Chi è?», ripeté la voce.
«Sono qui per parlare», disse Claudia.
«Cosa vuole?»
«Parlare.»
«Parlare di che?»
«Di Claudia, signora.»
Il silenzio durò una decina di secondi, ma Claudia percepì che quello non era uno spazio vuoto: era un’onda che si stava riempiendo lentamente, prima di spezzarsi contro il legno della porta.
«Basta!», gridò la voce. «Dovete lasciarmi in pace
Claudia non disse niente.
«Mia figlia non si è uccisa! Ha capito? Non si è uccisa!»
Claudia non disse niente.
«Era una persona felice. Le volevano tutti bene. Voleva bene ai suoi genitori. Non si sarebbe mai uccisa, capisce? Mai
«Sono dell’assistenza sociale», biascicò Claudia alla porta. Ma quello che avrebbe voluto dire era: Anch’io mi chiamo Claudia Mancini. Oppure: Tutti vorremmo ucciderci, e non tutti ci riescono. Oppure ancora: Posso barattare questo dolore con il suo?
La voce della porta andò in mille pezzi, un mosaico di singhiozzi e parole grattate sulla gola: «Non m’interessa!», si contorse. «Non voglio sentirne più di storie come questa! Mia figlia non si è uccisa, ha capito? Ha capito
Claudia sentì i muscoli dello stomaco che si rilasciavano. Conosceva quella sensazione. Le rare volte che aveva provato sollievo, quei minuscoli istanti dove la malattia le era sembrata soltanto un brutto scherzo. Una cosa che si poteva soffiare via. Immediatamente dopo si sentiva ricadere nel buio, ma non ora. Ora aveva solo voglia di respirare quell’aria umida, quell’odore di minestra.
Dall’altro lato della porta la voce scoppiò in lacrime. Claudia respirò lentamente e con decisione. Sentì la luce del ballatoio attraverso il maglione, come se si stesse facendo strada fra i buchi. Sentì la sua trasparenza e il suo calore. La voce piangeva e prendeva la porta a calci. Non si è uccisa! Non si è uccisa! Al piano di sopra ci fu il rumore di una chiave che gira, un bisbiglio sgranato. L’ascensore cigolò. I particolari tornavano al loro posto come uccelli al nido. C’era l’idea di un peso che si sposta, di una colpa rimessa.
Tutto poteva essere ignorato, ora.
Claudia si staccò dallo stipite e sorrise.