Claudia Mancini – racconto di Giorgio Fontana 1/3
Prima parte
Una cosa non le era sfuggita, in mezzo al solito caos di particolari inutili (le dita fra le dita, la luce che calava, un odore di torta). Da qualche tempo, la madre le aveva messo un televisore davanti al letto. Era sempre acceso e doveva farle compagnia. Impedirle di sentirsi sola, anche quando lo era: ma in realtà sortiva appena l’effetto opposto, quello di un altro rumore subacqueo. L’ennesima prova che lei esisteva.
In fondo la malattia non si riduceva che a questo: a un problema di percezione. Lo sfondo diventava l’elemento rilevante. Uno specchio in cui vederti così com’eri, schiacciata nel letto, condannata alle bollicine nel bicchiere. Alla polvere sul comodino. Mentre tutto il resto, tutto l’importante scivolava via.
Ma una cosa, ora, non le era sfuggita.
La ragazza era stata trovata giù sul marciapiede. Sotto il balcone di casa. Era appena tornata dall’università. Il collo si era rotto nell’impatto. Il video si bloccò su una bionda con gli occhiali, magrettina, il volto sporcato di nei.
La voce disse che si chiamava Claudia Mancini.
Questo è banale, pensò lei buttando le coperte sopra la spalla. Questo è banale e dovrebbe significare qualcosa se fosse un segno, ma i segni non esistono, esistono solo i particolari, l’odore di torta, le dita fra le dita, il ronzio della luce. Quindi non ha senso.
Sua madre entrò nella stanza, con un sorriso breve.
«Come va, amore?», chiese.
«Insomma.»
«Vuoi qualcosa? Dell’acqua?»
«No, grazie.»
«Una fetta di torta.»
«Non ho fame.»
«Devi sforzarti. Altrimenti ti si chiude lo stomaco.»
«Lo so, ma non ho fame.»
«Una fettina piccola.»
«No.»
«Ma lo sai che il dottore…»
«Ti dico di no, cazzo!»
Sua madre si passò le mani nei capelli.
«Scusa», disse Claudia a bassa voce.
«Non ti devi scusare.» Si sedette sul letto. Claudia spostò la gamba destra per farla accomodare meglio. «Sei tanto stanca, figlia mia. Ma guarda come sei bella. È talmente un… peccato che…»
«Lo so, ma non riesco a…»
«Stai tranquilla.»
«È che davvero non — ci riesco.»
«Tranquilla», ripeté la madre. «Non ti preoccupare. È un periodo. Ci vuole solo del tempo. Un po’ di tempo, e ti prometto che ne uscirai fuori.» Poi allargò ancora il suo sorriso, le carezzò i capelli. «Lo sai quanto ti voglio bene, vero?»
«Sì», disse Claudia. Sentì un bacio atterrare sui suoi occhi chiusi, e poi più nulla: solo di nuovo il ronzio della televisione, l’odore di torta, e Claudia Mancini che era morta a due chilometri da lei.
La sera, anche se non lo voleva, mise il portatile sulle ginocchia e andò su internet a cercare informazioni. Ormai erano tre settimane che viveva a letto. Era cominciata con una crisi di panico, mentre leggeva in biblioteca. La prima cosa che le aveva chiesto il dottore era stata: descrivimi come ti senti. Lei rispose che l’immagine più vicina — ma ancora distante infinite miglia di violenza — era quella di trovarsi in uno sgabuzzino vuoto. Da sola. Di colpo. Per ore. Finché qualcuno non fa scivolare un bigliettino sotto la porta, come una lingua bianca.
«E cosa ci sarebbe scritto sul bigliettino?», aveva chiesto il dottore.
Claudia consultò i siti dei quotidiani più importanti, ma non c’era nessun articolo. La notizia doveva essere stata trasmessa solo a livello locale. Trovò qualche ragguaglio e una manciata di informazioni che già sapeva. Ventisei anni, impiegata, Via Pascoli eccetera. Un tragico evento, le periferie eccetera.
Claudia chiuse il portatile e rimase a sentirne il caldo e il ronzio sul grembo. I suoi genitori russavano. Si passò una mano sulla fronte e la trovò fredda. Non mangiava nulla da tre giorni. Sapeva che non avrebbe dormito. C’era una logica implacabile nella malattia, tutta una serie di assiomi. Scostò il portatile e prese il blocco che teneva sul comodino, sopra tre libri e una scatola di fazzoletti. Stappò la penna rossa con la bocca e sputò il cappuccio a lato, le labbra che tremavano. Scrisse:
CLAUDIA MANCINI
CLAUDIA MANCINI
CLAUDIA MANCINI
RESTER
PERCHÉ??
RESTERAI QUI PER SEMPRE
Poi ripose il blocco, spense la luce, si sdraiò fino ad essere (enumerò) soltanto una scheggia sommersa dalla lana, un corpo qualunque, un oggetto, una piega del lenzuolo, le bollicine nel bicchiere, l’odore di torta del corridoio, le dita fra le dita.
Il mattino dopo chiese alla madre di comprare il giornale della provincia. Mentre la aspettava cercò di riaprire il libro davanti al quale tutto era iniziato — quel giorno in biblioteca, il giorno in cui era svenuta. Era una specie di sfida. Credeva che finendolo la sua malattia si sarebbe dissolta. Le riuscì solo di sfogliarlo. Era un grosso mattone sull’uso dei colori nella scuola fiamminga. Pensò al punto in cui era arrivata con la tesi di dottorato. Tutto le si sfaceva in testa. Mesi di lavoro le apparivano incredibilmente poco importanti, di fronte alla speranza di avere appetito.
La madre rientrò in una nube di fretta e sorrisi. Le posò il giornale sul letto e disse che fuori era una bellissima giornata. Claudia alzò gli occhi e si sporse un po’ dalla finestra.
«Ho incrociato Marco e Federica», disse la madre mettendo qualcosa nell’armadio. «Mi hanno chiesto come stavi. Credo vogliano passare a trovarti. Ti farà bene. Devi vedere della gente, è il primo passo per tirarti un po’ fuori.» Si asciugò il sudore dal collo, sempre sorridendo. Quanto doveva essere terribile, mostrare sempre tenerezza. «Ti preparo un tè», disse.
Claudia guardò giù e vide: tre magrebini che si lavavano a un idrante, un bambino mano nella mano del padre, dei ragazzi in cerchio, un’auto gialla. La madre se ne andò parlottando fra sé, quasi a segnalare che la sua presenza era sempre vigile.
Claudia graffiò il materasso. La lingua le pesava in bocca. Sentì i tremiti spargersi sul corpo come insetti. Lo sapeva. Cominciava sempre così. I muscoli dell’addome si contrassero come un pugno. Viveva eternamente con il mal di stomaco, ma in quei momenti era come se un pugnale la stesse per trafiggere e lei dovesse opporre resistenza — flettersi, curvarsi come una parentesi, come una danzatrice o una baccante, esame di letteratura greca, ricordi?, portare due dita su un capello e poi strapparlo, e sentire gli occhi oltre il bordo delle ciglia, quasi stessero cadendo, tutto il mondo felice e lei in uno sgabuzzino, il colore dell’acqua, il verde delle matite, il tremito alle labbra, e già stava per bruciare un urlo, quando si ricordò del giornale.