Come valutare gli intangibili
_ di Roberto Vacca_
Ai tempi antichi la ricchezza era prodotta da agricoltori (grano, olio, vino) e da industriali (macchine, attrezzi). Di anno in anno la “roba” ha perso terreno. Produciamo una ricchezza fatta sempre meno di alimenti, metalli, cemento, legno, plastica e sempre più di servizi. Anche il contenuto di energia del prodotto interno lordo dei Paesi avanzati decresce di continuo (vedi Tabelle).
Aumenta, invece, la ricchezza costituita da intangibili (servizi, informazione, elaborazione di conoscenza). Perché studi, ricerche e progetti sono una ricchezza? Ma perché servono a costruire strumenti con cui si lavora meglio. Servono a fornire servizi e organizzazioni che prima non c’erano. Fanno risparmiare tempo (aerei, treni veloci, autostrade) e denaro (i prezzi di personal computer e telecomunicazioni diminuiscono). Viene in mente la definizione americana. “un ingegnere è uno che sa fare con un dollaro quello che qualunque cretino sa fare con due dollari”.
Dunque un’azienda che addestra i dipendenti a compiti complessi offre servizi e prodotti migliori. Avrà maggiori profitti. La conoscenza ospitata nei cervelli dei lavoratori è un valore – è un capitale. Taluno lo chiama “capitale umano”. Il management farà bene ad accumulare conoscenza, non solo in libri e manuali, ma nella sua forza lavoro. Dovrà anche creare un ambiente di lavoro e condizioni sociali gradevoli, se no i dipendenti addestrati vanno a lavorare altrove e quella ricchezza si perde.
Alcuni manager e certi studiosi sostengono, allora, che questa ricchezza intangibile sia equiparata a un bene concreto, anche se non si tocca, non si pesa ed è difficile da misurare. Propongono di studiare modi di misurarla e di inserirla nei conti economici e nei bilanci aziendali. Così i conti rispecchierebbero meglio la realtà delle aziende moderne, ricche perché possiedono conoscenze migliori. Dimostro ora che non è una buona idea.
D’accordo che la conoscenza è vitale! E’ il fattore principale per creare valore aggiunto. Si stima che gli investimenti in conoscenza, addestramento – intangibili – siano della stessa entità di quelli in infrastrutture e prodotti fisici. Certo che questi investimenti vanno fatti e controllati. I benefici che ne derivano, però, non sono istantanei. Sapremo se ci saranno e li misureremo solo dopo che le conseguenze di investimenti e misure si saranno sviluppate.
Quindi va evitato ogni tentativo di capitalizzare (cioè di classificare fra le voci attive del bilancio) la conoscenza e ogni altro intangibile (comprato, come un brevetto, o prodotto in azienda). E’ un rischio grosso. Possiamo riporre grandi speranze in un ottimo progetto di una meravigliosa macchina nuova. Ma può essere che il mercato non la gradisca o che si presenti un concorrente a offrire una macchina migliore a prezzo minore o che il progetto sia affetto da gravi difetti inizialmente non individuati. Possiamo essere soddisfatti di aver addestrato benissimo una squadra di progettisti super – e poi i migliori all’improvviso danno le dimissioni e ci lasciano. Solo dopo che la conoscenza ha ispirato la nostra produzione, ha fatto crescere vendite e profitti e diminuito i costi, possiamo valutarne il valore – a cose fatte – a posteriori.
Per ora è consigliabile seguire con prudenza le vecchie regole contabili. Ogni spesa e investimento in ricerca e sviluppo, spese tecniche, nuovo software, addestramento in azienda o presso scuole esterne, deve essere registrato a spese nello stesso mese in cui viene fatto. Se, poi, i benefici derivanti da tali investimenti non arrivano, il passivo è già stato contabilizzato. Quando arrivano, è quello il momento di registrarli in attivo nel conto economico.
Sul sito www.euintangibles.net sono disponibili studi ponderosi che trattano l’argomento. Discutono le enormi difficoltà di misurare gli intangibili. Auspicano che si producano: una nuova teoria dell’azienda, nuovi sistemi di misura, spiegazioni delle implicazioni politiche della economia degli intangibili. Propongono in astratto procedure per contabilizzare le risorse umane, monitorare le risorse intangibili, classificare contenuti innovativi, processi organizzativi. Non riescono, però, a fornire nessun esempio concreto.
Non c’è da meravigliarsene. Basta considerare le variabili su cui ha iniziato un programma di valutazione degli intangibili una nota industria scandinava. Fra queste: dedizione al lavoro, valutazione del rendimento lavorativo, libertà nella progettazione, reputazione dell’azienda, soddisfazione dei dipendenti. Sono certo fattori rilevanti, ma si possono valutare solo con apprezzamenti soggettivi. La stessa azienda misura nel quadro dello stesso programma: la percentuale di dipendenti che lascia l’azienda in un anno, il numero di giorni dedicati in media all’aggiornamento dei dipendenti, il numero di brevetti conseguiti dall’azienda. Questi sono fattori rilevanti e misurabili, ma non spostano le conclusioni sopra illustrata sul fatto che non è opportuno contabilizzare gli intangibili.
In conclusione, abbiamo bisogno di notevoli sforzi per ridefinire valore e rendimenti. A questo fine è necessaria la cooperazione di manager, ricercatori, economisti, scienziati. Uno degli obiettivi dovrebbe essere quello di migliorare le nostre capacità di previsione, valutando in modo più saggio risorse e traguardi. Attualmente la crescita socio-economica si è trasformata da un processo spontaneo in un imperativo irrinunciabile. Un anno di crescita zero è considerato quasi come un disastro. Ma è noto che valutiamo la crescita in modi primitivi. Calcolare e registrare il prodotto interno lordo è utile, ma sappiamo bene che questo numero ha significato scarso. Non è certo la chiave della salvezza. Sappiamo, poi, che è vitale misurare la qualità e migliorarla di continuo (come implica il termine giapponese kaizen). Buona parte della soluzione è contenuta nel concetto di gestione totale della qualità. Lo scopo di ottimizzare questa gestione si può raggiungere solo integrando settori, discipline, piani, politiche – e innalzando i livelli culturali.
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Anni | 1936 | 1950 | 1970 | 1980 | 1995 | 2000 |
Agricoltura | 63 % | 45 % | 40 % | 14 % | 7 % | 2,5 % |
Industria | 26 | 29 | 40 | 37 | 31 | 30.5 |
Servizi + terziario | 11 | 26 | 20 | 49 | 62 | 67 |
Ripartizione percentuale fra i 3 settori di attività in Italia dal 1936 al 2000
Anno | 1949 | 1977 | 1988 | 1999 |
Energia (kJoule) per $ di Prodotto Interno Lordo in USA (dollari 1992) | 18 kJ | 15 kJ | 10 kJ | 7 kJ |
Contenuto di energia del prodotto interno lordo USA nell’ultimo mezzo secolo: in 50 anni è sceso del 60% (ma è più alto di quello europeo: 4,3 kJ/$ in Inghilterra, 2,7 kJ/$ in Italia)