Comunicare informazioni, tecnologia, verità
_ di Roberto Vacca
L’era digitale non è una novità del nostro tempo. Cominciò migliaia di anni di anni fa con la scrittura. I simboli alfa-numerici esprimono parole, quantità e relazioni – non suggeriscono analogie con immagini e diagrammi. Siamo diventati homo sapiens e abbiamo cominciato ad articolare parole. Siamo diventati ben più sapiens con le parole scritte.
Da decenni il progresso epocale è stato l’Elaborazione Elettronica dei Dati. A velocità alte e crescenti trattiamo i simboli, li registriamo su supporti esterni, li elaboriamo, li correggiamo, li trasmettiamo. Li ricerchiamo e li reperiamo. Fino a pochi anni fa i simboli immessi nei computer erano scelti da tastiera, elaborati da programmi o codificati elettronicamente a partire da testi scritti. Ora con i simboli evochiamo anche immagini colorate, video, audio e li trattiamo in modi flessibili. Toccare certe icone equivale a impartire ordini e istruzioni, ma le nostre scelte sono talora imprecise e il risultato è preterintenzionale. Usiamo anche comandi analogici: tocchiamo col mouse o coi gesti o sfioriamo simboli sugli schermi.
I risultati di queste procedure sono in genere buoni. Commettiamo errori occasionali e le conseguenze sono spesso più spiacevoli di quelle dello sbagliare tasto su una macchina da scrivere. L’uso delle icone è un ritorno alla barbarie antica e causa spesso malintesi e inconvenienti. Non sono gravi, se ci occupiamo di cose semplici. Però la tecnologia progredisce: le tecniche, le macchine e il software nuovi sono tanti – in genere ottimi, anche se non tutti. Sono sempre più complessi e occorre parlarne in modo chiaro. Per farlo bisogna definire i termini usati. I tecnici lo capirono moltissimi anni fa e introdussero le specifiche: descrizioni complete di macchine, processi, sistemi che ne definiscono il progetto elencando dimensioni e funzioni (di cui sono stabilite le tolleranze ammissibili), forma (definita da disegni o modelli), materiali impiegati e ogni caratteristica rilevante.
Le specifiche sono essenziali per realizzare il progetto. Chi compra l’oggetto che esse definiscono, esige che il costruttore o fornitore ne consegni un copia. Controlla che la macchina o il sistema sia esattamente conforme ad esse. In caso contrario rifiuta di concludere l’acquisto, se le discrepanze non vengono eliminate. Naturalmente oggi i documenti relativi sono registrati su computer e trasmessi via Internet.
Prodotti di alta tecnologia vengono largamente acquistati e usati da utenti privi di competenza tecnologica. Molte funzioni di quei prodotti non sono nemmeno palesi. Usiamo macchine, automobili, orologi, elettrodomestici che contengono molti computer i quali effettuano funzioni definite da software complesso che molti di noi non sarebbero in grado di capire, neanche se potessero leggerne i listati. I produttori definiscono, certo, le prestazioni di hardware e software in modo preciso. Però le specifiche relative vengono discusse solo con clienti che abbiano competenze tecniche adeguate. Non si entra in dettagli nelle descrizioni divulgative dei depliant pubblicitari o negli articoli su periodici più o meno specializzati.
Non è possibile descrivere struttura e funzionamento di macchine, computer e reti in un modo che sia comprensibile e utile a persone di livelli culturali molto diversi. È necessario produrre ad personam testi e illustrazioni: dettagliati e approfonditi per gli esperti; costituiti da regole empiriche per chi deve usarli, ma non possiede nozioni adeguate; vaghi e pieni di similitudini per chi mira solo a una conoscenza superficiale. È congeniale per me scrivere su queste pagine: da 250 numeri la redazione e i collaboratori de L’OROLOGIO creano un vessillo di eccellenza nella comunicazione aggiornata di qualità sui misuratori del tempo di alta classe.
Già molti decenni fa milioni di persone guidavano bene l’auto e capivano le cause dei guasti senza avere idea di strutture meccaniche e di parametri tecnici. L’uso pervasivo dell’elettronica riserva oggi a pochissimi la conoscenza approfondita dei loro veicoli.
Gli oggetti delle comunicazioni sono stati chiamati “memi” da Richard Dawkins. I memi funzionano nelle menti e nei supporti registrati in modo simile a quello dei geni in biologia. Si replicano, si diffondono e si modificano mentre li trasmettiamo. Sono: idee, concetti, teorie, motivi musicali, frasi fatte, mode, modi di fabbricare, teorie, visioni del mondo, convinzioni, credenze, aderenti o no alla realtà. Li assorbiamo dal mondo e dai nostri simili. Li modifichiamo, in meglio o in peggio, e li trasmettiamo di nuovo ad altri. I memi competono fra loro per trovare spazio nelle menti, negli scaffali di librerie, nei palinsesti radio e TV, nelle pubblicità. Sopravvivono i memi più forti, resistenti – adatti. Il concetto di meme è utile. Però i memi sono ben diversi dalle idee di Platone –perfette nel loro mondo. Ne girano versioni diverse: formali e approssimative, professionali e colloquiali, in trattati o espresse da frasi che tentano di definirli. I comunicatori di alto livello usano testi scritti corredati da disegni e foto e trasmettono idee e conoscenza ai livelli che scelgono. Disseminano memi validi e utili. Non sempre con l’impiego simultaneo di più strumenti multimediali conseguiamo una qualità più alta. Fotografie ben concepite e ad alta definizione possono essere più efficaci di un video i cui tempi non siano congeniali all’utente. Anche un testo scritto permette al lettore di assorbirlo in modo asincrono con i suoi tempi, cosa più ardua con un audio (cui aggiunge poco il video associato che mostra l’oratore).
Un meme può essere definito dal nome di un oggetto nuovo (cronometro, pc, drone, smartphone, tablet) o anche dal nome commerciale dell’oggetto prodotto da una data azienda (jeep, iPad, Googleglass). Diamo per scontato che questi nomi siano noti senza doverli definire e nemmeno alludere alle specifiche degli oggetti.
Nell’edizione del 1738 del Dizionario della Crusca, c’era la definizione di “Asino” – sost. m. – Animal noto. Il fatto che fosse noto non implicava che i lettori conoscessero anatomia e fisiologia dell’animale. Lo conoscevano perché ne avevano visti tanti che tiravano carretti.
Per comprendere le descrizioni fatte da altri dobbiamo conoscere le parole che usano. Dobbiamo studiare fino a formarci immagini mentali dei rapporti fra cose e dei rapporti fra cose e parole. Gli uomini creano macchine e sistemi nuovi. Occorrono parole nuove per occuparsi delle macchine e dei sistemi nuovi creati di continuo. Ma non basta impararne i nomi per capire che cosa siano, come funzionino, in quante varianti esistano. Si diffondono, invece, petizioni di principio: con un solo aggettivo o con una sequenza di poche parole si pretende di definire oggetti e insiemi molto complessi.
L’aggettivo “smart” (intelligente, brillante, efficace) è laudativo – e troppo consumato. Si applica a tanti smartphone diversi, a “smartcity”- città cablate con Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT). Dà un’idea generica. Non è una specifica. Si applica anche ad applicazioni inefficaci, mal concepite.
L’enorme ricchezza di misure, numeri, statistiche offerta dalla ICT viene presentata come un’entità benefica universale: “big data”. Attingere a essa dovrebbe risolvere ogni problema. Non è così. Il controllo di qualità sui dati è disuniforme, talora assente. Quella ricchezza si sfrutta bene solo se si divisano adeguate procedure di valutazione e analisi. Accediamo a essa tramite Internet: miliardi di miliardi di parole che rispecchiano il mondo – e occorre saperne valutare la qualità.
Oggi è possibile etichettare miliardi di prodotti, macchine, monumenti e accedere direttamente alle informazioni relative. Si chiama Internet of Things – Internet delle Cose. Già collega miliardi di oggetti offrendo al pubblico modi più veloci e pratici di ottenere e gestire oggetti e servizi. È stata creata una Global Standard Iniziative per uniformare soluzioni e procedure, ma si incontrano ancora realizzazioni disuniformi e incompatibili. I nomi non sono conseguenza delle cose.
Esistono problemi di affidabilità non solo per i numeri, ma anche per testimonianze di eventi e per asserzioni di ogni provenienza. Vanno studiati i modi per giudicare questioni opinabili. Queste possono apparire discutibili perché si tratta di argomenti specialistici: se non ne siamo esperti, dovremo credere sulla parola a qualche specialista autorevole. Per scegliere esperti a cui credere occorre formarsi efficaci criteri di giudizio, il che è più facile per chi dispone già di una base culturale migliore. Ma, allora, dovremmo divisare piani ambiziosi per studiare la cultura e per migliorarla nel mondo. Comunicare innovazioni, descrizioni di oggetti ad alta tecnologia, sviluppi di processi socio-economici e organizzativi è più agevole, se i nostri destinatari e il pubblico in genere ne sanno di più. Lo scopo finale è quello di usare più cervello e meno forza bruta. E’ una buona ricetta. Serve a tutti: in azienda, in casa, a scuola.
Molte cose importanti non si possono misurare affatto. E’ inevitabile analizzarle e parlarne in modo discorsivo. Qualunque sia il settore di cui ci occupiamo – tecnologia, commercio, storia, sociologia o economia, è bene citare numeri affidabili. I dati misurati funzionano come pezze d’appoggio per le tesi e i discorsi presentati. Non sostengo certo che presentare dati numerici e tabelle basti per avere sempre ragione. Ci sono anche autori che riescono a imbrogliare il pubblico proprio con i perversi numeri che citano.
La comunicazione è la linfa di ogni attività umana. Occorre, però, anche riformare la società in modo che si comunichi di più e meglio. Sarà una società in cui i concetti costruttivi non si perdono in sabbie aride, ma proliferano e si arricchiscono. Sarà una società che riprende la tradizione dell’Agora ateniese – la piazza in cui discutevano filosofi e geometri, fisici e politici: in cui si crearono le radici della nostra civiltà. Possiamo fare di meglio. La tecnologia offre oggi belle occasioni di costruire piazze più efficace, intelligenti, formative, aperte.