Cos’è la vita, Camilla Caiazzo_Piossasco(TO)
Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione giovani
Cos’è la vita se non un’inesorabilmente vana ricerca di se stessi?
Come posso davvero sapere chi sono? Adesso, solo un’adolescente, come potrei anche solo lontanamente realizzare a pieno chi io sia? Se ciò che vedo guardandomi allo specchio, se quella persona che credo di essere quando sono felice, se ciò che gli altri credono io sia, se ciò che io o gli atri non pensano che io sia. Potrei essere tutto questo come niente, non posso saperlo. Mi chiedo per quale motivo gli altri sprechino il loro tempo a cercare di definire chi sta loro intorno, quando probabilmente non c’è nemmeno abbastanza tempo per arrivare a comprendere a pieno se stessi. Penso che la necessità di giudicare in qualche modo l’altro nasca proprio dal senso di arrendevolezza che si prova di fronte alla consapevolezza di non poter capire fino in fondo il proprio essere. Eppure, giorno dopo giorno, maturano nuovi pensieri, dettati dall’esperienza, che assumono la parvenza di certezze. Magari ad un certo punto si potrebbe credere di aver finalmente capito la propria persona, ma basta una minima nuova esperienza per minare quella sicurezza che si pensava di aver acquisito. Fino a qualche mese fa non mi ero mai interrogata su chi fossi, io nella mia individualità. Io ero la figlia dei miei genitori, la sorella dei miei fratelli, l’amica dei miei amici, la ragazza del mio fidanzato, un’allieva qualsiasi dei miei professori. Io ero solo il mio rapporto con qualcun altro e forse questo era sufficiente a definirmi. Ma ho imparato a non rassegnarmi al fatto di determinarmi soltanto a seconda del contesto in cui mi ritrovo, della persona a cui sto accanto. Ciò che è davvero difficile è capire quale sia il mio io rispettivamente a se stesso. Anch’esso non può che emergere da una relazione, che in questo caso riguarda il rapporto che io ho con me stessa. Un rapporto che può essere pacifico, calmo. Ma che può essere anche conflittuale, devastante, distruttivo.
Settembre
Siamo a letto, Jacopo dorme, mi tiene stretta a sé e non sembra volermi lasciare. È proprio dolce, lui, si potrebbe addormentare ovunque e in qualunque momento. La scuola è iniziata solo da una settimana e lui è già stanco. Io in silenzio gli faccio qualche carezza sul viso, senza svegliarlo. Guardo il soffitto e penso. Non so se parlargliene, magari l’ho fatto solo per attirare la sua attenzione, tanto non penso che succederà più, non vale la pena farlo preoccupare, non ha senso, non voglio fare la vittima. Poi lo guardo, lui è così bello, il suo viso è tanto dolce. Ho paura di renderlo triste se glielo dicessi. Qualche settimana prima ero da sola a casa, stavo guardando la tv ed era ora di pranzo. Mi sono cucinata qualcosa, niente di che. Ma alla fine mi sono ritrovata a mangiare tanto, veloce, tutto insieme senza nemmeno respirare. Dopo, quando il cibo era finito, ho pensato di aver mangiato troppo, di aver esagerato, di aver sbagliato, mi sentivo gonfia, esageratamente grossa. Allora tranquilla sono andata in bagno e così, quasi per gioco in realtà, per vedere cosa sarebbe successo, due dita sono finite in bocca, per poi ritrarsi quando ha cominciato ad uscire il vomito. Ho tirato lo scarico, mi sono soffiata il naso e sono tornata a guardare la tv. Che diritto ho io di rovinare la sua felicità, proprio non voglio; ma vorrei parlarne con lui, mi fido di lui. Non mi giudicherebbe. Mi prende in giro perché ho le orecchie piccole e i piedi piatti, ma penso che di questo io gli possa parlare. Lo guardo di nuovo. Sento il bisogno di proteggere quel piccolo grande sedicenne che si era addormentato fra le mie braccia. Comincia a strizzare i suoi grandi occhi e a stiracchiarsi un poco. Si sta svegliando, è tanto dolce. Jacopo, amore, ciao, gli dico con dolcezza, gli do un bacio. Lui non dice niente e si stringe più forte a me e chiude di nuovo gli occhi, ma ormai è sveglio. Jacopo devo dirti una cosa. Allora lui si solleva un poco e mi guarda. Io esito, ho paura di ferirlo, di dirgli qualcosa che ovviamente non vorrebbe sentirsi dire. Non sono sicura di volerglielo dire, non so perché dovrei o non dovrei farlo. Forse alla fine non è una cosa così brutta come credo, dopotutto è successo solo una volta, non vuol dire niente. Le parole mi si bloccano in gola, sono sul punto di parlare ma non riesco a dire niente, se non dei “non lo so” senza un senso. Ormai però gli ho detto che volevo parlare, adesso non posso risolvere il tutto con un banalissimo “niente” e non voglio tantomeno dirgli una cavolata qualsiasi. Jacopo ho vomitato, ma non è niente stai tranquillo, te ne volevo solo parlare, non sei tenuto a dire niente se non vuoi.
Novembre
Dove sei col bus, mi scrive Jacopo. Quasi a Cumiana, gli rispondo. Oggi ci sarà un’eclissi parziale di Sole. Jacopo mi ha mandato la foto di un paio di occhiali da sole rosa che non credo gli stiano. Adesso penso che stia aspettando alla fermata del pullman. L’anno scorso lo faceva solo di mercoledì, ora invece molto più spesso. Ho i miei soliti jeans un po’ larghi e un bellissimo maglione che non lascerebbe intravedere nemmeno per sbaglio le linee del mio busto. Sono quasi arrivata a Pinerolo, comincio a sciogliermi i capelli da quel groviglio che avevo fatto per cercare di renderli più mossi dei soliti spaghetti scotti che mi ritrovo. Sto con Jacopo da un sacco di tempo e posso affermare che mi abbia visto nei miei stati peggiori, eppure ho ancora il non dichiarato bisogno di apparire bella a lui. Arrivo, scendo dal pullman e guardo subito in direzione della panchina su cui mi aspetta di solito. Non ho gli occhiali quindi non sono sicura, ma probabilmente quel ragazzo solo soletto che legge un libro è proprio lui. Gli vado incontro e lo abbraccio subito. Ma questo era il profumo che avevi la prima volta che siamo usciti insieme, mi dice. Io lo guardo e non dico niente, so solo che sono tanto innamorata di lui. È vero che avevo quel profumo la prima volta che siamo usciti. Non so perché l’ho rimesso oggi, ma comunque erano mesi che non capitava. Quando sono entrata in classe ho pianto qualche lacrima, facilmente camuffabile. Ero felice, sapendo di aver trovato qualcuno che davvero tenesse a me.
Gennaio
Corro in bagno, mi chiudo meccanicamente la porta alle spalle. Sono un automa, che sta per fare quello per cui è stato programmato, che non può evitare di eseguire. Mi lego i capelli, non voglio sporcarli. Mi getto sulla tazza, la stringo con forza con la mano sinistra. Due dita della mano destra scavano nella gola, affondano senza pietà finché non ottengono quello per cui sono finite lì. Sono io a farmi del male in questo modo o è qualcos’altro a muovere quelle mani che comunque sono le mie? Mi libero così del pranzo che avevo fatto. Quel pranzo che prima era solo pasta, ora invece è la spietata agonia che mi sta soffocando. La dolce crudele pena che mi infliggo, credendo di meritarlo, con la convinzione che sia quella la cosa giusta da fare, l’unico modo per riuscire a colmare quella triste imperfezione che vedo in me. Sono un oggetto nelle mani di me stessa. Posso schiacciarlo, tagliarlo, colorarlo e cambiarlo, colpirlo oppure lasciarlo stare e rendermi conto che devo avere rispetto di lui. Ok, è uscito tutto quello che poteva uscire. Guardo il ripugnante prodotto di quel mio selvaggio autolesionismo. In questo momento non provo niente, non sono altro che un agghiacciante vuoto. Mi guardo allo specchio. Il mio viso è rosso, i capillari rotti sono più pronunciati. Mi metto di profilo e sollevo la maglia. Guardo il riflesso di una persona che mi disgusta e che con una certa vergogna riconosco essere me stessa. Cerco di schiacciare in dentro la pancia, trattenendo il respiro, ma una fitta all’addome mi piega. Ho male, ma mi convinco che ne sia valsa la pena, mi dico che solo in questo modo potrò piacermi di più; sapendo, forse solo in un’interiorità repressa, che in questo modo non mi sto elevando ad una qualche forma di felicità, ma al contrario sto sprofondando in quel buio baratro che mi sono scavata da sola. Preferisco l’immagine di una me, stretta ferocemente alla tazza, a vomitare quanto più io possa, piuttosto che quella di una me mentre mangia un piatto di pasta.
Febbraio
Oggi è mercoledì, è il giorno che mi piace di meno. Le lezioni non sono granché interessanti. Alla prima ora c’è latino, che di per sé mi piace molto, ma il mercoledì si correggono le versioni. Pretendo di non aver fatto errori, e anche se la prof dice una traduzione diversa dalla mia, mi convinco che quella che ho scritto io sul mio quadernino rosso sia una valida alternativa, ma non mi spreco nemmeno ad accertarmene. Così la prima ora finisce, seguono tante altre lezioni, che mi autorizzo a non ascoltare. Che giorno triste sarebbe il mercoledì, se non ci fosse Perla, la mia vicina di banco. Abbiamo fatto amicizia soltanto l’anno scorso e adesso siamo inseparabili. Quando ci annoiamo, una delle due dal nulla tira i capelli all’altra e cominciamo scherzare. Io le parlo di Jacopo e lei mi prende sempre in giro, dice che sono troppo sdolcinata, ma alla fine mi ascolta. Mi lamento di quanto devo studiare, dimenticandomi che alla fine anche lei deve studiare le stesse cose. Qualche volta Perla arriva a scuola con una certa aria distrutta, con gli occhi stanchi. Le chiedo come sta e ne parliamo, ma comunque le mie ipotesi già ce le ho. Perla fa pallavolo, si allena tutti i giorni e fa le partite ogni settimana, e non solo nel weekend; quindi arriva a casa tardi e deve studiare. Le importa della scuola e si impegna tanto. Capita che studi fino a mezzanotte per poi svegliarsi alle cinque del mattino, con non so quale forza di volontà. Io mi preoccupo molto per lei, penso che stia accumulando fin troppo stress. Perla è senz’altro tenace e determinata, è capace di realizzare al meglio tutto ciò che fa e, davvero, fa tante cose. Parliamo tanto, ci confidiamo per qualsiasi cosa, ci fidiamo molto l’una dell’altra. Capita anche però di litigare. Quando qualcosa non va, Perla smette di parlarmi e da brava eremita, si ritira in se stessa. Quando dormo poco e sono stanca poi, qualsiasi cosa mi fa innervosire e quelle volte in cui Perla non riesce più a sopportarmi in silenzio, allora si offende e discutiamo. Ma non mi è mai successo di essere tornata a casa arrabbiata con Perla; dopo furiose litigate, smettiamo di parlarci per qualche minuto, poi una spicca un balzo felino e stringe l’altra in un abbraccio. Fisica è particolarmente devastante. Perla è molto attenta, io per niente. Mi guardo attorno. Fuori dalla finestra non c’è altro che un cielo un po’ grigio, qualche nuvola, i vecchi edifici intorno alla scuola sono assaliti da zampettanti piccioni. Nicoletta preme la guancia sinistra sul palmo della mano e controlla a intermittenza l’ora sul cellulare. Francesca vicino a lei è coricata sul banco, ma ha lo sguardo rivolto verso la lavagna. Vittorio disegna nervosamente sul suo diario. Tutti sono davvero concentrati in ciò che stanno facendo, che sia ascoltare la lezione o meno. Poi però c’è Fiammetta, ha lo sguardo fisso alla finestra, chissà a cosa starà pensando. Mi piace moltissimo il suo nome, ma lei preferisce farsi chiamare Fanny; quando qualcuno la chiama col suo nome intero, quei suoi occhi dolci fulminano senza lasciare superstiti. Qualche volta Fiammetta mi chiede se secondo me parla troppo, se è noiosa o fastidiosa; io ovviamente le rispondo di no, penso che sia una delle persone migliori che io conosca. Una parola per descriverla è poetica, sicuramente. Ogni lunedì ascolta solo Calcutta mentre è sul pullman; dice che solo lui sa esprimere la tristezza come la intende lei, che ha davvero la consapevolezza di questo sentimento e così è in grado di trasformarlo in arte. Non ascolta i Pinguini tattici nucleari, perché sono troppo felici. Parole sue. Fiammetta è una gran parlatrice, questo è vero; ma niente di ciò che esce dalla sua bocca non è articolato nel migliore dei modi, usa paroloni difficili, che non sempre capisco. È anche vero che qualche non volta non sa nemmeno lei quello che dice. Per mesi mi ha detto con una certa fierezza di avere queste meravigliose caviglie leggiarde; poi più tardi abbiamo scoperto che questa parola nemmeno esiste. Lei è una sognatrice, si perde nei suoi pensieri con una facilità incredibile. Le piacciono molto i dolci e spesso porta a scuola torte, biscotti magari. Ama leggere; legge anche cinque libri contemporaneamente e poi li finisce sempre tutti. Non sempre passiamo l’intervallo insieme e non usciamo spesso, però tra di noi c’è una sorta di tacito accordo per cui sappiamo che ci saremo sempre l’una per l’altra. L’anno scorso Fiammetta ha perso tutti i suoi nonni, è stato un periodo difficile, ma il peggio ormai spero che sia passato. Soltanto d’estate però mi aveva cominciato a parlare di quello che stava succedendo e di quello che era accaduto. Si era sempre tenuta tutto per sé, accumulando troppo dolore. La forza che ha avuto nel vincere tutta quella sofferenza che la teneva a terra è sovrumana.
Fanny posso parlarti? Certo, mi dice lei. Andiamo più in là però. Lei mi segue nel corridoio. Fanny volevo dirti una cosa. È una sorta di dichiarazione, non so nemmeno perché te lo sto dicendo. Non è niente di che, ne ho parlato solo con Jacopo. Guarda io ogni tanto vomito. E niente ho pensato che magari parlarne con te avrebbe potuto farmi stare meglio in qualche modo. Lo sapevo, mi dice lei. Io non capisco. Poi lei continua; avevo intuito che da quel punto di vista ci fosse qualcosa sotto. Mi abbraccia. A cosa pensi che sia dovuto? Non lo so. Mi guarda senza dire niente. Il suo sguardo mi parla di comprensione e compassione allo stesso tempo. Non sei da sola, ne usciamo insieme, stai tranquilla; mi dice con serenità. Fiammetta non è affatto turbata, quindi davvero già sapeva, almeno qualcosa. Ritorniamo in classe.
Aprile
Sto leggendo un libro nel cambio d’ora, Perla non parla, o meglio non sto pensando a lei, sono sola nella mia bolla silenziosa. Poi mi sento picchiettare sul braccio, è lei. Non ha cominciato a martellare insistentemente sul mio braccio, come al solito, per darmi fastidio. Io la guardo senza dire niente, lei anche rimane in silenzio per un attimo e fissa il suo sguardo su di me, senza sorridere. Stavo pensando a una cosa. Dimmi. Noi siamo amiche, ci vogliamo bene. E poi smette improvvisamente di parlare. Non capisco dove voglia arrivare. Dopo le superiori, ma noi… esita un po’, quasi avendo paura del seguito. Rimarremo ancora amiche? Il mio cuore fa un balzo, e io lo assecondo, saltandole in braccio con il sorriso più grande del mondo. Cominciamo a ridere, come facciamo sempre. Perla, certo. Saremo amiche per sempre. Le dico io, sincera. Non proprio per sempre, cominciamo dalla fine delle superiori. Mi risponde lei con il suo solito sorrisetto dispettoso e gli occhietti vispi che brillano. Poi ritorniamo alle nostre occupazioni, lei a candy crush, io al mio libro. Adesso non posso smettere di sorridere però. Sono felice di aver trovato un’amica vera, che potrà essermi vicina sempre. È qualcosa di davvero raro, lei mi dà la sicurezza di avere qualcuno su cui potrò contare sempre. La vita umana è un insolvibile dubbio, ma Perla riesce a rendermi forse diversa, riesce a sottrarmi in parte da questa incertezza, regalandomi la sua amicizia.
Maggio
Sono stanca. Avevo ansia e non sono riuscita a dormire. Domani ho l’ultima interrogazione dell’anno di italiano. Non ho avuto tanto tempo per studiare per via di tutte le altre verifiche, ieri era domenica e ho studiato ininterrottamente per tutto il giorno, per più di dodici ore. Ma a fine giornata non ero ancora soddisfatta, ma ero stanca, non riuscivo più a ragionare. Provavo ancora a studiare, ma non ce la facevo, avevo bisogno di una pausa che non mi davo, stavo chiedendo al mio corpo, alla mia mente, più di quanto potesse dare. Poi ho deciso di andare a dormire, per poter dare il massimo il giorno successivo. A letto però, dopo il mio rituale di meditazione, camomilla e melatonina, non riuscivo a prendere sonno. I pensieri mi spingevano da una parte all’altra del letto senza sosta. Pensieri senza un senso vero e proprio, pensieri senza fondo, inutili, capaci solo a tenermi sveglia e a far fermentare la mia ansia. Il fatto stesso di non riuscire a dormire la accresce. Come farò domani? Sarò troppo stanca, non so se ce la farò. L’interrogazione non andrà bene. Cosa penseranno di me? Ho sempre preso dieci di italiano. Devo dormire. Mi sto distruggendo da sola. Sono un fallimento, non sono in grado di finire di studiare. È giusto che io non dorma.
Ho dormito qualche ora alla fine. Ora è il momento del caffè, tanto caffè.
Sono a scuola, distrutta. La professoressa di storia comincia a riconsegnare le verifiche. La mia verifica non è andata bene come mi aspettavo, e forse l’espressione che sto facendo lo grida chiaro e tondo. La professoressa allora mi chiede se io fossi soddisfatta della mia verifica. Io chiaramente non lo ero, ma le ho risposto di sì, cercando di essere il più convincente possibile. Però insieme alla delusione per quella verifica, si aggiungeva la demotivazione che ho oggi di studiare letteratura. Un sentimento non usuale, per me che amo questa materia, ma dettato dalle condizioni in cui mi sono ritrovata a studiare. Quindi ho scelto di parlare di questo con la mia professoressa, invece che lamentarmi di un voto. È che sono stanca prof. Ieri ho studiato per tutto il giorno, letteratura, che comunque mi appassiona. Però ho dovuto studiare un’infinità di pagine in una sola giornata. Mi sentivo costretta a studiare, il tutto per rispondere ad un’aspettativa. Io ormai so che di italiano sono dieci, e se devo essere così, allora prendere un voto più basso di questo per me significa essere sbagliata. So che questo non è giusto, io merito di sentirmi ben più di un numero. Auspico sinceramente ad una scuola che insegni agli studenti che la letteratura, e così per ogni altra materia, sia meravigliosa e che sia un piacere studiarla, perché è una parte bellissima della nostra cultura. È un insulto nei confronti della letteratura stessa rendere il suo studio un obbligo a cui ci si costringe per ottenere un voto alto, con la fugace e terribilmente futile appagazione che ne deriva. La letteratura deve essere amore, non ansia. Voglio potermi godere a fondo la bellezza di una poesia di Petrarca, non piangerci sopra. Noi siamo omologati a voti, perciò alcuni sono migliori di altri. Ma chi è il migliore? Chi è il dieci? Chi è anche solo chi disperatamente prova ad avvicinarsi ad esserlo? È chi non dorme, chi soffre d’ansia, chi non mangia per avere più tempo per studiare, chi non vede i propri amici per chiudersi nella propria stanza per stare sui libri. La scuola non obbliga nessuno a studiare, ma dichiara che chi lo fa, dedicando la propria vita unicamente a quello, è migliore, mentre chi sceglie di vivere serenamente, sapendo equilibrare lo studio con altre attività, allora è un fallimento, non si impegna, è bravo ma non si applica. Scegliere tra essere e ciò che mi viene imposto di essere, è questo il mio dilemma. Sono costretta ad accettare l’imposizione perché mi è stato insegnato che il mio essere è sbagliato, da sopprimere. Devo nascondermi, perché nessuno vuole vedermi per quello che sono. E se anche avessi il coraggio di rompere l’aspettativa, allora perderei tutto, tutta la considerazione, rimarrebbe poco intorno a me. Forse non ne vale nemmeno la pena. È questa rassegnazione che ci lacera. Siamo complici del nostro aguzzino. Perché devo scegliere tra lo stare bene e l’essere considerata tra i tristi e malati “dieci e lode”? Ma io non voglio essere così, voglio vivere la mia vita e mi piacerebbe che la scuola fosse una parte non sofferta di essa, una parte che non mi faccia trascurare tutte le altre. La professoressa mi guarda in silenzio per un attimo. Sembra capire quello che dico. Mi dispiace, ha il tempo di dire, prima che tutti i miei compagni comincino a gridare il loro malessere, esprimendone le mille sfumature che alla fine tutti noi conosciamo.
Maggio
È un monotono sabato pomeriggio. Tutto sembra placidamente coperto da una noiosa patina gialla, disturbante ma incancellabile. Io, Fra e Vitto andiamo a prendere il pullman, c’è poca gente in fermata. Saliamo sul bus, io mi siedo da sola. Meccanicamente mi infilo le cuffiette, apro Spotify e schiaccio sulla bella immagine dell’ultimo album di Lana Del Rey. Il pullman parte, guardo fuori dal finestrino, ripercorrendo quel paesaggio che ormai è lo stesso da quasi tre anni. Penso, non so per quale motivo, a me stessa, alla concezione che io ho di me. Come mi sento? Non lo so, ma bella non di sicuro. Non importa quanto Jacopo provi a farmi sentire in questo modo, dicendomelo, scrivendomelo in dolci lettere. Io continuo a sentirmi poco a mio agio con il mio corpo, con il mio viso soprattutto. La mia pelle è sempre stata il problema più grande, ho sempre avuto questi fastidiosi brufoli. Forse ho smesso di sentirmi bella alle elementari quando una bambina di nove anni mi ha detto che avevo un brufolo. Allora ho scritto una lettera alla maestra, che ho accartocciato e le ho consegnato di nascosto. Volevo capire se davvero ci fosse qualcosa che non andava. Poi alle medie ho cominciato a truccarmi con un correttore troppo chiaro, che nemmeno spalmavo. Il risultato era una maschera che facilmente si mostrava come tale, che non copriva niente, non sanava l’insicurezza, anzi me la ricordava. È un qualcosa che ancora rimane, la cicatrice dell’odio per me stessa. Continuo a truccarmi, perché mi fa stare meglio: tanto più riesco a nascondere il mio viso, tanto più sono felice. Adesso mi guardo allo specchio e i brufoli ci sono ancora, ma quasi non ci faccio più caso, mi sono rassegnata alla mia bruttezza. Credevo che per colpa loro, e quindi per colpa mia, non sarei mai stata amata. Se non sono in grado di amarmi, come potrebbe mai accadere che qualcun’altro ami me? Eppure è successo comunque, e mi chiedo come. Nel corso degli anni si è costruita in me l’immagine di colei che può essere amata e io non sono così. Forse per quello vomitavo. Invece una volta, alle medie, mi si era leggermente sollevata la maglia, in corrispondenza dei fianchi, e si vedevano le smagliature, scure, che gridavano crudeli la loro presenza. Una ragazza, con un tono di disgusto, mi ha chiesto se mi fossi fatta male, se avessi dei morsi, dei graffi. Continuavano a ricordarmi quanto fossi sbagliata e come io lo fossi in ogni aspetto di me. Da allora ho perso quasi dieci chili, le smagliature ci sono, ma sono chiare, la pancia è piatta. Ma a che prezzo? Il disprezzo nei confronti di me stessa, lo schifo. Cosa che ritorna, sempre, è una presenza costante. Se prendo solo un chilo, sento il bisogno di perderne cinque, cosa che non farò e mi farà stare male. È una malattia insidiosa.
Perla mi vede scrivere questo, mi guarda con i suoi grandi occhi da cerbiatta e mi dice:
“Ma tu sei bella, te ne rendi conto?”