I racconti del Premio letterario Energheia

Di segni, d’altro_Giuseppe Autiero, Pedace(CS)

_Racconto finalista settima edizione Premio Energheia 2001.

 

Ho avuto un’infanzia tra matite e gomme.

Mentre i miei coetanei divagavano nelle cose, io disegnavo.

Sapevo cosa avrei fatto della vita, nella vita: il disegnatore; non capivo perché gli altri non avessero già scelto – perché scarabocchiassero gli album, sbandando a fare barchette.

L’ora di disegno era poco per me, ed arrivava a scadenze irregolari: mi costerno, alla scoperta che era un tappabuchi, allorché la maestra voleva scaldarsi alla stufetta. Quante attese, voti di fanciullezza – sprecati. Sorvolava la mia emozione, l’ora di disegno: il ciclo misterioso si compiva, riappariva: ma volava – era già finita. Ma se avevo appena impostato il disegno! Veniva dal tempo, nel tempo svaniva: ma dov’ero io, tra i due estremi? La maestra avrebbe fatto voti, perché gli scalmanati come Tobe avessero la mia astrazione: piegassero come me la testa, a spiare nuove prospettive della figura che emergeva, miracolo di grafite e biancore. I compagni aspettavano il rapimento per infliggermi scherzi: finita l’ora, sollevandomi dall’abbozzo, petali di carta nevicavano, o sentivo le scarpe saldate. La piantarono quando prese a difendermi Tobe: “Provassero con me!” – uggiolava di fantasie manesche. “Somiglia alla figura del libro?” – gli mostravo il disegno: linee, sbavature di cancellature. Mi mettevo alle sue spalle: a provarmi a vedere coi suoi occhi. “Non somiglia…” – anticipavo. Era la mia ossessione, la somiglianza del disegno alla figura. Cancellavo e ridisegnavo: il foglio si scanalava, si rompeva: linee sgommate a destra a sinistra, bande di oscillazione, per centrare la linea esatta, che sempre si sottraeva: postulato geometrico inattingibile. I critici parlerebbero di fase “riproduttivo-mimetica”: la mia prima fase. Disgraziatamente, anche l’ultima. L’ideale, quello degli anni disegnatori, sarebbe stato sovrapporre, sul vetro della finestra, il disegno al modello: e non distinguerli. Ovvio che non lo facessi: meno che mai a foglio bianco – sarebbe stato sacrilego disegnare così, l’ammissione d’una difficoltà insuperabile: del mio fallimento – come disegnatore, come uomo decenne. “E’ bello” – diceva Tobe – “Ma non farti sfottere!” Socchiudevo gli occhi: quell’operazione allontanava la prospettiva, mi estraniava un po’ dal disegno. Avessi potuto vederlo con altri occhi che i miei! Ero me e fuori di me, quando disegnavo – dunque avrei apprezzato il mio lavoro quando fossi stato capace di estraniarmene. A pensarci, che ossessione guardare sempre solo dal centro dei nostri occhi! Perseguivo due cose: fotocopiare le figure, e vederle con occhi diversi dai miei eppure miei, intimamente miei eppure altri. Il mio sguardo, reso “altro”, avrebbe mostrato nel disegno il mio io più vero. Le ore di disegno non potevano svanire così: erano certo confluite in una dimensione parallela, a formare l’Idea del mio io. Sono le sperimentazioni della fanciullezza: come girarsi di scatto per sorprendere l’angelo custode. Prove di esistenza.

Vedermi con altri occhi! Impossibile, come anticipare la fotocopiatrice. Eppure avvenne: alle scuole medie. Mentre cambio scuola, riferisco cosa e su cosa disegnavo: su qualsiasi superficie cartacea, scatole, biglietti, ecc. Odiavo lo spreco di carta: raccattavo ogni foglio, li spianavo, prima che il bidello pulisse, facevo una ripassata. Va da sé che ero il più bravo in disegno; che i miei lavori (quando, perfezionista, mi decidevo a licenziarli) erano esposti. Alle visite degli ispettori la maestra chiamava me: ero il migliore anche nelle altre ore, quelle che dilagavano tra un’ora di disegno e l’altra. All’ispezione rispondevo esatte sciocchezze: eroi ed eroine per lo più morenti, pronomi dimostrativi mai usati, ecc. Mai che uno chiedesse essenzialità: che colore usi per i visi? Sovrapponi rosa rosso bianco? vorresti dieci ore di disegno? Una volta un ispettore chiese i disegni: m’illuminai, la maestra già mi accennava, quando quello ghermì l’album di Tobe. Scoprendo così i suoi primi studi di anatomia femminile, abbozzi che m’avevano lasciato interdetto: “Ti piace?” – m’aveva chiesto.

Stringendo le palpebre, tentai una visione d’insieme di quell’intrico di curvilinee e zone scure: “Da quale sussidiario li hai presi? Non mi sembrano somiglianti…” “Somiglianti!” – sghignazza ancora oggi Tobe – “Che cazzo ne sapevi, tu, di quelle somiglianze?” Non che disegnassi per incomprensioni romantiche, non ero il genietto precoce: disegnavo Paperino, finché scoprii (alle medie appunto) i Supereroi. “Forti!” – commentò Tobe, che prese a fregarmi i Thor per mostrarli alle compagne. Perché alla scuola media trovammo loro, l’altra immensa metà del nostro piccolo cielo. E qualcosa cominciò a perdersi, delle mie capacità di astrazione. Ero sì entusiasta che l’ora fosse raddoppiata e prefissata – tutti i martedì e venerdì dalle 10 alle 11! – che l’insegnasse un disegnatore vero. Ma. (Strana parolina: un segno meno retroattivo). Continuavo, sì, a disegno-fotocopiare Supereroi. Uno zio insegnava all’Artistico – a volte ritoccava quei muscoli in rilievo, donava sinuosità michelangiolesche. Anche mio padre aveva il dono familiare: gli sottoponevo qualche volta, nervoso, uno dei rari disegni compiuti. Lodava: ma poi prendeva la matita!

Ma era allo zio, che mostravo i tanti incompiuti, a lui no: volevo che vedesse di cosa fossi capace, che l’apprezzasse perché compiuto! Non erano i miei occhi somiglianti ai suoi?

Non erano, i suoi, come altri miei occhi? Affrontavo la timidezza che mi ispirava perché illuso di aver trovato qualcuno che vedesse, fuori di me, i miei disegni, il mio io, le mie ore di concentrata fanciullezza, coi miei stessi occhi… Ma lui, ahimè, interveniva. Migliorava, certo, il disegno, ma sovrapponeva il suo segno al mio, i suoi minuti alle mie ore.

Lui era sempre fuori, non giocavamo mai: istanti, avemmo sempre, io e lui – non sarebbero valse le ore che mettevo nei disegni, a trasformare quegli attimi in tutto: un tempo fermo, una confidenza. Disegnava, in fretta. Mutava linee, cancellava ore. Non scopriva suo figlio, nel disegno: se lo nascondeva.

E mi nascondeva a me stesso. Aveva un senso innato per l’arte: organizzava mostre, conosceva Maestri. I pittori portavano i quadri a casa: era una rivelazione disimballarli. L’odore delle tempere, qualche volta toccavo la tela: granulosità, escrescenze indurite. La mia idea di arte quale pulizia esecutiva vacillava. Peggio quando li poggiavamo sul divano, i quadri: macchie difformi, i colori, disorganicità primitive.

Socchiudevo gli occhi: niente. Mio padre allora diceva che ogni quadro impone una distanza: mi tirava indietro – ed ecco apparire, dal caos cromatico, gesti di donna, uccelli meccanici. “Ti piacciono?” – chiedeva, mentre osservava: socchiudendo gli occhi – lui pure! Quando, nelle sale della mostra, diceva: “Quale?” – io puntavo il quadro più realistico, preartistico, un pastore, un paesaggio. “Sembra vero” – dicevo, esprimendo l’apprezzamento più entusiasta. Lui non commentava. Avrei voluto chiedergli: “A te, quale piace?” – ma non lo feci mai. Avremmo dovuto avere due infanzie diverse, lui ed io, perché quel ponte fosse gettato tra le nostre perplesse solitudini. Nessuno – ora so – gli aveva insegnato la lingua muta della comprensione, della tenerezza. In questo, lo riconosco profondamente mio padre: nell’incapacità di comunicare fino in fondo l’affetto. I miei preferiti non vinsero mai.

Vincevano i suoi. Lo scoprivo alla premiazione, perché premiate, che lui amava quelle astrazioni.

Una gara, alle medie! Solo quattro ore! Tema, un qualche eroismo patrio. Mi affrettai: linee, socchiuder d’occhi, sfregar di gomma. Non avevo un modello, stavolta: ma l’immaginativa era incisa da figure di sussidiari, eroi in tutte le pose, ed i Supereroi! Avessi avuto più tempo! Suonò una campana: così presto la prima ora? L’insegnante mi disse che era quella finale: si doveva consegnare! Mi dovette strappare il foglio: allontanandosi, il disegno sbiadì in cromatismi disorganici.

Ancora una volta avevo puntato sul perdente. Eppure il disegno fu lodato, meritò un terzo posto ex-aequo. Il docente si inalberò: o vincitore o… Così, niente, mio padre non mi vide sul palco. All’uscita chiese: “Il disegno?” Glielo mostrai. Le luci della sera finirono di sbiadirlo. Lui disse solo: “Se tu avessi avuto più tempo…”

Ma.

Ma il tempo stava per scadere: per quel disegno e per tutti gli altri. In classe, le ragazze si trincerarono sulla sinistra. Tobe, il suo tuffarsi tra loro con mani a piovra, non aveva favorito i contatti. Mi vergognavo di lui; disegnavo, a volte, solo per non vederlo: primo tradimento della disciplina del disegno. L’immagine femminile più ricorrente mi veniva dalle prime degustazioni artistiche: un ibrido tra Supereroine e timidette salvate dall’eroe – una creatura ambigua, ritrosa figurina stilnovistica ma capace di sussulti di azione, di sensualismi aggressivi. Continuo a pensare che le donne siano così. Gero, un nuovo compagno, disse alle ragazze che ero bravo a disegnare: i momenti di pausa nelle lezioni, durante i quali schizzavo il diario, divennero una tortura. Adescate da Gero, le ragazze varcavano il confine, per sbirciare alle mie spalle. Ora, un conto è che mi legassero le scarpe i rozzi delle elementari: tutt’altro sentire i commenti delle gentilissime.

L’atarassia, quando ti alita sul collo il sospiro delle Supereroine stilnovistiche? Esalarono domande: “Ma come fai?”, “Cos’è questo?” La matita si irrigidiva. Arrossivo, e non girarmi fu strategia di difesa, più che ritrosia d’artista. Ma vennero sul davanti, ad osservare me, la mia testa china, più che il disegno. Tobe le incitava, per svezzarmi. Le più audaci mi sedettero al fianco: a volte, dovevo scostare lunghi capelli dal foglio, per continuare. Serve dire che fu l’inizio della fine?

La fine della fine, fu quando venne la domanda fatidica, la più temuta, l’inevitabile: “Disègnami!” Una vocina mai sentita: comparve lei, lei iscrittasi in ritardo. La prima Nadia! “Sei capace di fare il mio ritratto?” Ed io, chino sul foglio – a chiedermi dove fosse finita quella pace nell’anima. “Disègnami!” Sospensione suprema: tutti aspettavano la risposta. Alzai gli occhi dal foglio, finalmente (le altre notarono che Nadia c’era riuscita, subito, a sollevarmi). La guardai. Come descrivere la prima volta che la tua Idea platonica di donna ti guarda, atterrata da lontananze iperuranie? Cosa rispondere se non “Madonna, vostro sono!”? Ma non risposi stilnovando. Dissi ciò che nessuno aveva previsto. Io meno che tutti. Qualcosa che disegnò una smorfietta sulle labbra di rosa.

“Nooo?” – gridò, poi, Tobe – “Ma perché le hai detto no?” Gero approvò: “Con le donne, così bisogna fare”. “E invece doveva dirle in un orecchio: nuda, ti disegno!” Continuarono a discutere, lasciandomi in pace, a chiedermi: perché avessi detto no a quel folgòre – perché sentivo che fosse l’unica risposta da darle. Da allora, disegnando, sentivo pesare lo sguardo di lei. “Ti guarda!” – ghignava Tobe, e Gero: “Non guardarla!”

Il peso dello sguardo di Nadia aprì il varco a una perplessità che covava. La sua richiesta aveva precipitato una crisi: era tempo che smettessi di fotocopiare – che disegnassi la realtà. Mi incitava il professore di disegno, persino mio padre, comparso una volta alle mie spalle: “Solleva gli occhi dal foglio!” Ma, appena li sollevavo, c’erano le due stilettate – le pupille di Nadia. Provai a disegnare a casa: mia madre mostrava i disegni alle amiche. Ma i complimenti ora mi infastidivano: “Sono copie! Fotocopie venute male!” Mi chiusi nello studio di mio padre: a catturare sul foglio la realtà, quella cosa che si coglie solo ad occhi sollevati. Presi una fotografia: due calciatori – eccola, la realtà! Squadrette, cartoncino: divisi la foto in quadratini, il cartone in quadratoni; diedi coordinate, e via! Linee seghettate: quadravo il cerchio del pallone, riducevo le magliette in ascisse e ordinate. Colorai coscienziosamente. Lo attaccai al muro, mi posi alla distanza esatta – laddove le seghettature si ammorbidivano in linee normali. Stavolta non avevo sbagliato linea o proporzione.

Somigliante: quasi una fotocopia. Perfetto ed orribile.

Vennero giorni tormentati. Arrivavo presto, a scuola. Sedevo alla cattedra, provavo a disegnare i banchi: arrivato al suo, mi bloccavo. Com’avrei potuto quando era occupato?

Nadia mi vedeva, matita in bocca, rovellarmi su fogli che restavano bianchi. Il mio “no”, lei, madonna dodicenne, lo aveva archiviato come reazione difensiva. Si faceva più sicura.

Un giorno arrivò in anticipo, poco dopo il mio arrivo, nella classe deserta. Sedette. Guancia nella mano, capelli sugli occhi: “Disègnami.” Voi cosa fareste? Tobe – lo so – mi suggerirà tatuaggi sui seni. Gero – immagino – teorizzerà di disegnare, e mostrarle il disegno del banco vuoto. Ma io, io non mefistofelico, non panico-orgiastico: io? Tracciai una prima linea: lieve, non il mio solito incidere – una carezza. Dal candore, un vanescente fantasma di grafite, un accenno della curva del volto. Alzai gli occhi – riguardai il disegno. E ci lessi il mio amore. Era quel che lei voleva? Spingermi a confessare nel solo modo che sapevo? Aveva intuito la mia crisi di passaggio, forse di crescita: e mi spingeva – alla realtà, a lei, alla vita. Mi diceva: sono qui, dinanzi a te, nello splendore dei miei dodici anni – non abbiamo che questi, di anni: viviamoli.

Vedi come resto ferma, nel tempo che corre e ci divora, per offrirmi al tuo segno. Disègnami, e fa’ che legga in quel tratto il mio amore per te nel tuo amore per me. Sarai disegnatore, non puoi essere che quello, tanto amore metti nei tuoi segni: diventerai un pittore, un architetto che sognerà palazzi aerei favole. Basta che tu lo voglia, che tu scelga me nel mio scegliere te…

Si avvicinò. Sorrise: della matita ferma, della mia bocca aperta. Vide quell’unico tratto. Lo osservammo insieme: e miracolo avvenne. Lo vedevo coi miei occhi, vedevo me stesso ed il mio amore. Ed al contempo lo vedevo coi suoi occhi, capivo che lei aveva capito cosa avessi voluto esprimere. Chi fossi. Lo prese, come una promessa.

Ma venne l’estemporanea di pittura. E tutto cambiò. Fui inscatolato in uno scuolabus, con altre promesse disegnatorie: ci scaricarono ai piedi del castello. Laggiù, la città azzurrina: una prova, per me. Brandii la matita, mentre gli altri già scartocciavano panini. Un fico si interponeva: l’idea era disegnare le case tra le foglie. Ma mi scoraggiai presto: quante cose c’erano, nella realtà! Ogni foglia era diversa, poi si muovevano ad ogni zefiro! Ripensai all’essenzialità, alla pienezza del ritratto di Nadia. Sarei stato capace di racchiudere tutto in un solo tratto? La mia mano tornò ad incidere il foglio: cancellare e rifare. Ma: “Vieni, esploriamo il castello!” – mi trascinarono nella grande corte buia. Una luce, da un lato. E lì, inscritta in un arco acuto, profilo contro l’azzurro, lei! Nadia? Nadia! Epifania seconda della Nadietà iperurania. Lei si sporse al davanzale: nella semioscurità, brillò un biancore. (Tobe poi chiosò: “Le mutandine!”) Strappai le foglie di fico (ora non pensate ad Adamo), disegnai riscoprendo leggerezze di tratto: un arco acuto di cielo, il profilo accennato di due cosce dodicenni, un arco di elastico. Nadia era figlia del custode del castello: giocammo a nascondino, soli, tra le pietre immobili del medioevo. Il tramonto venne come un tradimento.

Sentii il clacson dello scuolabus.

Lei disse: “Hai fatto il mio ritratto… me lo fai vedere?”

“No!” – gridai.

Sorrise, sussurrò: “Ti ho chiesto di disegnarmi, una volta. Ora non sono sicura di volere questo da te.”

“La realtà… non ci riesco, a disegnarla… troppe cose…”

“C’è chi la disegna, la vita, e chi…” Un richiamo: lei si volse, svanì tra le antiche pietre, nel passato.

“Com’erano, le mutandine?” – chiese Tobe. Gero rifletteva:

“C’è chi la disegna, la vita… Forse Nadia non vuol più che disegni… lei, e tutto…”

“Non disegnare più?”

Passati decenni, è successo. Non ho più disegnato. Nuove compagne mi chiedevano ritratti: ma la Nadietà non si manifestò, al Liceo. La prima Nadia, dopo una breve liaison con Gero in seconda media, cambiò scuola. Seppi che la famiglia gestiva una salumeria: decisi che era un negozio situato in una certa piazza. Prima di partire per l’università, ci entrai.

Una figurina bianca, là in fondo, al bancone. Uscii a precipizio.

Lassù, il castello: ci pensai, a cercare la figlia del castellano. Ma non ci andai. Di loro due, di Nadia, mi restano una linea del viso ed una snellezza di cosce. Saprei ridisegnarle. Nel tempo, un’altra (l’ultima?) Nadia mi chiese ancora un ritratto. Tobe le aveva scattato una diapositiva: me la diede, ma avvertì: “O ti muovi, o me la scopo io.” Posi un foglio sotto il fascio del diaproiettore. Seguii i contorni: non incidevo, né pattinavo. Colorai coscienziosamente. Mi posi alla distanza giusta: Nadia, senza dubbio. Un disegno perfetto, ed orribile.

Fu l’ultima presenza di Nadia. Dopo, divenne sempre più evanescente, disincarnata: mi sembra a volte di intravederla – nel riflesso di una vetrina, o dietro i vetri rigati di pioggia di un autobus che riparte. – E la cartella dei disegni? La regalai a colei che sarebbe diventata mia moglie. A lei, che mai è stata Nadia. Tra gli altri, il disegno della castellana e la copia del viso di Nadia.

“Chi è?” – unificò lei.

“Disegni”- risposi – “Segni. Sogni. Non realtà.”

Non so se lei abbia compreso il senso di quel regalo.

Capirà ora, nel leggere queste pagine. Li mostrava ai suoi parenti, i disegni. “Cos’è?” – mi chiede una zia, indicando un Supereroe. – “E’ un disegno di Frazetta… di Kirby…” Dicono: “Tutto questo tempo, perso a disegnare…” E ripenso: cosa voleva da me la prima Nadia, cosa la seconda, l’ultima. Penso alla sofferenza degli artisti, alle scelte che ogni vero impegno impone. Faccio un fascio solo, e rispondo: “Ero molto tranquillo, quando disegnavo”.

Oggi solo mia figlia, qualche volta, mi chiede di disegnare. Torno a chinarmi sul foglio. Tocchi leggeri, un pattinare senza meta sul bianco. Lei, il musetto dubbioso, mentre considera il disegno. Poi dice: “Non somiglia a niente”.