Cronaca di una crisi – Ilaria Bernardi_Padova
_Racconto finalista ventesima edizione Premio Energheia 2014.
Iniziai in un giorno di primavera, un giorno come tanti. Uscii di casa verso le dieci del mattino, vestito di mille colori diversi per il numero di magliette che portavo addosso, maledicendomi per non aver lavato nemmeno un vestito decente nei giorni precedenti. Ma non era il momento giusto per i rimpianti. Qualche raggio di sole cominciava ad inondare i prati di un giallo acceso, mischiando, senza fonderli, i colori dell’erba e dei fiori. Nonostante l’assoluta noncuranza per le cose importanti, confermata dalla mia mise incredibilmente inappropriata per l’occasione, mi ero ripromesso di arrivare in tempo per l’appuntamento e mi accingevo per questo a prendere il treno di lì a pochi minuti. L’ansia, l’assoluta impreparazione e l’imbarazzo che montava nel riconoscermi riflesso sulle fiancate delle auto, ancora più rimpicciolito e goffo nelle immagini rubate a qualche vettura ferma al semaforo, mi spingevano più forte verso la meta. Se solo avessi avuto qualche ora, qualche minuto in più! Il mio tempo era semplicemente incompatibile con quello del resto dell’umanità, sfuggiva non appena cercavo di ingabbiarlo in qualche routine e rallentava, fino quasi a farmi impazzire, nelle ore di solitudine. Ma di questa lentezza non sapevo che farmene. Anzi, risultava ancora più opprimente di starsene al bar a buttare via le giornate. Non ne facevo niente e, quasi a volermi ricordare la mia improduttività, il tempo si metteva a rallentare ancor di più per dispetto, facendomi temere che ci non sarebbe mai stato un “dopo” e dubitare che vi fosse mai stato un “prima”. Inghiottitosi le settimane e i mesi, faceva poi capolino dandosi a folli accelerate.
Un giorno l’adagio che ritmava le mie giornate venne inaspettatamente interrotto dalla una
convocazione per un colloquio di lavoro. Un lavoro. Da quanto tempo non sentivo questa parola! Ero persino rimasto stordito al telefono, totalmente incapace di rispondere. Non era l’emozione o la sorpresa. Semplicemente, scorrendo mentalmente il mio vocabolario, alla voce “lavoro” rispondeva un messaggio di errore. Mi dispiace, questo termine non esiste. Cercava forse la parola “lavare”? Dopo qualche attimo, lasciata in sospeso la definizione, risposi al mio interlocutore, limitandomi, tuttavia, a dei monosillabi. La conversazione, ripercorsa successivamente centinaia di volte, non era durata che qualche minuto e si era conclusa con un accordo: Mercoledì, 11:30 e l’indirizzo. Ed eccomi sul treno, col cuore in gola, respirando a fatica, guardarmi intorno senza riconoscere nessuno, smarrito, come un animale selvatico in un centro abitato da voci e rumori. Cercai di concentrarmi sulla rassicurante andatura del mezzo, sui prati e i campi deserti intervallati da case ingrigite e mute, che sembravano ancora più vecchie e malandate attraverso il vetro sporco di fango e pioggia del finestrino. Come un film su una pellicola lacerata dal passare dei giorni.
All’improvviso, la voce metallica dagli altoparlanti annunciò la mia stazione, scaraventandomi fuori dalla carrozza, nell’odore acre dei binari strizzati dalla frenata del treno. Ripresomi un poco, mi avviai dal piazzale della stazione al luogo dove il fatidico incontro sarebbe dovuto avvenire. Incerto sulla mia sorte, forse nemmeno speranzoso, raggiunsi un palazzo di colore bianco, costruito all’incirca alla fine degli anni Sessanta. Appariva ancora più alto e spigoloso perché si trovava accanto ad uno spazio vuoto- completamente vuoto- dove con ogni probabilità sorgeva un tempo un altro edificio. Guardai per un attimo quello spazio irreale, leggendolo come un presagio negativo.
Non ero immune da attacchi di pessimismo cosmico, ma nelle mie condizioni, non mi si poteva biasimare. Suonai e salii le scale. La saliva nella mia bocca sembrava essere evaporata da ore tanto da farmi credere di non poter nemmeno parlare. Mi si presentò sulla porta una donna con i capelli raccolti e il sorriso affabile, vestita di tutto punto. Il timbro della sua voce mi piacque fin da subito.
Anzi, ebbe quasi un effetto anestetizzante. Cominciai a sentirmi a mio agio e il mio sguardo, da mobile ed evasivo, si fece curioso. Non mi importava nemmeno più del nero-verde-rosso che portavo disordinatamente addosso né mi interrogai sui motivi che mi avevano condotto in quel momento proprio in quel posto. Il colloquio durò all’incirca quaranta minuti, durante i quali una perfetta sconosciuta dal tono suadente e l’aspetto elegante, fece l’elenco delle attività svolte dal sottoscritto negli anni precedenti, sviscerandole una ad una, indagando le ragioni che mi avevano portato ad abbandonarne spontaneamente più di qualcuna e gli addii che, mio malgrado, mi erano stati imposti.
Lasciai l’ufficio con una sensazione nuova, pervasiva, piacevole, che non mi abbandonò nemmeno una volta tornato a casa. Non sapevo spiegarmi da cosa derivasse. Mi sentivo libero, rilassato e, in qualche modo, sollevato. Ma sollevato da cosa? Non trovavo risposta. Quei pochi minuti trascorsi in compagnia di quella donna sembravano non appartene al ritmo dei miei giorni ma piuttosto ad un mondo parallelo che avevo visitato molto, molto tempo prima. Mi domandai, prima scherzosamente ma in seguito con apprensione, se non mi fossi innamorato. Possono bastare quaranta minuti per provare amore? Giunsi alla conclusione che la solitudine avesse guastato i miei rapporti interpersonali, distorcendoli a dismisura. Mi rallegrò il fatto, tuttavia, di poter ancora provare delle emozioni, per quanto inopportune.
Il giorno e la sera trascorsero in completa tranquillità, così come i giorni successivi, nei quali intervallai la lettura a qualche chiacchiera al bar, in attesa. Sul finire del quarto giorno, iniziai ad avvertire, però, una sorta di disagio inspiegabile, di ora in ora sempre più insopportabile. Frastornato da quell’inedita sensazione, mi risolsi dapprima a chiamare il medico, dal quale non ricevetti il minimo conforto, e poi mia madre, scelta di cui mi pentii immediatamente dopo, allorché iniziò a lamentarsi per averla trascurata e per non aver, a 31 anni, ancora la benché minima idea di cosa fare della mia vita. Il tutto condito da qualche ricordo del passato, dalle notizie sulla salute di mio padre e da qualche consiglio non richiesto. Riagganciai, ancora più angosciato. Infine mi decisi a chiamare quella donna, senza uno scopo ben preciso. Non appena le dissi il mio nome, si precipitò a dire di essere dispiaciuta: la mia candidatura non era stata ritenuta idonea per quella posizione.
Riattaccò. Non ebbi nemmeno il tempo di risponderle, di dirle che forse, in fondo, la chiamavo perché dopo il nostro incontro non avevo smesso di pensare a lei, alla sua voce melodiosa che per qualche ora era riuscita a strapparmi alla mia assoluta apatia. Non ricordo cosa feci nelle ore successive e nemmeno la settimana seguente. Mi torturava il ricordo del sollievo che avevo provato nel farmi riaccogliere da quel mondo che per me esisteva, distinto e distante, incollato alle mie finestre e ai miei piedi. Il sole brillava ancora più intensamente nel cielo sgombro dalle nuvole e la luce filtrava nella mia stanza senza darmi tregua. Mi riusciva difficile pensare razionalmente, se non a costo di enormi sforzi e verso sera mi travolgeva una spossatezza paralizzante, che mi rendeva ancor più lucido e mi impediva persino di dormire. Ad un certo punto, un’illuminazione: non era lei quella che desideravo, era il tepore scaturito dal nostro incontro.
L’obiettivo della mia ricerca, perché di questo si trattava, di una disperata ricerca del piacere, mi riportò subitaneamente alla mia dimensione terrena, quella di un essere abbietto, senza una meta pura e sublime a cui aspirare. Giunsi inaspettatamente alla conclusione che, per sopravvivere, avessi bisogno di un nuovo incontro, di un altro colloquio. Recuperai affannosamente indirizzi, nomi, recapiti telefonici, ingollando tazze di caffè da quattro soldi ad un ritmo regolare di tre ore. Il sonno si frappose più volte al mio obiettivo, impedendomi di raggiungerlo prima di tre giorni. Poi, una chiamata. Il giorno seguente, uscendo, affondai felice le scarpe nelle pozzanghere, ricevendo ogni schizzo d’acqua come una benedizione. Il luogo lo conoscevo bene: era una zona piena di edifici in costruzione dove trascorrevo inutilmente le mie ore a leggere classici greci e latini, lontano dalla folla del mercato e dai viottoli claustrofobici del centro città. Era “Utopia”, così la chiamavo nel linguaggio idealista dei miei quindici anni. L’incontro si svolse, come previsto, dalle 15 alle 15.30, non un minuto di più. Mi fermai a comprare del pane e trotterellando ripercorsi la via verso casa.
Un senso di torpore mi pervase, lasciandomi completamente intontito. Non poteva essere amore, ne ero certo: questa volta a scandagliare il fondo della mia vita non era stata una donna, ma un uomo sulla quarantina, l’aria esperta di chi sa ormai tutto e non ha più nulla da gustare. Mi ero scoperto ad interpretare me stesso, un piccolo insignificante essere nel sobborgo di una città all’estremità di un mondo alla periferia dell’universo.
Nei giorni successivi andai al bar a divorare le ore in chiacchiere su amori storpiati dalla distanza e consunti dal tempo, in progetti precari, in brillanti idee evanescenti. Riuscii a fare qualche traduzione per non dovere mettere mano ai risparmi e mi lasciai rubare il cuore da una ragazza di passaggio, in fuga verso terre migliori.
Il silenzio del telefono, al quale implorai, seppur segretamente, di emanare un suono, rese eloquente il rifiuto. Decisi di interrompere forzosamente il dialogo muto con l’apparecchio e di costringerlo, in qualche modo, a “parlare”. Ancora più determinato, dunque, ripresi la mia missione edonistica, bramando il narcotico torpore, il sapore dolciastro delle mie piccole conquiste. Poi, d’un tratto, il suono metallico del marchingegno infernale annunciò la mia vittoria. E, così, cominciai a collezionare appuntamenti, uno dopo l’altro. Non desideravo nemmeno più di ricevere una risposta positiva, una proposta qualsiasi per porre fine all’insensatezza di giorni indistinguibili, all’impossibilità di fare fronte alle necessità quotidiane. Devo ammettere che riuscii ad ottenere più di un lavoro e che mi trovai a svolgere mansioni per le quali non avevo preparazione alcuna. Forse, proprio per quello smisi di andare ai colloqui con l’intenzione di ottenere un lavoro: l’unico scopo si riduceva nel riuscire a riprodurre quella magnifica sensazione di svuotamento e leggerezza, nel ritrovare la formula incalcolabile dell’inesistenza. A chi mi vedeva uscire di casa quasi ogni giorno con tenute a dir poco stravaganti- data la diversità degli impieghi ai quali mi candidavo- dovevo essere sembrato semplicemente un uomo dai molti interessi e attività, un tantino bizzarro, che cambiava lavoro spesso, come cambiano le stagioni. L’idea di poter mutare completamente identità rendeva il tutto ancora più intrigante. Riuscire a perdere anche il nucleo, l’essenza, l’identità, rimaneva il tassello più importante nel mio viaggio verso l’inconsistenza. Ma periodi di fermento, frenesia, dinamismo si alternavano a fasi di calma assoluta, che mi gettavano in stati di ansia e sconforto. Avevo elaborato una strategia, che si riduceva nel proporsi per qualunque tipo di lavoro e nel propinare risposte che nel corso dei mesi ero andato affinando e ripetendo quasi come un copione. Proprio la prontezza e la sagacia che dimostravo nel dialogare con i miei molteplici interlocutori, mi facevano apparire sempre più spesso il candidato ideale. Ma è a questo punto che le cose cominciarono ad essere sempre più complicate, ingovernabili. Innanzitutto, ero diventato involontariamente un esperto dei colloqui di lavoro. Anticipavo talvolta le domande, risultavo sicuro, determinato, preparato. La mia abilità oratoria riusciva persino a sopperire alle enormi mancanze del mio curriculum, non aggiornato da molto tempo, in cui figuravano, più che vere esperienze lavorative, incarichi-lampo, “avventure”, occupazioni improvvisate. Mi trovai sul punto di accettare alcuni dei compiti che ero stato chiamato a svolgere, se non altro per mera sopravvivenza. E, in alcuni casi, seppur per periodi molto brevi, mi vidi costretto ad accettare.
Cominciarono, tuttavia, a sorgere dei problemi: in primo luogo, alcuni iniziarono a riconoscermi, specialmente tra coloro che selezionavano il personale. Tali circostanze mi forzarono a spostare sempre più lontano la mia ricerca, costringendomi a trasferte insostenibili. Ben presto si diffusero voci riguardo a questa mia non-professione, alla mia eccentricità e insinuazioni riguardo alla mia presunta attività di ispettore al soldo di chissà quale improbabile agenzia di controllo o misterioso ente di ricerca, a cui avrei dovuto riferire informazioni sulle modalità selezione dei candidati o sulle offerte lavorative. I più mi consideravano solamente uno scansafatiche. Non potevo che dare loro ragione, pur non ritenendomi totalmente improduttivo. Avevo riscoperto il piacere di leggere senza seguire mode, muovendomi senza meta nell’inesauribile mondo del sapere, assaporando il gusto salato dei gialli e della fantascienza, quello aspro dei saggi, il dolce dei romanzi, l’umami delle biografie, l’amaro delle cronache. Ripresi a scrivere, su tutto, di tutti, collaborando saltuariamente a blog online e riviste indipendenti. Il resto delle ore, però, era assorbito dalla ricerca di nuovi colloqui e, perciò, inqualificabilmente sprecato secondo l’interpretazione ufficiale, che al tempo non mi trovavo in alcun modo condividere. Non mi sentivo più rincorso dal tempo, mi adagiavo in un eterno presente. Non consideravo nemmeno l’idea che qualcuno potesse intuire ciò che stavo facendo né mi pareva che potesse creare danno alcuno. Vivevo in una dimensione nuova, ovattata, distante.
Un giorno ricevetti una strana chiamata. Non mi si invitava al solito colloquio né si trattava di una delle conversazioni sconclusionate che io e mia madre ripetevamo quasi ogni settimana, come un rituale. Era la voce di un uomo. Diceva di sapere della mia attività criminosa, del mio tentato sabotaggio del sistema capitalista. Rimasi di stucco, incapace di formulare una risposta. Conclusi che si trattasse di uno scherzo telefonico o di qualche irriducibile anticomunista, che probabilmente aveva notato il voluminoso libro di Marx che per settimane mi ero portato appresso per ingannare il tempo tra un appuntamento ed un altro. Mi chiesi persino se qualcuno avesse potuto spiarmi ma, ritornato in me, liquidai la faccenda come un gioco, una burla. Risi di me, dell’impressione bizzarra che dovevo aver suscitato in tutti quelli che avevo incontrato: un ragazzo sulla trentina, di media statura e corporatura, senza alcun tratto particolare, eccetto i capelli spettinati e l’aria distratta. E tutti quei libri. A volte fanno paura, pensai. Una sorta di ritratto illusorio che elaboravo con autocompiacimento.
Un messaggio mi ricordò che era oramai giunto il giorno del mio trentaduesimo compleanno. Quasi un anno era passato da quando avevo iniziato la mia nuova vita, un anno che non potevo condividere con nessuno, non perché considerassi quanto stavo facendo sbagliato o immorale, ma piuttosto perché gli impegni mi avevano assorbito completamente, lasciandomi solo. E non avrei nemmeno saputo come spiegarlo. Scesi a fumare una sigaretta, la prima dopo molti mesi di astinenza. Un piccolo dono per celebrare un altro anniversario dalla mia nascita, un altro passo verso l’autodistruzione.
Le settimane successive trascorsero tranquillamente, scandite da appuntamenti, viaggi, incontri. Uno di questi avvenne in un parco, poco distante dal lussuoso ufficio che avevo appena lasciato. Fu puramente casuale, durò solo qualche minuto, ma lasciò una traccia incancellabile. Non ricordo il suo nome né mi importava. Guardavo i suoi capelli volare al vento, le labbra muoversi, le guance sollevarsi all’accennarsi di un sorriso. La invocai qualche volta nel sonno, la pregai di restare. Era la donna dai capelli dorati. Con il passare dei giorni, tuttavia, il suo ricordo andò annebbiandosi, facendo affiorare sfumature, colori annacquati, contorni sbiaditi, come in un quadro impressionista. E il turbamento che mi aveva colto inizialmente, dopo qualche settimana andò affievolendosi, anche se non scomparve mai del tutto. Rimase a rimproverarmi, a rimarcare la mia solitudine, a condannare la mia idea di perseguire un piacere che poteva solo riprodursi e mai accrescersi.
Una notte, a qualche mese di distanza, ancora quella chiamata. Fuori il mondo sembrava essersi fermato, non una voce, non una luce. Le strade e le case immobili, le finestre spalancate, neanche un alito di vento. Lo ricordo perché quando squillò il telefono mi trovavo sul terrazzo, un microscopico cubo di cemento su cui erano state incollate delle piastrelle arancioni, lucide, impersonali, uguali a quelle delle altre sette famiglie del palazzo. Quelle su cui mia nonna aveva strascinato le ciabatte, quella dove mio nonno andava ogni giorno a fumare la pipa. L’unica appendice esterna, l’unico contatto con l’ambiente circostante. La stessa voce mi disse che ormai ne era certo, che sapeva del mio piano e aveva raccolto le prove per smascherarmi. Iniziai a tremare.
Presi a riempire uno zaino sgualcito che avevo ritrovato sul fondo di un armadio senza uno scopo preciso, senza la reale intenzione di mettere il naso fuori di casa, dalla mia unica possibile fortezza. Ero consapevole, in fondo, che nemmeno questa volta sarei andato da nessuna parte. Era la mia unica certezza, l’unica scelta coerente che fossi mai riuscito a sostenere.
Inutile ricordare i mesi che seguirono: la mia storia venne riportata sui giornali, copiata e ricopiata, perfezionata da parole di rabbia e disprezzo, paragoni indicibili, banali moralizzazioni. La mia foto circolò su ogni sito internet e venne persino affissa da qualche parte con su scritto: “No ai ladri e ai truffatori”. Pensai più volte alla donna dai capelli dorati, a cosa stesse pensando. Pensai a tutti quelli che in quei mesi avevano creduto di sapere tutto di me, ai miei genitori, al colloquio con quella donna misteriosa, l’origine di quella nuova fallimentare esistenza. Pensai che in fondo nessuno sapeva più chi fossi veramente, nemmeno io. Solo il nome mi teneva legato ad un’identità, ma davvero poco sarebbe bastato per oscurarla.
A qualche giorno dalla mia probabile condanna mi è stato chiesto di dare spiegazioni, di provare a difendermi da un colpa che non sento. Non ho trovato di meglio che raccontare la mia storia in queste poche pagine senza abbellimenti né omissioni. Non ho saputo fare di meglio che scrivere la cronaca della crisi di un uomo senza illusioni, di un mondo senza direzioni.