Sollecitare a scrivere, per far uscir fuori dalla fretta dell’azione quotidiana e tornare ad un ritmo lento.
– di Alberto Scarponi
Presidente Giuria Premio Energheia 1995_II edizione_
Essere giudice non è mai facile. Rischi la mania di onnipotenza oppure l’onnipotenza della mania. Tanto più quando si tratta solo di leggere alcuni racconti.
Nel primo caso, finisci a condurti (magari senza accorgertene) da padre eterno onnisciente: e sai tutto delle pagine che leggi, dl loro ritmo e umore, dei pensieri segreti, non detti, delle emozioni che hanno scelto quella parola e non l’altra, dei ricordi che impregnano certi aggettivi così ripetuti, dei tabù occhieggianti dagli eufemismi e dalle negazioni a loro volta negate con eccessiva foga verbale. Allora divieni padre eterno generosissimo. E va bene tutto, anche il nulla, e tutto perdoni all’autore, un po’ come quel tal medico pietoso che, a volte, produce più disastri del sonno della ragione.
Nel secondo caso ti fai piccolo e maligno quando prima eri magno e benevolente. Spietato, ti danno ombra iota e ette. Non t’intendi di fatica del concetto. Tu non accetti che l’esatto. Non tolleri tormenti, slittamenti, sbavature o tocchi inetti. I luoghi comuni ti sono tempi morti. I buoni sentimenti tappetino il mondo di trucchi e tresche. Tutto è male quel che finisce bene. E nulla passa da questo tuo cervello. Così, dove passi tu è sale e sabbia. Tu leggi, ma non vedi nulla, nulla di nuovo sotto il sole. Neppure un seme.
Eppure questi rischi vanno corsi, quando il gioco vale la candela. E il gioco vale la candela se sai che, oltre la pagina c’è (e c’è sempre) un mondo di poesia che tenta di dirsi: un mondo sui generis che tenta di dirsi a suo modo.
Ho detto poesia e, a scanso di equivoci, sarà bene chiarire. A scuola c’insegnano che lapalissianamente sono poeti i poeti, quelli iscritti nel registro apposito, e, altrettanto, sono scrittori gli scrittori. Dunque nessun altro. Eppure ogni adolescente (su questo come su molto di quel che vede intorno, ma questo è l’essenziale) ha un piglio da Dio: depenna facile chi rompe, deprezza la chiacchiera, accantona chi non dice, recupera la parola (la parolaccia) negata, rivaluta e ammira suoi tipi mitici e/o magici (che spesso vengono da fuori, da fuori programma scolastico, e insomma da un’esperienza che lì, a scuola, non c’è). Poi aggiunge (talora nemmeno tanto in coda) il proprio nome all’elenco, ufficialmente fornito, dei possibili nuovi poeti. Chi non lo fa, è perché ha paura dei maestri, paura ammantata di reverenza, di rispetto, di sospetto e di distanza; talvolta, anzi più spesso, di conformismo. Tutti gli adolescenti, allora, e tutti, coloro che mantengono l’animo dell’adolescente (moltissimi) sono poeti. Essi tra sé danno nomi inattesi alle cose, le ricolorano di sentimenti nati ora con loro, ci inzeppano ansie che solo adesso, di questi tempi, torturano le persone e solo questa odierna psiche, ci vedono bellezze impensate prima, dagli altri, e formulano critiche che questi ultimi credono assurde, stupide pericolose. Questi poeti raccontano tra sé e racconterebbero se potessero a tutti, in pubblico, le cose del mondo in un modo diverso da come sono state finora raccontate. Questa è la loro poesia.
Ora, tra poesia e scrittura io credo ci sia la stessa differenza che tra ideare e fare, insomma tra talento e mestiere. Così il giudizio sulle faccende di questo genere risulta un po’ strabico: uno guarda alle lacune e ai difetti di tecnica, di mestiere, con l’occhio però al discorso, al modo in cui vengono dette le cose e (il che poi è lo stesso) alle cose che vengono dette. Oppure viceversa: vede discorsi insulsi, cioè fatti senza modo (senza talento), in una scrittura che non ha difetti. Non è facile venirne fuori con l’eleganza regale della sentenza perfetta, quella salomonica che funziona sempre, da qualsiasi parte la prendi.
Non è facile quando poi l’imperizia è esplicita, è messa nel conto, perché chi scrive è un principiante o un amatore o semplicemente una persona che tenta, per bisogno intimo, la strada del dire. Proprio in tal caso ci vuole più saggezza e spirito delicato. Ecco dunque il senso di questo mio tergiversare, prima di addentrarmi nelle faccende di cui qui si tratta. Saggio e delicato verso i partecipanti al Premio mi è sembrato mettere a nudo, in breve e in qualche maniera le traversie mentali di chi, qui e ora, assume il ruolo del giudicante (casualmente, giacché in altri contesti i ruoli possono essere invertiti. Ma già in questa medesima circostanza: il giudicante non viene a sua volta giudicato, per il modo in cui giudica, dal giudicato stesso e dagli altri presenti?).
Allora giudichiamo. La giuria, composta da: Alberto Scarponi, Aldo Garzia, Antonella Manupelli, Luigia Mezzatesta, Michele Salomone, ha valutato i racconti selezionati dal comitato di lettura.
E’ importante che i racconti fossero molti (da qui nasce il pluralismo) e ciascuno con il suo fardello di affetti, con la sua ricchezza di domande e tentativi di risposte, a scrivere. In settantatre hanno partecipato al Premio e, fra questi, cinquantuno lo facevano per la prima volta. Non male per gli organizzatori, che volevano sollecitare appunto a scrivere, e uscir fuori dalla fretta dell’azione quotidiana per tornare dentro il ritmo lento della riflessione necessari per trasbordare dall’idea al nero su bianco, volevano indurre a ritrovare il gusto del racconto in un tempo nel quale ci si chiede solo di informare in succinto, di dare notizia.
Questa volta il successo c’è stato. Tanto che già si vuole guardare oltre, dilatare i confini dell’esperienza. Perché no? Tentar non nuoce. Ed è sempre una bella cosa, è da giovani avere speranza. Vedremo. Per ora questo è quanto il Premio ha dato.
Nella foto_La cerimonia di consegna del Premio Energheia 1995