Di Parigi e altre confusioni, Laura Andrea De Alba Huerta_Francia
Premio Energheia Francia 2019
Racconto Energheia Sorbona 2019
Traduzione a cura di Laura Durando
Le vibranti strade acciottolate si stendevano davanti a me fino ai confini della metropoli che nessuno può asserire di capire completamente. Pienamente consapevole di quanto impossibile fosse questa prova, i miei occhi tentavano di trovarne la fine.
Parigi: Romance. Glamour. Delusione, sogni, sogni infranti, sogni nati, aneliti, lussi, povertà, arte, storia… i Caffè. Così tante cose, il cui solo pensiero era opprimente e mi faceva girare la testa ogni volta più veloce. Accelerando. Pulsando. Frastornando. La miglior cosa che avevo potuto fare era stata quella di fermarmi. Lasciamo quei pensieri metafisici a dopo. – Cosa difficile da fare quando Rayuela giace ancora aperto sul mio grembo -. Non si tratta di dare delle risposte bensì di fare delle domande, ma per oggi le domande sono state sufficienti per cui il libro si chiude pesante su se stesso e viene rimpiazzato dal mio taccuino blu.
Il taccuino con la sua copertina elegante era definitivamente stato un lusso per il mio budget da studentessa, ma è il mio amuleto, il mio tesoro, il mio segreto, il mio specchio, la mia perdizione. Tra l’inchiostro e la carta si nasconde un pezzo di me.
Chiudo gli occhi prima di iniziare; guardo in su e il mio sguardo si incrocia con quello che mi restiotuisce lo specchio macchiato dalla colonna di fronte. Mi blocca la metà del campo visivo della vetrata che dà sulla strada e mi ossequia con un po’ di tranquillità isolandomi dalla rumorosa capitale francese dell’heure de pointe.
E quasi involontariamente mi imbatto nel riflesso dei miei occhi color miele, che mi guardano con dissimulata attenzione. Come mi disse una volta qualcuno: non sono chiari e non sono scuri. Con la luce adatta sembrano due gocce di ambra. Luce. Sono tutti artifici della luce, come me qualche volta. E poi continuano a divagare sul riflesso, osservano i miei pesanti capelli neri corvino e la mia bocca dalle labbra rosse che si schiude per dare uno degli ultimi sorsi del cappuccino che la mia mano sostiene. Continuano a muoversi distrattamente e senza ripari. Ambra, corvino, marmo, rubino. Sono tutta contrasti, come scarabocchi neri su una pagina vuota. Sono tutta contrasti, confusioni e contraddizioni.
Ma soprattutto confusione, come quella nei miei occhi un paio di anni fa, quando i cerchi neri che li circondavano erano meno profondi, più ingenui, più pieni di illusioni. Me lo ricordo come se fosse ieri. Trentadue ore di viaggio non sono state l’unica cosa che ci è voluta per arrivare fin qui, né l’interminabile trambusto di Città del Messico, di Cancún, di Bruxelles… delle innumerevoli coincidenze, dei dieci mila chilometri che lasciavano indietro più di quanto credevo di aver accettato di rinunciare. Per questo non mi ero accalcata fra le orde di turisti, né dei borsaioli alla ricerca di un’occasione per mettere mano nella mia borsa zeppa di libri.
È così che ero riuscita a cancellare dalla mia mente tutti i “perché devi andarci?”, “sei troppo giovane” ed i “non sai a cosa vai incontro” che avevo sentito ultimamente così spesso e che mi riempivano di sensi di colpa, come se sognare fosse peccare, tradire. E mi dispiaceva davvero, lo deploravo tanto quanto lo desideravo. E dopo la porta di Neuilly avevo scoperto tutti quei marciapiedi sognati, pieni di gente dall’apparenza molto civilizzata, di donne eleganti come quelle da copertina.
Quanto lontano e quanto vicino allo stesso tempo. Quanto estranea mi sembrava quella ragazza così ingenua, estranea da questa che si contemplava allo specchio di una brasserie nel dix-septième, che cercava di scrivere a se stessa una risposta, che non sapeva di lasciare dietro di sé molto di più di un paese, una terra, una cultura e una famiglia. Che non sapeva di star congedando se stessa da ciò che voleva essere, da ciò che credeva di essere. Una ragazza che si era fatta più debole e più forte sotto il peso delle proprie domande, in un processo di autodistruzione e creazione.
Ho resistito al desiderio delle lacrime che cominciavano ad accumularsi negli occhi, combinazione di stress e frustrazione. Non volevo convertirmi in quella scena deprimente. Pagai e mi diressi a passi veloci verso l’entrata del tunnel. Per trovare il Saint-Lazare delle sei del pomeriggio che è simile a un sistema di orologeria oliata. I fiumi di gente fluiscono verso le diverse linee colorate senza un ordine apparente ma in perfetta sincronia. I viaggiatori conoscono la strada, i meandri, i passaggi e gli angoli da prendere o da evitare. Il tic-tac è ostacolato solo occasionalmente quando qualche intruso avanza lentamente per fermarsi a guardare i cartelli confusi che a volte ti fanno fare due o tre giri alla stazione. Credo li abbiano appesi così apposta. Per evitare i forestieri. Le scale mobili salgono e scendono lungo i numerosi piani del formicaio urbano. I treni verso Orléans, Champigny, la Normandia e Dio-Sa-Dove vanno e vengono carichi di lavoratori e studenti perché a St. Laz si vedono raramente dei turisti. Perché per quello c’è la linea uno o la sei. Perché per St. Laz transitano i prigionieri della routine quotidiana.
Ma oggi sono scappata dalla mia routine e sono finita alla linea 4, non so bene perché, forse per quella storia del grande ragno del mentore immaginario che visse qui, che morì qui, perché seguire i suoi passi dava l’impressione di avere un dialogo, di poter ottenere risposte a tutte le domande, compreso a quelle per cui non ero ancora pronta. La voce che annuncia “Arret suivant: Montparnasse-Bienvenue”. Una camminata di diciotto minuti quasi cronometrati fino ad una lapide tappezzata di biglietti della metro di oltre quarant’anni fa. Mi sono seduta di fronte ad essa con una calma sepolcrale. Per qualche ragione, non sembrava esserci testimone più adeguato.
Rimanere, andare, rimanere, andare… una ripetizione come un mantra, come sfogliare una margherita, come il toc-toc di una porta: inizialmente innocuo e insopportabile col protrarsi del tempo, in attesa di un’azione, di una risposta; un martellio nelle tempie. Tutto era molto più facile quando non c’erano delle decisioni da prendere.
Rimanere o andare. Così semplice da fare, ma così difficile da scegliere. Ogni cellula del mio corpo rimpiangeva le vecchie routine, le facce conosciute e la naturalezza con cui tutto fluiva sempre, senza dover verificare mentalmente una coniugazione o una pronuncia prima di pagare al supermercato. Ovviamente mi mancavano la mia famiglia ed i miei vecchi amici.
Ritornare era fuori discussione; non era più un’opzione. Ritornare era un fallimento; non per il mondo, non per il curriculum. Ma era deludere me stessa. Ma non era soltanto l’orgoglio ciò che mi tratteneva qui. Nulla sarebbe stato più lo stesso. I miei amici ora andavano al cinema con altra gente, con nuove facce. La mia famiglia aveva trovato nuove routine che avevano riempito lentamente il vuoto della mia assenza. Ma soprattutto, io non ero più la stessa che era salita su quell’aereo nell’agosto del 2016. I miei occhi e la mia mente ora erano una macchina fotografica che aveva cambiato lente. Il Messico sarebbe tanto sconosciuto quanto la Francia; la differenza è che ci sono poche cose più dure del sentirsi straniero nella propria terra.
Ritornare non era un’opzione, sebbene combattere fosse estenuante. Mi sono alzata e diretta lentamente verso la recinzione nera che si è chiusa dietro di me puntualmente alle sei, l’ora di chiusura. Il suono dei miei passi si perdeva nuovamente tra i sampietrini, fino a sparire alla fine della metropoli che nessuno può ne potrà mai asserire di capire completamente.