Dentro la pancia, Ugo Criste_Genova
Finalista Premio letterario Energheia 2023 – sezione adulti
All’interno di quella cavità si stava scomodi. Tuttavia, in noi, c’era la consapevolezza di stare per vivere un momento epico. Di compiere un gesto che ci avrebbe reso immortali, quasi divinità. Fu Ulisse a decidere chi avrebbe dovuto esserci. Io fui scelto perché avevo combattuto, al suo fianco, sotto le mura della città di Troia, sin da quando si era giunti da Itaca, e perché sapeva che assieme a Euriloco e Anticlo, formavo un cuneo inarrestabile. Ma nella pancia di quel cavallo di legno, con noi, c’era un intruso, un tremore che non voleva inibirsi. Forse era indotto dall’attesa della pugna, forse dal rischio di fare la fine del topo. L’unico sereno era Ulisse. Almeno così sembrava. Ma probabilmente il suo atteggiamento, al limite dell’avventatezza, era solo una posa necessaria per trasmettere, a noi, la giusta determinazione. Per spezzare l’ansia, che ci divorava, ci dividemmo un pezzo di formaggio di capra e un sorso di vino. Alcuni di noi, tale era l’inquietudine, non riuscirono a inghiottire nulla. Io, dopo aver consumato quel frugale pasto, mi addossai alle tavole di legno e riuscii persino a prendere sonno. Venne la sera. Attorno al cavallo, che avevamo costruito e lasciato in omaggio sulla spiaggia e che i troiani avevano trainato entusiasti all’interno delle mura della loro polis, vennero accesi dei fuochi, e sacrificato alcuni agnelli. I troiani intendevano ringraziare gli dei, e per farlo si diedero ai festeggiamenti. Dalle fessure, del cavallo di legno, li vedemmo danzare, attorno alle fiamme dei falò, brandendo le armi. Li vedemmo lanciarsi otri colmi di vino. Li vedemmo, infine, crollare a terra ebbri, ed euforici.
Quando fu notte inoltrata Ulisse diede il via all’operazione. Mi chiamo a sé, e mi disse che avrei dovuto calarmi per primo. Che appena toccato il suolo avrei dovuto neutralizzare i due opliti di guardia al cavallo, e poi attendere che scendesse lui con tutti i suoi prodi. Sapevo che Ulisse riponeva su di me molta fiducia. Ma quella sua decisione, quella sua scelta, che di estemporaneo, a conoscere Ulisse, non c’era nulla, mi caricò di orgoglio e mi fece sentire parte reale di una storia che avrebbe assunto i contorni della leggenda. Respirai a fondo. Raccolsi, con lo sguardo, l’espressione di fiducia degli altri miei compagni. Aprii la botola, e mi calai.
I due guerrieri troiani, a guardia del cavallo di legno, non fecero neppure in tempo a capire cosa stesse succedendo. Li colpii tenendo la spada piatta, infine, visti tramortiti, li trafissi con il pugnale. Feci quindi il segnale che la via era libera. Attesi che i miei compagni scendessero dalla pancia del cavallo, poi, passando accanto alla tomba di Laomedonte, ci lanciammo in direzione della Porta Scea. Di sentinella c’erano una trentina di soldati. Quando ci videro arrivare si posizionarono a testuggine e brandendo le armi diedero la carica. Io, Euriloco, Anticlo e Antifo, prememmo al centro della formazione. Cozzarono i pelta. Sospinti dal nostro ardore creammo un varco. Vidi Ulisse incunearsi nell’apertura e, assieme ai restanti compagni, fare scempio dei troiani.
Terminato il massacro aprimmo la Porta Scea e facemmo entrare le nostre schiere armate. Io ed Euriloco non partecipammo alla razzia. La guerra per sconfiggere la città di Ilio era conclusa, l’infamia non ci apparteneva. Ci recammo, invece, sulle rive del fiume Scamandro e ci mondammo del sangue dei troiani. Dalla città si alzarono i roghi. Il fumo saliva denso, fitto, quasi palpabile. Ma non erano fuochi propiziatori, o di ringraziamento agli dei; erano palazzi in fiamme gremiti di genti. Concluso il genocidio giunse finalmente la quiete. Si sentiva solo il sommesso lamentare dei feriti e, adesso sì, il crepitio delle pire innalzate, sulla spiaggia, a gratitudine agli dei.
Quando Ulisse diede l’ordine di salpare non si era allegri. Avevamo, con l’inganno, sconfitto la città di Troia. Avevamo messo a termine una guerra, e un assedio, durato dieci anni. Saremo quindi ritornati alle nostre famiglie, ma fra noi, per i tanti lutti sofferti, c’era mestizia.
Abbandonai la nave di Ulisse per l’isola di Psarà.
– Non sai cosa ti perdi, Omero – mi disse Ulisse mentre si staccava, con la sua imbarcazione, dall’isola. – A Itaca verremo accolti come eroi.
– Ho saputo – risposi mentendo – che Psarà è in balia degli eventi e alla ricerca di un Re. Ritornare a Itaca per una vita tranquilla non mi si addice.
Il mio corpo era ridotto a un campo di battaglia. Le mie braccia erano stanche di dare la morte. Ciò che desideravo era proprio una esistenza tranquilla e la possibilità di vedere crescere una prole che fosse mia.
Andai alla ricerca di un’area dell’isola, che fosse poco frequentata. La trovai a circa tre stadi dalla polis che dominava l’isola di Psarà. Era una insenatura disabitata e protetta, a nord, da una barriera di rocce. Raccolsi, dall’ampio arenile, un pugno di sabbia, e avvicinandolo alle mie narici cercai di fiutare, di cogliere, se sapesse di solo mare, e per nulla al mondo di sangue. Chiusi gli occhi. La salsedine mi entrò in circolo. E conclusi, soddisfatto, che quella baia facesse al caso mio. Avrei vissuto di pesca. Mi sarei nutrito di bacche e di olive; in quella zona dell’isola alberi di olive crescevano spontanei. Costruii un capanno in prossimità di alcune rocce sfruttando una rientranza della rupe, e cominciai a vivere in pace.
I ricordi dei massacri mi ritornavano di notte. Erano incubi ricorrenti. Vedevo le mie mani affondare nel sangue, e quel sangue risalire, neppure avesse avuto vita propria, lungo le braccia. Assaltare il mio collo. Introdursi, con prepotenza, nelle mie fauci. Per impedire quella intrusione trattenevo il fiato fino quasi a scoppiare, fino a svegliarmi con un sobbalzo. Per allontanare quelle visioni mostruose, uscivo, allora, dal capanno, e alla ricerca dello sfinimento fisico spaccavo decine di mine di legna finché non arrivava l’alba.
Era già da qualche giorno che vedevo quelle imbarcazioni, cariche di esseri umani, passare davanti alla baia che avevo occupato. Proseguivano oltre la punta dell’isola, quindi, accostavano entrando nel porto cittadino. Incuriosito, da quella invasione, mi avviai, camminando per un sentiero che procedeva lungo la costa, e assistetti all’approdo di quelle genti. Erano soprattutto donne e bambini. C’erano pure degli uomini, ma quei pochi avevano le teste canute e i volti ricoperti da rughe. Mi avvicinai per avere notizie, e mi fu detto che erano profughi di guerra che arrivavano dalla città di Troia oltraggiata dagli Achei. Raccolsi altre informazioni. Ma lo feci, devo essere sincero, per non apparire sfuggente, e per allontanare, possibilmente, l’idea che potessi essere un diretto responsabile di quella tragedia. Fu mentre mi stavo allontanando che mi sentii chiamare, e che una mano si allungò per afferrarmi il peplo.
– Del pane e dell’acqua. non chiedo altro – disse una giovane donna. Aveva gli occhi scuri come la notte più fonda. I capelli lunghi e neri erano raccolti a formare una treccia. Indossava una logora tunica a tratti lacerata. Delle ecchimosi le ricoprivano le braccia, e sul volto, esangue, erano presenti segni di percosse. Nel complesso una bella donna. Ma per le ragioni che rappresentava, per me pericolosa.
– Con me non ho nulla – risposi come vergognandomi. – Ero venuto a vedere cosa stava accadendo, e la mia capanna è oltre quel promontorio.
– Sono sola – mi disse – non lasciarmi sola.
– Possibile che sei andata via dalla tua terra in solitudine, senza dei parenti, senza dei compagni?
– La mia patria era Troia. E adesso Troia non esiste più. Le fiamme dei conquistatori hanno arso persino le mura della città, e di vivo c’è rimasto solo il ricordo dei morti…e quello fa troppo male.
– Non hai un uomo? Dei genitori? Dei fratelli?
– Li avevo – disse la giovane donna mettendosi prona al suolo e coprendosi, con le mani, il viso. – Ma il mio uomo e i miei due fratelli sono stati trucidati dagli Achei. Anche mia madre e mio padre sono stati uccisi…li hanno gettati ancora vivi dentro un pozzo.
– Ho saputo. Sì, ho saputo – dissi fingendomi partecipe al suo dolore. – Il fragore di quella battaglia è giunto pure su queste rive di pace.
– Gli Achei ci hanno sconfitto con l’inganno. – proseguì la donna come in trance – Le nostre insuperabili mura ci avrebbero protetto per altri dieci anni. Sino alla fuga, per rinuncia, del nemico. Hanno usato un vile stratagemma. È per questo che è caduta Troia.
– Ho sentito, da dei viaggiatori, che si sono serviti, per introdursi nella città, di un cavallo di legno. – dissi facendomi pensieroso.
– Aiutami – implorò la donna – Ho bisogno di pane e acqua. Sono giorni che non tocco cibo.
– Ti aiuterò – dissi. – Aspettami qui. Anzi, spostati, e mettiti accanto a quel roccione e bene in vista così ti ritrovo. Vado di corsa al mio capanno e ti porto del pane, del pesce salato e affumicato, e una brocca di latte di capra.
– Lasciami venire con te – supplicò la donna.
– Faccio prima se vado da solo – dissi infamando il mio onore: la mia intenzione era di svanire.
– Non mi stai abbandonando, vero?
Fu come una pugnalata nel ventre. Fu come se una mano fosse penetrata nel mio corpo e mi avesse stretto lo stomaco sino a togliermi il fiato, facendomi conoscere qualcosa di me che ancora non conoscevo; l’infamia.
– No, non ti abbandono – le risposi. – E forse hai ragione tu. Forse è meglio che vieni con me. Con la confusione che c’è su queste rive, al mio ritorno, potrei non ritrovarti.
L’aiutai a sollevarsi. E tenendola per mano la condussi al mio capanno. Mentre camminavo pensavo alla storia che le avrei dovuto raccontare. Di sicuro avrei dovuto tacere del mio passato. In alternativa le avrei narrato che vivevo, da qualche anno, in solitudine e in pace sull’isola di Psarà. Forse avrei dovuto spiegare, a lei, che pure io ero un sopravvissuto di qualche guerra, ma che non volevo, per mille motivi, assolutamente recuperare le memorie delle mie sciagure. Forse chissà, mi venne da sperare, lei si sarebbe accontentata delle mie ragioni, e, volessero gli dei, fatte proprie. Era una bella donna. Ancora giovane per avere figli. Forse avremmo potuto diventare una famiglia. E di questo, lo sa bene la dea Estia, ne avevo proprio bisogno.
– Non mi hai ancora detto come ti chiami, chi sei – disse la giovane donna.
– Mi chiamo Omero – le risposi come sorpreso; nella pianificazione del mio passato avevo pensato di cambiare appellativo, invece, quello reale, mi uscì come naturale.
– Differentemente dal significato del tuo nome, mi hai scorto.
– Sei stata tu a fermarmi. A dire il vero.
– Altrimenti non mi avresti neppure notato?
– Non notarti sarebbe stato impossibile. Ciò che non volevo discernere, e per rispetto, era la disperazione – le dissi trovando in quella maniera un alibi alla mia sfuggevolezza.
– Il mio nome è Nemesi.
Venni colto fa un brivido. Lei non lo colse. Non avrebbe potuto. In quel tratto il sentiero era stretto e lei camminava dietro di me.
– Un nome originale da dare a una figlia – esordii, e fingendomi curioso le domandai. -Quale scelta ha indotto tuo padre a darti tale nome?
– Gli era stato suggerito da Cassandra quando ancora era bambina – disse Nemesi.
– Tuo padre – argomentai – avrà avuto le sue buone ragioni ad ascoltare la sacerdotessa Cassandra. Tuttavia, penso, che sia un nome troppo arduo, e impegnativo, da assegnare a una figlia che sta per venire al mondo.
– Non amo la vendetta. Amo la vita. Amo vivere in pace. E non posso, non amare la figlia di Ecuba e di Priamo – sostenne, ma senza enfasi, Nemesi.
Arrivammo al capanno. Le offrii del pane. Del latte di capra. Dei pesci messi sotto sale e conservati all’interno di un vaso di terracotta. Nemesi mi ringraziò baciandomi le mani e, capovolgendo la tradizione, volle e pretese di lavarmi i piedi. Terminato il pasto si spostammo sulla spiaggia. Le indicai l’approdo da cui partivo con la mia zattera di canne, legate fra loro, per la pesca. Lei ascoltava, rimaneva in silenzio, e sicuramente pensava agli eventi che l’avevano condotta sull’isola di Psarà. A ciò che aveva perso. A ciò che le avrebbe riservato il futuro. Ci sedemmo su uno scoglio. Il mare s’infrangeva accanto ai nostri piedi. E le onde, rompendosi sulla battigia, sembrava che trasportassero il suo nome. Pareva che facesse la risacca “Nemesi, Nemesi, Nemesi.” Come se declamasse. Come se la chiamasse.
A un certo punto mi accorsi che il suo sguardo cominciò a correre sulle mie braccia. Sulle mie spalle. Sulle mie caviglie.
– Hai il corpo ricoperto di cicatrici – disse – Anche di ferite non ancora rimarginate.
Alcuni sfregi – spiegai, e in parte, mentendo – sono ricordi di quel mio passato che non voglio ricordare, rivivere. Mentre questi tagli, e queste piaghe tuttora aperte, sono il risultato di una mia accidentale caduta sugli scogli.
– Per sanare le ferite occorrono delle foglie di salvia – suggerì Nemesi. – Sulla montagna, che si erge alle nostre spalle, dovrebbe crescerne in abbondanza. Con cosa ti sei curato?
– Solo con l’acqua di mare – risposi. – Di medicarmi mi era scappata persino la voglia.
– E perché mio Omero?
– Forse perché il mio passato mi ritorna troppo frequentemente.
– Il passato è l’unico presupposto di cui ne abbiamo la certezza – disse Nemesi facendosi pensierosa.
La vidi poi alzarsi e camminare lungo l’arenile. Mi adoperai attorno al fuoco, e con delle pelli di capra preparai due giacigli per la notte.
Non era ancora sorto il sole che mi accorsi che la mia ospite si era assentata dal capanno. Subito mi allertai. Poi mi augurai che avesse deciso di abbandonarmi e di dirigersi ad altri lidi. La vidi, in seguito, seduta accanto alla riva del mare. Mi alzai dal mio pagliericcio e mi avvicinai. Piangeva sommessamente. E malediceva la vita.
– Hai passato brutti momenti – dissi – ma sei viva. E questo è ciò che conta.
– Sul mio corpo gli Achei hanno sfogato i loro più bassi istinti – disse fra un singhiozzo e l’altro. – Non solo hanno trucidato il mio uomo e sterminato la mia famiglia, ma pure mi hanno stuprata. E io mi sento sporca. E io sento ancora sulla pelle la loro violenza. Persino l’afrore del loro sudore.
– È una consuetudine brutale della guerra – dissi, e lo dissi convinto; l’abominio non mi era mai appartenuto.
– Hanno infilzato con le lance i bambini. Hanno bruciato persone vive. Hanno violentato donne e adolescenti. Hanno riso dei vinti.
Sentii montare dentro di me l’angoscia. Andando in guerra si accetta la guerra, tuttavia, come ho sempre pensato e agito, bisognerebbe senza eccezione avere rispetto degli sconfitti, e, quindi, pure di se stessi; un soldato che compie simili infamie deturpa il proprio onore, la propria immagine di guerriero. Ma devo, in questo caso, essere franco. L’angoscia non mi montò per le considerazioni di etica appena citate, ma per quello che poteva significare avere accanto quella donna così tanto ferita. Principalmente se, quella donna, avesse scoperto il mio passato. E il ruolo che avevo avuto nella distruzione di Troia.
Avrei potuto, prima di essere smascherato, allontanarmi da lei. Lasciarle il mio capanno e trasferirmi a sua insaputa, nell’ipotesi di ricostruirmi una parvenza di vita, nel lato opposto dell’isola di Psarà. Oppure agire da malvagio e porre fine alla sua esistenza. Ne avrei poi bruciato, su una pira, il corpo e, in un certo senso, ricongiunta al suo uomo e alla sua famiglia. Non sarebbe stata la prima volta, considerai, che uccidevo in combattimento una donna. Non sarebbe stata, probabilmente, l’ultima occasione in cui mi macchiavo le mani di sangue.
Afferrai il pugnale. Mi accostai a Nemesi. Le accarezzai la lunga treccia tirandola appena; in modo che la sua gola si presentasse inerme. Ma nel momento che stava per scattare il mio braccio e la mia lama recidesse la carotide, Nemesi mi prese la mano e me la baciò. Riaccompagnai la donna nel capanno. Ci stendemmo sul giaciglio di pelli di capra. E facemmo l’amore.
Alla mattina la vidi inerpicarsi su per la montagna. Mentre tiravo su le reti la osservavo. Controllavo i suoi movimenti; ancora non mi fidavo. Fu nel momento in cui ero impegnato a districare un granchio che lei sparì alla mia vista. Accostai rapidamente la mia zattera di canne alla spiaggia, e armato di pugnale mi arrampicai per altura pietrosa. Mi venne da immaginare che si fosse concessa a me solo per non allarmarmi, e che in quel momento fosse andata alla ricerca di qualche reduce troiano per portare a termine la propria vendetta. Superai delle roccette e nel letto di un torrente prosciugato la intravidi. Raccoglieva delle erbe selvatiche, e parlava fra sé. Mi nascosi dietro a dei cespugli e la lasciai passare. Quando ritornai sulla spiaggia, era lì, che mi attendeva. Mi disse di mettere alla luce del sole le braccia e il petto, e sulle mie ferite ancora non rimarginate distese delle foglie di salvia.
– Con questo rimedio guarirai più in fretta e meglio.
– Non so come ringraziarti. Forse tutto questo non lo merito – dissi a disagio, e sentendo crescere in me una ignominia, per ciò che avevo sospettato, che credevo di non possedere.
– Ci aiuteremo a vicenda – disse Nemesi guardandomi intensamente con i suoi profondi occhi neri; ebbi come l’impressione che la sua affermazione fosse sibillina.
Deviai il suo sguardo, e finsi di essere interessato a osservare in lontananza; sull’orizzonte marino altre imbarcazioni arrivavano da est cariche di disperazione. Le spiegai che dovevo sistemare le reti, e con le braccia disseminate di foglie di salvia, mi allontanai da lei.
Ripresi il mare. Non perché dovessi ancora pescare, piuttosto perché avevo la necessità di stare lontano da quella donna. Lei mi confondeva. La sua presenza mi turbava, e io dovevo ragionare. Dovevo decidermi. Sì, dovevo rompere gli indugi. Compiere un’ennesima, e forse ultima, infamia, ed eliminare Nemesi. Avevo come l’impressione che lei sapesse. Che avesse capito che le mie ferite, erano ferite di oggetti contundenti, di armi, e non di una accidentale caduta. Era una donna acuta, intelligente. E forse di curare ferite di guerra era persino pratica. E la sua città di Troia, annientata e oltraggiata dalle schiere Achee, era vicino sia geograficamente, e sia temporaneamente.
Nonostante i miei belluini propositi, alimentati dai miei sospetti e dal mio colpevole passato, non agii. Lasciai che il tempo mi aiutasse a curare la mia diffidenza. E che si adoperasse per farmi diventare uomo di pace, e che facesse soccombere quell’uomo di guerra che ero sempre stato.
Seguì, quindi, un periodo in cui ripresi fiducia della vita e del futuro. Il capanno, nel frattempo, lo avevo ingrandito. Fu Nemesi a chiedermi di farlo. Voleva che ci fosse un ambiente per cucinare i cibi, uno per riposarsi durante la notte, e un altro ancora per discorrere, per passare le giornate, per intrattenere, nel caso si fossero presentati, degli ospiti. Nemesi, dalle mani d’oro, dopo aver raccolto, e messo in infusione, delle bacche di mirto, preparò una bevanda, leggermente alcolica, che mai mi era capitato di assaporare. La degustavamo alla sera. Davanti al fuoco, e dopo esserci nutriti di pesce cotto alla brace, e di frutta: in quel periodo il pescato sembrava che facesse di tutto per entrare nelle mie reti, e l’uva e i fichi crescevano e maturavano in abbondanza. Nemesi trasformò la mia esistenza diventandomi come necessaria. Mi diede, persino, dei consigli per la pesca, mi insegnò a costruire delle trappole per catturare i conigli selvatici. Nemesi mi piaceva soprattutto quando rideva: quella bocca, quei denti bianchi come il latte appena munto, quella luce che scaturiva dal suo sguardo. Mi piaceva quando, accompagnata da un’arpa, che le costruii con un tronco di ulivo e con dei tendini, per corde, di capre selvatiche, cantava componimenti della sua terra. Inizialmente, le sue liriche erano melanconiche. Melodie tristi che raccontavano di lutti, di sacrifici, di amori perduti e mai più recuperati. Ma con il tempo, e poco per volta, qualcosa in lei mutò. Sorse il desiderio di cantare l’amore. Del futuro che stava per sorgere. E che, forse, era già sorto. Crebbe in me, quindi, la speranza di ricostruirmi un’esistenza vera. Persino migliore di quella precedente. Addirittura, migliore di quella che meritavo.
Poi un giorno dal sentiero che costeggiava il litorale marino vidi arrivare un vecchio. Guardò in direzione del mio capanno, quindi discese sulla spiaggia e si avvicinò a Nemesi. Presero a parlare. Forse si conoscevano. Forse lui chiedeva informazioni su di me. Mi misi alla pagaia e iniziai a spingere in direzione della riva. Possibilmente volevo cogliere le parole di quell’uomo. Possibilmente lo volevo vedere bene in faccia.
Arrivai all’approdo, con il pugnale a portata di mano, che quel vecchio si era allontanato. Chiesi a Nemesi chi fosse. Cosa volesse. Lei mi rispose che era un superstite del massacro della città di Troia. Che si congratulava con lei perché aveva trovato un sostegno. Mi ha augurato, disse Nemesi senza riuscire a trattenere un malizioso sorriso, di avere una prole sana e numerosa.
Abbracciai con tenerezza la donna, ed ebbi vergogna dei miei pensieri, e dei miei propositi.
Mi fece distendere sul pagliericcio e dopo aver disseminato nuovamente le foglie di salvia sulle mie ferite non ancora del tutto sanate, mi propose di bere un infuso di erbe.
– È una tisana di borragine – spiegò, portandomi alle labbra una scodella di terracotta – aiuta a ricostruire la pelle. Mio Omero, senza di me ti trasformeresti in un selvaggio.
Avrei desiderato baciarle le mani. Chiederle perdono. Dirle che l’amavo. Ma se avessi pronunciato anche una sola parola non sarei stato capace di trattenere il pianto. Finsi di prendere sonno, ma il sonno, a causa della pozione, arrivò davvero.
Fu il dolore a un occhio a svegliarmi. Mi scoprii con le mani e i piedi legati, e con il sangue che sgorgava, zampillando, da un’orbita per invadermi la bocca, il collo. Sopra di me, e con un ginocchio posato sul mio petto, stava Nemesi. Brandiva il mio pugnale.
– Pensavi che non scoprissi le tue colpe? – mi urlò sfiorando, con il suo, il mio viso. – Pensavi che non avessi capito? Da questo momento colui che non vede lo diventerai davvero. – detto questo affondò la punta del mio pugnale sull’occhio ancora illeso e, come l’altro, me lo cavò.
Da quel giorno vago per l’isola di Psarà. Racconto a chi incontro, in cambio di un tozzo di pane, la mia vicenda, le mie gesta. Alcuni mi lanciano del cibo; lo devo poi conquistare lottando contro dei cani.
Altri, infastiditi, mi tirano dei calci, mi deridono, mettono in dubbio che fossi stato al fianco di Ulisse dentro la pancia del cavallo di legno. E così, io che ero la spada del prode Ulisse, subisco le umiliazioni di chi si nasconde, e di chi si appropria della gloria altrui.
Ma forse, questa, è proprio la conclusione che merito.