Costole_Simonetta Sciandivasci, Matera
_Racconto vincitore quindicesima edizione Premio Energheia 2009.
Ho voglia di latte.
“Vuoi qualcosa in particolare, Chicca?”
“No. Mamma, non preoccuparti.”
“Tuo padre ha ordinato le mozzarelle al Pino”.
“Ora che ci penso, forse l’orzo?”
“C’è ancora quello che avevi comprato ad Agosto”.
“Sei sicura?”
“Sì, è lì. Tra l’olio di zio Franco e quello della collega di papà, quella gentile un po’ bassina. Capito chi è… Poverina”.
“Perché?”
“Eh, non lo sai? Quella è cresciuta da sola perché ha perso la mamma da piccola e si è dovuta prendere cura della sorella paraplegica”.
“E il padre?”
“Eh, il padre”.
“Non poteva aiutarla lui?”
“Chi? Il padre?”
Lo zucchero ed il bollitore sono al solito posto. I cucchiaini sono tutti sporchi. Ne lavo uno prendendolo dalla lavastoviglie.
La maniglia è unta, la impugno con fatica.
Tiro.
Lo sportello si spalanca come una bestemmia e sfiata, appestando la stanza.
Quando ci sarà un giudizio universale, se ci sarà da fare una fila tra assassini e notai, se assassini e notai se la faranno sotto, l’aria avrà questo odore. Di morti tenuti in vita da un debito.
Lo sento anche mentre sistemo il bollitore sul fornello. Fatica a svanire, come un oroscopo.
Il latte.
In frigo non c’è.
Avevo dimenticato che mia madre non lo digerisce da quando l’hanno operata alla cistifellea.
Proibito il latte, proibiti i latticini. Concesso il parmigiano perché fissa il calcio.
“Papà, e tu?”
“Mi scoccia”.
“Come ti scoccia?”
“Bere il latte da solo”.
“Ma se ne hai voglia, scusa?”
“Mamma, non c’è latte…”
“Mimmo! Non l’hai preso?”
Mio padre fa per abbassare il volume ma pigia il tasto sbagliato e lo schermo si oscura.
“Non ho preso che?”
“Il latte per tua figlia”.
Mi avvicino a lui prima che possa inforcare gli occhiali. Gli riaccendo la tv.
Mi sorride. Sembra orgoglioso di avere una figlia tanto brava con i telecomandi.
Gli rispondo stringendomi nelle spalle.
“Allora… esco a prenderlo”, aggiungo.
“Ma ne hai così bisogno? Non vedi come è tardi?”, mia madre urla un po’.
“Bisogno… no. Me la faccio passare, la voglia”.
“Allora aspetta e domani andiamo a fare la spesa io e te e lo compriamo”.
“Faccio un salto da Angelo: sarà aperto senz’altro. E domani andiamo a comprare l’altro – dico infilandomi la giacca – così prendo anche le calze per la festa”.
Lei mi scolla gli occhi di dosso e si concentra su mio padre.
Sì, mamma, il padre, il padre! Perché non le ha dato una mano lui?
Tu ce lo vedresti tuo padre a fare qualcosa al posto mio?
In tv, una donna si dà dell’assassina. Poi, toglie lo sguardo dalla telecamera ed aggiunge che lo siamo tutti. Tutti assassini.
“Prendi la mia macchina”, mi ordina, mentre fissa ancora mio padre.
Ma lui sembra rapito dalla tizia nel talk show. E presto la manda al diavolo, borbottando lettere che non fanno parole. Papà è un avvocato. Non accetta la retorica, i simboli, il collettivismo. Crede che i colpevoli siano coloro che contravvengono al proprio ruolo.
Suo padre, mio nonno, faceva il macellaio. Morì quando avevo dieci anni, d’estate. La maestra mi aveva assegnato un diario da scrivere durante le vacanze ed io raccontai che il nonno si era ammalato perché aveva chiuso la macelleria e poi era morto: lo avevo sentito dire da papà. Glielo sento dire anche ultimamente. Gliel’ho sentito dire molto spesso.
“Sì, ce lo vedrei, mamma”.
“E allora perché non lo fa? Perché non mi aiuta mai?”
“Perché sei tu che non glielo permetti”.
Le chiedo dove siano le chiavi.
Mi risponde che sono dove dovrebbero essere: insieme alle altre, nel cestino delle chiavi, sulla consolle in corridoio, perché quello è il posto delle chiavi; se non si vuole finire col perderle basta riporle lì, perché altrimenti è una bella bega: c’è da cambiare la serratura, è una bella bega e sono bei soldi; eppure è tanto semplice: il cestino sulla consolle è il posto delle chiavi, come il letto è il posto per dormire e la vasca quello per lavarsi.
Risponde così. Di solito. Mia madre.
Quella donna in televisione cede la parola ad una giornalista che si dice in obbligo di dipanare la razionalità dalle emozioni.
Ha detto proprio dipanare.
Mamma riprende fiato. Papà guarda il soffitto. Io faccio trillare le chiavi che ho finalmente trovato e dico quello che penso: “Che bel portachiavi”.
In coro mi rispondono che lo ha portato zia Nicoletta dalla Spagna.
“Allora… vado. Torno subito”, dico con un sorriso che non rimane ignorato.
Mamma brontola che con noi due non sa proprio come fare e papà ridacchia; so che stanno flirtando, nel loro modo irritante e goffo. Li ammiro, m’inteneriscono: hanno dismesso le rivendicazioni. Sembrano scolari di prima elementare che impilano quaderni di M-con-le-tre-stanghette, convinti che non ci siano altri modi per scriverle.
Esco.
Fuori la notte è orgogliosa. Il cielo stellato, che solitamente mi fa rimpiangere di aver lasciato questo posto, è spento.
Tetro, irrilevante.
La macchina è al solito posto, davanti al passo carrabile della signora Maglione. Da quando è morta non usiamo più il garage.
Non c’è traffico. Meno del solito, almeno. Imbocco la salita e calcolo i secondi che impiego a farla tutta. Otto. Ho guadagnato tre secondi sugli undici che impiegavo da bambina, correndo verso la scuola. Tre. In vent’anni e nemmeno a piedi.
Trovo parcheggio facilmente. Davanti all’alimentari c’è una piccola folla, ma non mi pare di riconoscere nessuno. Do un’ultima occhiata alla macchina e mi accorgo che per un quarto è posteggiata su strisce pedonali che ricordavo essere più avanti. Via Passarelli s’è ritratta come i miei golfini di ciniglia. Quelli trasparenti che facevano impazzire mia madre perché mi costringevano ad indossare un reggiseno ed io non avevo niente con cui riempirlo.
Ma sì, che importa, la lascio qui. E’ tardi. E resterò solo cinque minuti. Sempre che Angelo non mi riconosca e non attacchi bottone, sempre che non incontri qualche vecchia conoscenza, sempre che in cassa ci sia il resto in monete superiori ai cinque centesimi.
Già: meglio spostarla.
Rimonto sul sedile e avanzo di un paio di metri. Spero ugualmente che nessuno mi riconosca, soprattutto Angelo.
Ed è così che va.
“Cosa paghi, solo quello?”
“Anche delle gomme”.
“Quali?”
“Le vivident xylit”.
“E quali sono?”
“Oh, Angelo, ma non mi riconosci?”
Solo ora stacca gli occhi dalla cassa.
“Ueiii, principessa! Finalmente ti si rivede! E che fine avevi fatto? Eh… lo so io che fine avevi fatto, eheheh …”
Sorrido, pago e me ne vado senza cicche. Con un cartone da mezzo litro di latte che scade domani, cioè tra poche ore.
Forse Angelo ha davvero intuito qualcosa. Forse già si vede qualcosa.
Mentre faccio manovra per uscire fuori dal parcheggio, nello specchietto retrovisore compare una ragazza. Mi mostra un bel vaffanculo e urla qualcosa che i finestrini non lasciano passare. Tiro giù il mio.
“Guarda che ti avevo vista”, le dico.
“Puttana assassina”, mi risponde.
Resto ammutolita mentre si avvicina uno smilzo, suo amico che mi urla: “Non hai visto che è incinta, brutta troia?”
“Non vedi che sono incinta, puttana assassina?”, lei gli fa eco.
I bambini somali. I bambini kossovari. I bambini israeliani. I bambini palestinesi.
No, non l’avevo notato. Solo ora vedo l’accenno di gravidanza.
E’ brutta, questa ragazza. E’ brutta anche la sua pancia: sembra un ginocchio flesso.
Siamo stati noi ad ucciderli. Tutti, tutti assassini.
Non l’avrei investita, comunque: l’avevo vista. Non avevo visto il suo bambino, ma avevo visto lei.
Certe madri sono soldati: uccidono per non far uccidere.
Ingrano la marcia e vado via. Cerco di mantenere la calma e penso a casa mia, con mamma e papà dentro. E l’acquario senza pesci. Mi manca la quiete delle cose non dette, la fiducia delle spiegazioni non date, il pudore della negazione, l’educazione dell’obbligo, la pace fredda dell’occidente borghese, l’intima incuranza borbonica.
Mentre attendo al semaforo, due isolati più avanti, lo smilzo e la tossica arrivano correndo e prendono a sassate il cofano.
Trattengo la paura come un assassino. Mi cago addosso come un notaio. Attendo il verde, che si accende presto. E’ un colore di massa: fa presto a servirci.
Li semino in pochi minuti ed in altri dieci arrivo a casa.
Ho paura.
Salivo queste scale con l’ansia di deludere mia madre e mio padre molto spesso.
A volte perché sulla pagella c’era un sei, a volte perché puzzavo di fumo e di alcol, a volte perché ero in ritardo, a volte perché tornavo troppo presto da una festa.
Ora ho come il terrore che durante la mia assenza abbiano capito che non mi fregava niente di avere il latte, ma che volevo uscire per stare un po’ lontana da loro.
Sì, mi disturbano facilmente.
Apro la porta e vengo inghiottita da un buio di bosco. Non mi hanno nemmeno aspettata.
Poi accendo il cellulare e mi rendo conto che sono stata fuori quasi due ore.
Domani é sabato, però: avrebbero potuto rimanere in piedi un altro po’.
Avrebbero dovuto preoccuparsi, perché non si sono preoccupati?
Dò un’altra occhiata al cellulare: non ci sono loro sms, né loro chiamate.
Si sente un rumore di passi. Accendo la luce del corridoio.
“Ehi!”, mia madre sussurra, sorride, apre le mani, mi sfiora il viso, mi dice “bellezza”.
Grazie, mamma. Lo penso, ma non lo dico.
Volevo che mi aspettassi, mamma. L’ho pensato tutta la sera e forse lei se l’è sentito. Lo pensavo anche quando la serata si faceva notte ed ero adolescente e i miei amici andavano a fare cose folli ed io non riuscivo a seguirli perché sapevo che lei sarebbe rimasta dietro la finestra della cucina ad aspettarmi col cuore in gola.
“Hai incontrato qualche amico, da Angelo?”, mi chiede.
“Sì”, le rispondo.
“ Ecco perché ci hai messo tanto… e adesso che fai? Guardi un po’ di tv?”
“No, mamma, vengo a letto anch’io”.
“ Posso venire a dormire con te un pochino o vuoi leggere?”
“Ma no, vieni. Sono troppo stanca per leggere”.
Mi strucco e mi svesto in un momento.
Arrivo in camera che lei si è già sistemata.
Mi infilo sotto le lenzuola. La flanella fruscia come una biblioteca gremita di studenti.
Facciamo silenzio. Ci rimbocchiamo le coperte a vicenda e l’aria sbuffa fuori, insieme al profumo dell’ammorbidente che papà compra da vent’anni.
In pochi istanti siamo, praticamente, sottovuoto.
Perché è così che dorme mia madre: immobilizzata.
Ora che ancora è sveglia, però, è solo immobile. So che desidera che le racconti una cosa qualsiasi. Anch’io vorrei che lei mi raccontasse qualcosa, sento anche che le piacerebbe farlo, ma ho la certezza che non lo farà. Le faccio paura: aveva paura di chiedermi di dormire qui ed ora ha paura di chiedermi di parlare un po’.
“Mamma, ce l’hai ancora quella camicia da notte rossa?”,le domando, quasi senza accorgermene.
“Quale?”
“Quella con il lampione e l’autobus e la cabina del telefono”.
“Ah, quella. Sì, ce l’ho, ma è vecchia. Perché?”
“Non la buttare mai”.
Le bacio la fronte e lei mi dice che non lo farà. S’addormenta.
Aveva quella camicia una notte che papà non tornò a casa perché era dovuto andare a Roma per lavoro. Dimenticammo di rifare il letto e ce ne accorgemmo solo quando era ora di dormire. Lei sembrava mortificata ed io le dissi che non importava. Prese i cuscini e me li mise tra le braccia, poi mi ordinò di sbatterli fuori. Avrò avuto sei o sette anni ed ubbidii come si ubbidisce a quell’età: per fiducia. Quando tornai, il letto era pronto. Ci infilammo dentro dopo aver sistemato i cuscini. Lei spense la luce del comodino, mi baciò la fronte e mi disse: “Senti, che fragranza?”. La sentii, eccome. E la sento anche ora, con l’odore di quella volta di tanti anni fa. L’odore che non è cambiato e sa ancora di sapone di Marsiglia e muschio bianco.
Mi addormento pensando a quanto tempo ho, come chiunque.
Come una figlia chiunque. Chiedendomi se si possa essere delle buone madri quando ci si sente ancora perdutamente figlie.
“Ehi!! Ehi!!! Amore, svegliati!”
Apro gli occhi e vedo la lingua di mia madre contenersi appena sotto i canini. Il resto è sfuocato. La prima cosa che avverto sono le mie cosce bagnate.
Mi riprendo un attimo e qualcuno mi afferra le braccia, tirandomi su’.
Mi guardo addosso: c’è sangue dappertutto.
Papà sta chiamando il pronto soccorso, mamma dice cose.
Mi manca il respiro. E’ come se avessi due ciliegie nelle narici ed un lampone nella gola.
Mi tocco tra le gambe. Il sangue mi resta sulle mani. E’ un sangue morto, che non sgocciola. Macchia come l’inchiostro con cui si scrivono le lettere per scusarsi di essere stati dei bastardi farabutti imbecilli.
E svengo.
Mi risveglio in ospedale. Mamma mi tiene le mani e papà mi guarda come mi ha guardato quando gli ho riacceso la televisione: fiero. Capisco solo adesso che s’aspetta da me null’altro che questo: che io viva. Ha sempre voluto solo questo.
“Scusa, papà”.
Lo penso e glielo dico, con un filo di voce.
Lui scuote la testa, portandosi l’indice sulla bocca come faceva quando mi insegnava il silenzio.
Crede che io mi stia scusando per non avergli detto che ero incinta, ma io mi sto scusando per aver capito così tardi che da me voleva così poco. Per aver riempito la mia vita di rimandi e perfezionismo, credendo di dover maturare il tempo per farlo felice e perdendo gli anni migliori. Mi sto scusando per aver avuto poca fiducia nel suo silenzio. Ora so che il silenzio di un avvocato è il più onesto di tutti i silenzi. Il silenzio di un avvocato che s’imbarazza a fare il padre è il più romantico di tutti i silenzi.
Mamma sorride. Mi accarezza la pancia.
Sorridiamo tutti perché pensiamo ad una battuta un po’ truce ed evitiamo di dirla.
Ma lei sa che un po’ è vero. Sa che un po’ le sarebbe pesato diventare nonna così presto. Solo che io so anche quanto sarebbe stata brava e premurosa e colta e rispettosa e misurata.
Una nonna incredibile, immortale.
“Papà, per favore, avvisalo tu”, dico mentre vedo i medici arrivare nella stanza.
Chiacchieriamo. Loro sono mortificati.
Ma dicono sia abbastanza frequente, perdere un bambino alla prima gravidanza.
Ed io so che è vero.
Ciò che non dicono, ma che leggo nelle pieghe bianche delle loro espressioni, è che c’è stata qualche altra complicazione.
Si sono accorti di qualcos’altro.
Sanno che ho capito e vuotano il sacco, con parole che stento a seguire.
“E quindi…”, incalzo.
“E quindi sarà molto complicato che lei riesca a rimanere incinta ancora”.
E poi, non sento più niente. Questa schiera di idraulici mi sta davanti e muove le labbra, ma io non sento altro che le voci fragili della nursery in fondo al corridoio. Le tossi, i pianti, gli schiamazzi.
Poi anche quei rumori spariscono. Il cuore pompa asfalto.
Lo sento scivolarmi nello stomaco. Dallo stomaco scende ancora e serra la mia culla.
Ancora. Ancora. Ancora.“Sarà molto complicato che lei rimanga incinta ancora”.
Io so che significa mai più.
La sera seguente sono a casa.
Bevo una tazza di latte e vado a dormire.
Giulio continua a chiamarmi ed io continuo a non rispondergli.
Mio padre non mi intima di richiamarlo come le altre volte che assiste ai nostri litigi telefonici. Mio padre mi cambia solo le borse d’acqua calda. Mia madre aspetta che le parli e legge un dossier del suo capoufficio, seduta alla mia scrivania.
Giulio non ha diritti. E non ne ho nemmeno io. I genitori cominciano a fare un brutto lavoro appena cominciano ad avanzare diritti, figurarsi cosa può succedere quando a farlo sono due genitori mancati.
Avevo detto a Giulio che sarei scesa qualche giorno a casa per dire ai miei genitori del bambino.
Mi aveva solo chiesto quanto mi sarei fermata.
E continua a chiedermelo ancora, nei suoi sms da compagno.
E’ la sola domanda indolore che può farmi. Ed è anche la sola domanda per la quale non ho una risposta. Ma se mi chiedesse perché si muore, perché si vive, perché si ama, perché si odia, perché si tradisce, perché la bellezza è bella, perché il calore è caldo, perché la viltà è ovvia, perché la vita è banale, saprei rispondere. La vita si svela a chi non può tramandarla.
Ma lui non lo sa.
Non immagina nemmeno che ciò che ci aspetta è questo: la verità.
Niente fragranza, niente solletico, niente latte da comprare, niente nottate in bianco ad aspettare.
Le merendine tutte per noi, la stanza degli ospiti per scopare quando il letto sarà diventato consueto, la televisione accesa mentre pranziamo, lo sdegno per le carrozzine in ascensore, gli “sshhh” alle mamme in teatro, i tacchi alti, le cene fuori, i pranzi fuori. L’arte, lo studio, la musica.
Il silenzio.
La concentrazione.
Il tempo.
La sera seguente esco.
Il latte è finito di nuovo.
Nessuno si è ricordato di ricomprarlo, quindi siamo tornati alla normalità.
“Esco”.
“Dove vai?”, mi chiedono entrambi.
“E’ finito il latte”.
“ Vuoi che ti accompagni?”, mi chiedono entrambi.
“Preferisco fare due passi”.
“Torni presto?”, mi chiedono entrambi.
Questo sa fare un figlio: collaudare.
Sorrido e rispondo che sì, solo il tempo di arrivare da Angelo e sarò di ritorno.
Tutto si ripete come quattro sere fa. Solo che la salita la faccio in trenta secondi. Davanti al negozio non c’è folla, ma solo qualcuno. Nessuno mi saluta ma qualcuno crede di avermi riconosciuta. In cassa non c’è Angelo, ma suo figlio. Ordino anche le gomme da masticare e mi vengono servite senza domande, pago e sono fuori.
Fuori ci sono anche loro, di nuovo.
Ed io sotto sotto, sapevo che li avrei trovati qui.
Cammino verso di loro. Sono fermi in un semicerchio di gente anonima e rassicurante.
Se fossi in un film, mi presenterei e li adotterei tutti e due e mezzo quanti sono.
Se fossi in un romanzo, resterei a guardarli fino all’alba, mentre scherzano con i loro amici sobri.
Se fossi in una pagina di cronaca nera, sgozzerei prima lui e poi lei e poi me.
Mentre mi avvicino lo smilzo si gira. Mi vede. Apre il braccio destro e tira a sé la sua ragazza. Anche lei mi vede.
Nessuno di loro mi riconosce.