L'angolo dello scrittore

Dal Manifesto della “Polietica” al movimento “TQ” per uscire dallo stato di minorità

Si moltiplicano i segnali di un risveglio delle giovani generazioni intellettuali: varie antologie, documenti programmatici, i proclami del gruppo dei Trenta-Quarantenni, che reclamano una presa di posizione ‘dei lavoratori e delle lavoratrici della conoscenza’ per reagire al progressivo degrado della situazione italiana e al baratro politico-morale prodotto dal regime berlusconiano. Serve una mobilitazione culturale straordinaria di fronte all’evidenza che il sistema capitalistico globale non tiene più, rischia realmente il collasso.

di Antonino Contiliano _ tratto da Retididedalus

Vero è che l’“effetto farfalla” non interessa solo i fenomeni delle turbolenze climatiche e quantistiche, se voci isolate, o brezze appena parse, e poi sparse nel deserto del dissenso  politico-culturale italiano, a poco a poco cominciano, viaggiando, a coagularsi in correnti più o meno alternate e zigzagate, e poi ancora fino a  depositarsi fra le righe di un manifesto. Così è il caso del manifesto (2008) della “Polietica” di Valerio Cuccaroni e di quello (2011) del movimento “TQ” dei primi firmatari ( in un incontro “di oltre cento invitati presso la sede della casa editrice Laterza di Roma, a fine aprile2011, inrisposta ad un appello di Giuseppe Antonelli, Mario Desiati, Alessandro Grazioli, Nicola Lagioia e Giorgio Vasta”); il lancio dei due Manifesti cioè che ha allertato poeti e letterati, in genere, e che via via ha accumulato adesioni sempre numerose e qualificate.

Manifesti, questi della “Polietica” e del movimento dei “TQ”, che chiamano gli intellettuali italiani attorno al progetto di resistenza e di lotta, quanto per farli uscire, per così dire, dal lungo “stato di minorità” in cui si sono lasciati andare nell’ultimo ventennio del XX e nel primo decennio del XXI, soffocati dallo sfascio della “democrazia repubblicana”. Manifesti che, incoraggiando i nuovi proletari – “i lavoratori e le lavoratrici della conoscenza” – a far causa comune in una con gli altri “esclusi” e, in ogni modo, con tutti gli sfruttati dal capitalismo mondializzato, nonché parimenti espropriati dei “beni comuni”, gramscianamente e  simultaneamente, invitano e spronano ad essere protagonisti di profonde trasformazioni liberatrici ed egualitarie anticapitalistiche.

Di quelle profonde ed estese trasformazioni che, nel corso della costruzione europea in atto, toccano  – scrive Emanuela Fornari, riferendosi al dibattito francese – la semantica e la sostanza politica della stessa democrazia rappresentativa liberal-borghese, e dove i concetti di “identità e differenza appaiono […] come i concetti cardine in grado di riorientare il dibattito attorno al pensiero e alla prassi politica contem­poranei, in sostituzione di quella dialettica tra «stesso» (méme) e «altro» (autre)[i] che anima il travaglio della democrazia del consenso maggioritario occidentale. E la notazione differenziale tra identità e differenza stesso e altro, continua la Fornari, non è cosa estrinseca o marginale. Perché, a differenza della prima coppia – che richiama un orizzonte “logico-ontologico” –, il termine alterità, della seconda coppia, rimanda invece ad una connotazione esistenziale e “antropologico-culturale”, che una retorica di democrazia politica populistica altera semantizzando l’altro come lo straniero e il nemico: loro contro noi. “Identità e differenza dunque, o identità e alterità, si presentano come i poli transitando per i quali negli ultimi anni si è venuta tessendo da più parti una rinnovata interrogazione sul signifi­cato della democrazia, o sul suosenso[ii].

Rimuovere lo stato di cose presente, lasciare le illusioni della presunta utopia capitalistica del mercato liberista e abbracciare la lotta antagonista come portatori di un’egemonia culturale alternativa, rimanendo attenti agli agguati della “rivoluzione passiva” e alle alleanze trasformistiche, sembra essere l’aspetto trainante di questi Manifesti lanciati a difendere e praticare la cultura come “bene comune” fra gli altri “beni comuni”. Ma la lotta etico-politica non può limitarsi a certi diritti, e altri no, se la tutela avanzata degli stessi diritti dei “lavoratori e lavoratrici della conoscenza” (e altri), negli attuali rapporti di forza della ristrutturazione economico-politico-giuridica, dominati dalla governance al potere, richiede una reimpostazione radicale della “democrazia” e delle relazioni entro e fuori i confini delle vecchie sovranità nazionali.

Gli antagonismi “reali” e ad un tempo “storici”, poi, ricorda Slavoj Žižek non mancano; all’interno della contraddizione fondamentale – quella che secondo noi sussume interamente il tempo e la vita del pianeta e degli animali umani nella misura astratta del tempo del capitale e del profitto (privati) –, Žižek (il filosofo che è sceso in difesa delle “cause perse”), infatti, ne individua almeno quattro: “l’incombente minaccia della catastrofe ecologica, l’inadeguatezza della nozione di proprietà privata applicata alla cosid­detta «proprietà  intellettuale», le implicazioni etiche e sociali dei nuovi sviluppi tecnico-scienti­fici (specialmente in campo biogenetico) e, ultime ma non meno importanti, le nuove forme di apartheid, i nuovi Muri e le nuove baraccopoli”[iii].

Se Pierluigi Sullo, ex direttore di “Carta/Cantieri Sociali” (anche questo un settimanale ex, grazie alle forbici di Tremonti & C.), oggi si trovasse di fronte alle iniziative dei poeti di “Calpestare l’oblio”  e ai documenti di lavoro del movimento degli intellettuali “TQ “ – “il movimento di lavoratori e lavoratrici della conoscenza trenta-quarantenni” –, sicuramente riscriverebbe una lettera a sostegno, e ne sposerebbe la causa; e altrettanto sicuramente non si sarebbe astenuto dal fare le proprie

considerazioni.

Perché quella lettera, cui qui ci si riferisce come a un presupposto e a un antecedente, e rivolta (allora) a “Magri, Eco, ecc” (Carta/Cantieri Sociali, XI, n. 9, 13 – 19 MARZO 2009), all’incipit, recitava:

SO BENE CHE È PIETOSO scrivere una lettera a qualcuno che non ti ri­sponderà. Tanto più se si tratta di appellarsi all’autorevolezza e al prestigio di qualcuno che viene trattato dai maggiori media co­me portatore sano dell’anima del paese: un «grande intellettua­le». Diciamo che vi scrivo con il modesto intento di fare a me stesso una domanda: perché tacete, nonostante il fatto che con ogni evidenza i limiti della decenza intellettuale e morale siano stati oltrepassati dai gover­nanti, dai loro esecutori materiali e dalla politica in genere? Perché non mettete a frutto la vostra autorevolezza e il vostro prestigio per tentare di raddrizzare un «dibattito pubblico» in cui imperversano canaglie, raz­zisti e adulatori del potere? Perché scrivete deliziosi ricami o vi esercitate in graziosi giochi di parole invece che fare quel che una coscienza del paese dovrebbe spontaneamente fare, ossia gettare in giro concetti, rifles­sioni, memorie per andare controcorrente? Se anche non servisse a nulla, dovreste farlo lo stesso, così che gli storici del futuro possano dire: sì, l’Italia in quel periodo divenne fe­roce, ma alcune voci si levarono, benché isolate, per contraddire la deriva”.

A quell’appello, chi scrive, rispondeva:

Caro Sullo,

Le scrivo dopo avere letto la sua lettera (Carta/Cantieri sociali, XI, n. 9, 19 marzo 2099) rivolta a “Magri, Eco, ecc.”. Intanto Le dico che sono un lettore assiduo di Carta/Cantieri sociali fin dalla sua nascita, e che Le scrivo da Capo Lilibeo (Marsala). Ma, soprattutto, le scrivo come uno di quegli intellettuali “ecc.”, ovvero appartenente alla manciata meridionale di “piccoli intellettuali” (dotati cioè di intelletto e singolarità sociale di “general intellect”) che sanno essere di non essere né Magri né Eco, o tanto meno fra quelli, come Lei “amorevolmente li chiama, appartenenti alla schiera del “grande intellettuale” e anima del paese.

Le scrivo come un intellettuale, allora, di quella categoria degli “ecc.”, o senza “prezzo” (e non mi duole) sul mercato dell’editoria della “modernizzazione” nazionale, che da giovane, e ora meno giovane, ha indossato e indossa la maglietta-libro con il viso utopico della bella e fresca “resistenza” del compagno Ernesto Che Guevara.

E l’ha indossata e l’indossa ancora perché ha il sangue e l’anima che sono figli di unanégritudine siculo-sud-ata, impastata con la “giusta rabbia” terragna – “cafona” e “terrona” – che il potere borghese-capitalistico, dall’unificazione italiana fino al fetore della “banda” padana e berlusconiana, ha così generosamente coltivato […] che respinge i calci dello stivale italiano dei padroni del potere e della stessa nuda vita del pianeta.

Ma, altresì, le anticipo che il 26 marzo 2009, ore 21, nell’apposita saletta di un ritrovo marsalese, leggerò e leggeremo (siciliani e africani rifugiati, clan-destini e migranti residenti a Marsala, ospitati nel centro di accoglienza sociale e umana di “Perino”) poesie che sputtanano il “potere” razzista e colonizzante…; e lì eserciterò/eserciteremo ancora un’azione di resistenza e lotta antagonista attraverso il pensiero lento e profondo della poesia.

Lo farò perché fedele (non pentito) alla memoria e alla prassi della “controcorrente” conflittuale, […] perché, come diceva Breton, nel mio piccolo, non ho la rassegnazione del “prete” e l’acquiescenza che favorisce l’imperversare tipologico e topologico di “canaglie, raz­zisti e adulatori del potere”.

In nome di quella “digna rabbia” che rode e ci rode, e per conto del movimento di letture poetiche “Ong non-estinti poetry” (cui ho dato vita con altri amici marsalesi), movimento senza scopro di lucro e “valore di scambio”, indosserò la maglietta di “CLAN-DESTINO” – appositamente ordinata (e già pagata) a Carta/Cantieri sociali.

Sarò/saremo, come può leggere nella locandina allegata, in compagnia degli “Amici del terzo mondo”, “Libreria Mondadori”, Agenzia “Communico” e “Centro Rifugiati Perino”.

Quella sera, come nel recente ieri anche sugli scogli marini e le spiagge dei bagnanti, leggeremo e suoneremo le poesie della grande cultura africana a partire dal dolore rivoluzionario della poesia civile e politica di Senghor, Césaire, Diop, ecc. Leggeremo, come “fratelli negri” e orgogliosa azione culturale-poetica di “pensiero meridiano”, la poesia di protesta civile e politica che negli anni Settanta e Ottanta animò la Siciliadel movimento poetico noto come Antigruppo siciliano, o dei poeti del “Collettivo-R (Resistenza, Rivoluzione, Ribellione)” di Firenze, o dei poeti e scrittori della poesia romana materialistica della contraddizione (le cito alcuni nomi – perché non creda che stia scrivendo sine bipedi individuabili), i romani viventi (Francesco Muzzioli, Mario Lunetta, Marco Palladini, ecc.), e operanti anche con la rivista elettronica “www.retididedalus.it”.

Le scrivo questa lettera perché, in giro per le paludi pontine e vaticane reazionarie, si sappia dell’esistenza di “piccoli” intellettuali siciliani (e non) che non scrivono ameni “deliziosi ricami o […]

graziosi giochi di parole”; ché ci sono voci singolari sociali che sanno di graffiare (e che la poesia punge e fa incazzare il potere, che reagisce o ignorandoli o ammazzandoli), pur non ignorando che la poesia non serve a fare le rivoluzioni; ché se non “servisse a nulla, si sappia che nelle contrade siciliane questi negri Sud-ati e africani contano, senza vantare presunzione alcuna di essere “anima del paese”, che “gli storici del futuro possano dire: sì, l’Italia in quel periodo divenne fe­roce, ma alcune voci si levarono, benché isolate, per contraddire la deriva”. […]. Mi auguro altresì uno sciopero in piazza di poeti, scrittori e altre moltitudini di “dannati della terra” (Marsala 18 marzo 2009).

***

Oggi (2011), finalmente, il tempo storico ha fatto sì che l’“effetto farfalla” di quelle voci isolate e vagabonde cominci a concretizzarsi in un coro, in un torrente, in un flusso e in una piena (effetto “valanga”) in assetto di guerriglia urbana ed extraurbana quali possono essere i corpi e le posizioni degli intellettuali dell’antologia poetica di “Calpestare l’oblio. 100 poeti italiani contro la minaccia incostituzionale, e per la difesa della memoria repubblicana”, di “L’impoetico mafioso. 105 poeti contro la mafia”,  del “Manifesto della Polietica” di “TQ” et alia.

Un’insurgenza che contraddice, finalmente, la deriva dello stile di vita del neo-capitalismo postfordista, mentre se ne stigmatizza la chiusura individualista e individualistica e, di contro, si rilancia l’impegno collettivo degli intellettuali italiani come un antivirus che attacca l’“epidemia dell’Occidente”, il capitalismo neoliberista (la versione pado-berlusconiana, in Italia).

Senza voler toccare la metafora dell’epidemia – impiegata per qualificare il capitalismo neoliberista dell’Occidente nella sua versione di “democrazia fascista” senza fascismo, così come Croce, ieri, trattò il fascismo italiano alla stregua di un “tumore” nel corpo sano della società liberale italiana –, leggendo il documento “ TQ/1 politica”, vorremmo qui dire che la “malattia”, se malattia è, non ha devastato solo la democrazia politica repubblicana italiana e le conquiste sociali dal dopoguerra ad oggi. Bersaglio della sua azione devastatrice e semplificazione manipolatrice è stata, anche e soprattutto, l’area “estetica” esistenziale dei soggetti ad opera della sua pseudo-cultura modernizzantedebolista con tutto il suo bagaglio d’immaginario senza immaginazione, di stereotipia linguistica e simbolica simulacrale, di spettacolarità, intrattenimento, di eterno presente fusionale, di talk-show e giochi per l’infantilizzazione degli adulti, di Second Life e altri trafficanti di droghe, non ultima la lunga campagna “antiterrorismo”. La politica “securitaria” dello “stato di eccezione” finalizzata all’addomesticamento dell’apparato percettivo-valutativo degli indigeni contro la diversità e le opposizioni al sistema-mondodella (fallita) “utopia” capitalistica e l’annessa liberalizzazione dei mercati e delle borse.

Anzi, si potrebbe dire, e fuor di dubbio, che l’anestetizzazione delle masse e delle soggettività (con l’annessa riduzione del cittadino a passivo cliente e consumatore) è stato il canale ideologico preferenziale della sua politica “estetica”.  Una vera corsia preferenziale!

Quindi, sebbene non nei termini di una teoria (filosofica) estetica generale o di una disciplina specifica (settoriale), l’“impegno” del movimento TQ non può, crediamo, lasciare in ombra, se si vuole uscire in toto “dal cono d’ombra”, la dimensione estetica dei “lavoratori della conoscenza” (ma si potrebbe rimettere in giro anche la parola “operaio” e “classe” cognitaria), dell’arte, della letteratura, della poesia, della critica, etc.

Senza scomodare (anche per i limiti che ci impedirebbero) la Critica del Giudizio di Kant – che ha focalizzato l’ineludibile relazione politica dei giudizi estetici con il “sensus communis” del suo “gusto” singolare riflettente e collettivo, è fuori dubbio la necessità di riallacciarne il discorso, considerato che l’impegno collettivo di TQ e l’adesione auspicata, è nella direzione/tendenza della “interdisciplinarità… critica dei saperi stessi… impegno etico in vista di un’azione politica… passo personale in vista di impegni collettivi… promozione della bibliodiversità… in un panorama

editoriale che vede invece (corsivo nostro) i criteri estetici” piegati al consumismo e all’ottundimento valutativo e all’anestetizzazione percettiva-immaginativa.

Il sapere dell’estetica, e nella sua più articolata maniera d’essere sapere delle condizioni e conoscenza liminare ed empirica del “senso”, riveste, crediamo, un ruolo non indifferente per orientare i processi della significazione in generale e quelli nella comunicazione politica e pubblica in particolare. Se per un momento (e in negativo) si fa infatti attenzione a come oggi – nel mondo globale della deriva mercantilistico-consumistica del capitalismo e della manutenzione dell’emergenza terroristica, dell’asse del male e delle campagne ideologiche dell’odio e dell’amore, volte a criminalizzare nemici e avversari fantasmi – l’informazione della propaganda massmediale dominante forma e dirige l’opinione pubblica, allora ci si può rendere conto dell’importanza che viene attribuita alla cura dell’apparato senso-percettivo delle persone, e ciò al fine di formarlo secondo particolari soggettivazioni e significazioni di tendenza o controtendenza.

Al caso, e solo per enunciazione, qui si fa riferimento, per esempio, alla chirurgia estetica (che promette eterna bellezza, giovinezza e fascino), al velinismo e alle donne-immagini, ai corpi stilizzati, alla falsa liberalizzazione sessuale, alla “desublimazione erotica” come pratica linguistica oscena apostrofante, o alle manipolazioni genetiche (che promettono nascituri programmati con certe caratteristiche), o alla “asetticità” delle armi intelligenti – che in campo di guerra fanno solo “operazioni chirurgiche”, o sono deputate a colpire solo certi obiettivi o a eseguire omicidi selezionati, o incaricate di esportare la democrazia nei paesi dell’asse del male o degli stati “canaglia” –,  o alla vigilanza delle frontiere e alle motivazioni che precedono e sanciscono poi la legislazione anti-emigranti e anti-clandestini, onde proteggere – fanfarano – gli indigeni dall’invasione dei “barbari” e dagli incivili, etc.

Un vero e proprio arsenale per mobilitare il disgusto percettivo quanto gli annessi sensi di insicurezza, consolazione e falsa potenza mobilitando le fabbriche dell’ira, delle menzogne, del falso, delle illusioni e allucinazioni virtuali. Un’infaticabile politica di estetica sociale che, tesa alla passività e al conformismo più deresponsabilizzanti, prima di tutto, ha di mira la narcotizzazione dell’aisthesis esistenziale e generica, e in seconda il disinnesco dell’autonomia critica, del dissenso e delle azioni antideriva.

Un vero proprio “regime estetico” (J. Rancière) incaricato di riorganizzare, vigilare e controllare la percezione delle cose e delle relazioni, ma per eliminare o eludere i processi di resistenza e rifiuti antisistema, nonché per tenere basso o rendere innocuo il taglio consapevole e critico degli amministrati, consenzienti o restii che siano. Mistificare e sterilizzare la mente. I ministeri della verità funzionano a pieno ritmo. L’eticità è terreno minato; se esiste, non si vede; è della consistenza del vecchio etere!

Lì dove la produzione e il consumo sia del materiale che dell’immateriale o del simbolico hanno privilegiato il basso-emotivo, la pura reazione sensoriale immediata, e subliminale, nonché l’impatto con l’oscenità del semplice e comunicabile carismatico, bypassando i processi della percezione valutativa dei soggetti, si è avuta infatti una diffusa estetizzazione politica omologante quanto liberticida, antiegualitaria (antidemocratica) e anestetizzante. Una estetizzazione della politica che, affidata a sciamani e volgari presentatori di presunti interessi collettivi, tuttavia, sembra più anestetizzante che modernizzante: un paradosso più che sospetto. Ed è per questo che la cultura e i linguaggi, nelle  varie diramazioni del simbolico e delle procedure delle verità in divenire, debbono reagire con giusta indignazione e recuperare quella valenza dirompente e dissacrante della tensione “esemplare” e critica del “sensus communis”, ma (oggi) soffocata dall’oligarchia in sella. Il linguaggio e i linguaggi (niente di nuovo sotto il sole), specie quelli odierni della pubblicità sofisticata e saettante, della massima contrazione, rapidità ed eccitazione, disciplinano non solo l’aisthesis (il mondo senso-percettivo dei soggetti) ma anche le stesse modalità estetiche del piacere e della seduzione con cui producono e riproducono la cultura e i valori egemonici della classe dominante, intenta (questa) a rimescolare continuamente i rapporti produttivi nell’intento solamente di conservare, riprodurre e perpetuare il modello privatistico ed espropriativo del capitalismo, di cui è garante e custode attraverso le rinnovate forme (apparato giuridico incluso)  di espropriazione e valorizzazione del lavoro vivo materiale e/o “immateriale” del mercato mondiale.

Così (dove ci si richiama alla cultura come “bene comune”, e vi si ritorna in nome dell’impegno collettivo degli intellettuali), non si può che riattualizzare l’invito di Benjamin in vista di una “politicizzazione” alternativa della cultura e del dettato estetico disalienante. In Europa, dopo tutto, diceva Derrida, si aggirano ancora gli “spettri”.

Del resto le scelte estetiche stanno dentro il ventaglio delle decisioni e delle azioni dell’etica e della politica dei gruppi e della più vasta comunità pluralizzata, e sostanziano il vivere di ogni strato sociale (Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto).

In tempi in cui, poi, si ripensa all’opportunità dei “ritorni” all’“impegno” e all’agire-insieme degli intellettuali in vista delle improrogabili  “istanze politiche e sociali”, l’impegno etico-politico non può rinunciare all’idea estetica di una democrazia rinnovata e più avanzata, e di cui si comincia ad avvertire la necessità attraverso l’attuale dibattito culturale innescato dall’ipotesi dell’“Idea del comunismo”,  proposta da Alain Badiou. Le sue riflessioni già datano, però, fin dal suo primo “Manifesto per la filosofia” (1989), e, vent’anni dopo, si ripongono con il “Secondo manifesto per la filosofia” e la conferenza di Londra (maggio 2009), al Birbeck Istitute, pensata insieme a Slavoj Žižek. Una proposta che poi vede impegnati, in un serrato dialogo, E. Balibar, J. Rancière, J-L.

Nancy, J. Butler, T. Negri, A. Russo, A. Toscano, G. Vattimo, A. Burgio, etc., e che si può seguire, per esempio (per quel che riguarda chi scrive), a parte le pubblicazioni editoriali specifiche, attraverso le pagine della rivista “Iride” e/o su “Alfabeta2”.

Nell’emergenza del collasso e dell’implosione del capitalismo finanziario e poliziesco-militare e nell’orizzonte della contemporanea presa di consapevolezza (di parte) degli intellettuali italiani della necessità di riprendere la via del comune impegno collettivo (agire insieme, e senza castrare la differenza), non può essere sottovalutato neanche l’impegno dei poeti e dell’estetica del loro linguaggio. Personalità, quale Gramsci, nella storia italiana, hanno riconosciuto loro una grande responsabilità, e ciò sia per il loro essere intellettuali in sintonia con il “sentimento” del popolo egemonizzato, quanto per l’“esemplarità”, almeno per gli anticipatori, del loro stile particolarmente aggressivo e salace. Nel caso dei poeti, lo stile più idoneo, per Gramsci, era quello del “sarcasmo appassionato”.

Nella formazione dell’identità etico-politica pubblica, e del comune, per Gramsci, infatti, – come ricordava Stefano Colangelo in un suo intervento all’assemblea dei poeti di “Calpestare l’oblio” (“Bertleby”, Bologna, 11 febbraio 2011), richiamando il par. 4 del Quaderno n. 4, – “i poeti sono parte del grado più alto dell’attività intellettuale. Più alto … significa dotato di maggiori responsabilità”.

I poeti non devono fare gruppo a se stessi, o rimanere separati dagli altri e dalla temporalità storica immanente che li coinvolge e li attraversa da parte a parte. Mediatori e protagonisti,  insieme agli esclusi, debbono farsi voce anticipata e pratica per la comune uscita, kantianamente, dallo “stato di minorità”. Perché i poeti, come gli altri intellettuali – scriveva Gramsci, e questa volta richiamato da Gaspare Polizzi, leopardista e filosofo della scienza, nel volume di saggi Tornare a Gramsci (coordinato dallo stesso Polizzi) ) –, hanno il compito di stimolare il passaggio della coscienza popolare (in vista di un’egemonia propria e rivoluzionaria) dal semplice “sentire, al comprendere, al sapere” (“L’elemento popolare sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sem­pre comprende e specialmente ‘sente’, Q 1505”[iv]).

E  l’effetto è tanto forte quanto più la comunicazione e la significazione dei poeti e dei letterati sono espresse nella forma stilistico-estetica del “sarcasmo appassionato” (Gramsci). Infatti, in questa maniera risultano – si potrebbe argomentare – più incisivi e vicini  a quel “sentire” critico e dissacratorio del popolo degli sfruttati e degli oppressi (e di quanti si sentono venir meno il terreno coltivato dalle conquiste democratiche raggiunte) esasperati e combattivi, che esplode maggiormente nei momenti più aggressivi e virulenti dell’oppressione e dell’espropriazione.

Non ci si può accontentare della semplice ironia o del pastiche/“parodia bianca”, di cui, a proposito della letteratura dell’era postmoderna – l’era che “si caratterizza con l’eclisse delle grandi contrapposizioni (una caduta del negativo)”[v] –, Fredric Jameson, per esempio,  stigmatizza l’efficazia, mentre l’intellettuale, poeta e critico Francesco Muzzioli, dal canto suo, avanza la sferza della “parodia rossa”.

Insomma il “filo rosso” delle utopie alternative, spezzato dal corso degli eventi storici devianti (noti ormai a tutti), deve essere ripreso (Derrida ricorda che, in Europa e in “The time is out joint”, gli “Spettri di Marx” sono tornati a turbare i sogni di onnipotenza del biopotere), perché la “rivoluzione” dei modi delle forze produttive, che segue alle crisi cicliche (sempre più ravvicinate) del sistema e alle esigenze della nuova accumulazione capitalistica (materiale e simbolica), dalla classe dominante, è gestita solo per riprodurre se stessa e il modello che la garantisce.

Il capitale lascia intatto il meccanismo del lavoro servile e l’ideologia culturale addomesticante e ossequiosa, funzionale. Esso, con dovizia di particolari e violenza legalizzata, cura il fatto che l’incorporazione soggettiva dei suoi capitali, tutt’altro che emancipatori e rivoluzionari, avvenga in ogni modo e senza scalfirne le gerarchie di classe.

Così non devono rimanere senza seguito, e incremento di forze, la proposta e le iniziative dell’avanzare democratico o dell’“agire insieme” prospettate dai “Manifesti” della “Polietica” e di “TQ”, e di quanti altri, a vario titolo e attività, o depauperati, si sentono connessi, interconnessi e parte-cipanti.

Del resto non sarebbero voce (unica) nel deserto. Girano anche le voci dei due “Manifesto” di filosofia politica di A. Badiou con l‘“Idea” del “comunismo delle singolarità” (non gerarchizzate) e quella dello “Stato senza Stato” (Gramsci) o della società regolata “nel segno dell’autogoverno collettivo”[vi], dove l’autonomia del lavoro vivo con la sua libertà di decisione nei modi, tempi e finalità del produrre (direttamente sociale), è valore imprescindibile che sostanzia la battaglia per il “comune”, e fin dai suoi aspetti più culturali. Una cultura antiservile e un impegno di liberazione e di emancipazione collettiva sul fronte di una cooperazione non-rappresentativa, diretta. Un’emancipazione/liberazione collettiva e individuale, però, che, viste le cose sul piano della cultura come “bene comune”, non può essere circoscritta solamente nei limiti della “demercificazione dei cosiddetti beni comuni”[vii] o di quant’altri diritti di prima, seconda…altra generazione.

Che “TQ”, in tempi di carestia e penuria culturale, si batta per la “promozione della bibliodiversità, difendendo la complessità e la varietà delle scritture in un panorama editoriale prevalentemente orientato ai criteri estetici e produttivi del largo consumo”, è obiettivo che certamente  va condiviso e portato avanti. I monopoli/oligopoli editoriali dell’usa-e-getta non sono di certo soggetti all’autocombustione! Ma, di certo,  è anche vero che il fronte della lotta per i diritti, pur di quelli “universali dell’uomo e del cittadino”, della cittadinanza o del “riconoscimento” non ha più un interlocutore credibile nella democrazia liberale-maggioritaria del neo-capitalismo globale, i cui diademi, peraltro, sono piuttosto i “Cei”, le guerre umanitarie infinite e quelle della nuova colonizzazione finanziaria e militare delle “biodiversità”, i talk show del lavoro creativo del “prosumer” e dell’uomo estetica-“brand”, la propaganda populistica degli “Stati canaglia” o dell’asse del male e delle torture fatte passare per semplici “abusi”, della politica del terrorismo e dell’emergenza permanente, delle tempeste borsistiche, etc.

La lotta, nel senso più lato, occorre di un conflitto all’altezza del passaggio epocale che il tempo ci para davanti, se è vero che dopo la caduta del muro altri muri più potenti sono stati alzati, e che dopo l’“11 settembre” delle “torri gemelle” nulla sarà più come prima. Così recitano (almeno) i padroni del mondo e i signori della guerra che, in spregio agli articoli fondamentali della Costituzione

italiana in vigore, ma giornalmente devitalizzata e destinata al macero, in Italia, trovano degni compari di ventura, e per di più al governo del paese.

Se “l’apocalisse è diventata così banale”, allora “dobbiamo tornare a immaginare!”[viii]. Gli “spettri”, tutto sommato, non ci hanno ancora abbandonato!


[i] Emanuela Fornari, La democrazia e i suoi soggetti. Intorno a un recente dibattito francese, in Iride, XXII, n. 58, dicembre 2009, p. 625.

[ii] Ivi, p. 626.

[iii] Slavoj Žižek, L’idea del comunismo. Come cominciare dall’inizio, in Alfabeta2, n. 8, aprile 2011, p. 31.

[iv] Cfr. Gaspare Polizzi, Tensione etico-politica e stile, in Leopardi e Gramsci di fronte alla modernità, in Tornare a Gramsc. Una cultura per l’Italia, Grottaferrata (Rm), avverbi EDIZIONI 2010.

[v] Cfr.New anti-italian parody (saggio di Francesco Muzzioli), in  Qui si vende storia (di Nevio Gàmbula), Odradek, Roma 2010, p. 71.

[vi] Alberto Burgio, L’idea del comunismo. Uno sguardo adulto sul mondo, in Alfabeta2, n. 11, luglio 2011, p. 29.

[vii] Ivi.

[viii] Cfr. Valerio Cuccaroni, Il Manifesto della polietica, in  http://www.absolutepoetry.org/MANIFESTO-DELLA-POLIETICA.