Falsa devozione, Georgia Georgoula
Racconto finalista Premio Energheia Grecia 2023.
I primi a riconoscere la nostra relazione perversa sono stati i miei compagni di classe della prima elementare. Eravamo bambini allora… e loro ridevano, schernivano e ignoravano i segnali. Chiudevano gli occhi davanti alle evidenze, anche se si estendevano davanti a loro come un mare di alghe dopo la marea. “Sei troppo giovane per una condizione del genere! Sei solo annoiata e vuoi attenzione, è tutto nella tua testa!”, mi dissero. Ma so che sarebbero sicuramente impalliditi se avessero scoperto che, in realtà, vivevo in segreto con lei da anni. Per questo non l’avevo mai rivelato loro. “Quello che non sanno non può farci del male”, pensai. E chiusi la porta della mia stanza avendo i suoi occhi nella mia testa. O meglio, lei stava chiudendo la porta.
La mia stanza d’infanzia… Un ricordo agrodolce, della soggezione, una sfocatura… Piccola ma accogliente, con le pareti rosa e verdi e con innumerevoli fiori dipinti. Con i sogni, con la volontà… Mi sentivo così straniera in essa, anche se ero cresciuta lì… Ma non ero più una bambina, ero la sua amante. E le risate dei miei amici, che un tempo danzavano tutto il giorno nell’aria, giocando con la luce del sole che abbracciava con tanta dolcezza la fragile finestra, cessarono, tacquero, perché lei voleva le tende chiuse e la stanza vuota. Avevo sentito dire che c’era un duplicato della chiave, ma come avrei potuto cercarlo senza una torcia?
“Se i miei pensieri avessero braccia, ti stringerei per sempre”, sussurrò. Sapevo che era tossica, ma giuro che le sue parole mi convinsero e divennero un rifugio. Le sue braccia si stringevano attorno a me, soffocandomi, ma sono rimasta al suo fianco per anni. “Sono l’unica qui per te, il tuo amore”, mi ricordava spesso. E io obbedivo, e restavo lì, il suo scudo. Nascondevo i lividi che mi aveva lasciato con le sue bugie e i suoi trucchi. La guardavo con paura, perché non vedevo mai il rimorso nei suoi occhi. Ma se se ne fosse andata, dove avrei trovato l’amore? Mi aveva detto che non ero degna di essere amata. Il buio intorno a me era così denso che potevo sopportare un po’ di violenza per avere la sua luce. Senza vedere, ahimè, quanto stavo diventando cupa!
Poco tempo dopo i miei “amici” l’hanno conosciuta. Non ho mai voluto mostrarla a loro, avevo paura. Lei era terrorizzata all’idea di separarci e le sue paure divennero presto le mie. Fino a quel punto, avevamo avuto l’un l’altra. Però adesso si sentiva minacciata e tutte le sue parole dolci si trasformarono in una battaglia notturna tra noi. Mi urlava dicendo che era colpa mia se la nostra relazione era ormai alla luce del sole, ma io non la presentavo a nessuno. Le avevo promesso che l’avrei nascosta, e l’ho fatto per anni. In cambio, lei mi ha distrutto, rendendomi incapace di fingere che non ci stavamo frequentando in segreto. Un’abilità che, giuro,avevo e di cui mi vantavo. Ero intelligente, ero valente. Ero la sua attrice. E l’unico Oscar che volevo era il suo bacio.
Mi prendeva a male parole, mi faceva sentire spazzatura. E io rimanevo lì, sprofondando nel letto con le sue parolacce addosso, danzando tra la vita e la morte sotto i ritmi estenuanti della sua cantilena. Ma la sua voce mi ha stancato e la sua danza disonesta mi ha spezzato le ginocchia. Per lei ho cancellato i miei sogni. Per lei ho perso gli amici. Per le sue parole finte ho sacrificato la mia luce. Ho trafitto con le unghie il mio stesso corpo, aprendomi – o piuttosto scavando – la mia strada verso un viaggio senza ritorno. Ma all’improvviso ho capito che la solitudine peggiore era quella che vivevo accanto a lei. Nessuna condizione era inferiore a questo rapporto.
“Come si chiamano i sentimenti che si vogliono bruciare?” mi chiedevo. “Vuoi nasconderli in profondità, come un tesoro inumano, da non trovare mai?”. Sono sicura che ci sono molti nomi. Per me, questi si riassumevano col suo nome: Depressione. Quella maledetta malattia invisibile; il veleno inodore, ignobileche ti scorre nelle vene e quando i primi sintomi si manifestano è già troppo tardi. Una sirena con il suo canto insipido. Non ha bocca, ma certo ha voce.
Ed era la prima volta che non mi vergognavo di affrontarla. Ho chiesto aiuto, l’ho mandata via…
…ma mi mancavano le sue mani. La perdita è stata grande. L’ho cercata tante volte, e ho pianto e pianto e pianto per il suo perdono. Ma come potevo perdonarla per la luce che mi aveva rubato? Era il mio turno di afferrare la sua gola. Dovevo finirla prima che lo facesse lei. “Ma se l’aveva pianificato, se era questo che voleva da me, perché ho io il senso di colpa?”.
L’ho guardata negli occhi per l’ultima volta e sette anni di nebbia passarono davanti a me. Per la prima volta mi guardava con paura. “Mi dispiace”, sussurrò. “Non mi sono comportata bene. Dammi una possibilità ancora, ti amo”.
“Per sette anni ti ho lasciato annegarmi. Ti ho lasciato battezzare come ribelli e cattivi quelli che volevano aiutarmi. Mi hai isolata, perseguitata, affondata…Sono diventata tua moglie, la tua prostituta, la tua attrice. Ero il tuo soldato, la tua schiava e il tuo giocattolo…” e tante altre cose, pensavo. Ma sono riuscita a pronunciare solo una frase prima di dimenticarla per sempre:
“Risparmia il tuo amore per un’altra. Io non merito l’amore, me l’hai detto tu”.