Diario di un Oceano, Roberta Beccaria_San Pietro Val Lemina(TO)
Miglior racconto da sceneggiare Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione giovani
Pagina prima
Mare calmo, vento teso. Vento a poppa. Vele piene di quel respiro di Tramontana. La linea dell’orizzonte inghiottiva il sole al tramonto e tutto era tranquillo. L’albero maestro fischiava sotto i graffi del vento e al suo stridere si mischiavano le loro voci.
Eran tutti sul metro e settanta, scuri di colori. Alcuni già dormivano sottocoperta, altri erano usciti e lasciavano che la salsedine gli mangiasse la pelle rovinata mentre guardavano quella piccola falce di luna di cui si vedeva solo la timida sagoma. Il timoniere si sentiva il solo e unico possessore del mare: teneva fiero il timone, immobile e saldo nella sua durezza consumata. Altri misuravano il galeone con passi sfaccendati, senza scopo. Dalla prua si levavano canti grotteschi e sfavillii di metalli. Ognuno tentava di fuggire dai propri demoni immergendosi in futili distrazioni. Ma c’è chi corre veloce e chi non ha le gambe.
Uno solo. Sembrava un martire del mare. No. Sembrava mare. Non era più uomo, non più ladro, non più pirata, non più figlio. Era mare.
Era nato sulla Lady Mary da una madre che lo abbandonò al suo primo respiro e sulla Lady Mary era cresciuto solo in mezzo a vecchi lupi di mare, o pirati, ognuno chiama le cose come gli pare. Lui però non li chiamava proprio. E nessuno chiamava lui perché non aveva un nome. Era passato, muto, da un galeone all’altro combattendo, rubando, spargendo sangue, bevendo come un pirata beve, ma senza mai esser parte di nulla, neanche di sé stesso. Solo del mare.
Adesso osservava quello che pensava essere il suo riflesso vacillare tra la schiuma bianca e l’onda stanca prodotta dalla carena. Era buffo. In realtà non vedeva proprio niente. Guardava il mare e si vedeva senza vedersi perché il sole era basso e non permetteva riflessi.
Girò gli occhi a prua, verso il timoniere. Non si curava di lui, pensava a godersi la sua fierezza davanti al tramonto. Meglio, pensò. Girò gli occhi a poppa, verso i compagni ubriachi che intonavano canti sconnessi. Non si curavano di lui, pensavano ad affogare la consapevolezza che prima o poi li avrebbero arrestati. Tutti quanti. Meglio, pensò. Alzò lo sguardo su uno degli alberi. C’era un gabbiano. Lo fissava. Ma dopotutto era un gabbiano. Non fa niente, pensò.
Guardò il mare e lo desiderò nella maniera più vorace possibile. Io devo andarci. Lo disse ad alta voce e solennemente, come se stesse pronunciando l’ultima sentenza della sua vita. Lo era.
Silenziosamente, come se stesse fluttuando nella leggerezza di una decisione ormai presa, si avvicinò con passo indifferente alla prua. Scavalcò i compagni rumorosi, per i quali, al momento, era invisibile. Ognuno era immerso nella propria bottiglia. Iniziò a camminare spedito sul bompresso come se fosse un’abitudine ormai consolidata, una passeggiata quotidiana. Lo faceva con una leggerezza allarmante, tanto che fece risvegliare gli altri dal loro “sonno”. Si accorsero di lui. Sembra nato per camminare là sopra, aveva pensato il più ubriaco. Tutti guardavano ma nessuno fiatava. L’unico rumore era quello della follia di un uomo che si era sempre sentito mare. Si fermò al limite del bompresso, bagnato e scivoloso, di un legno scuro e consumato.
Mare calmo, vento teso. Vento a poppa. Vele tese. Tramontana. Sole Orizzonte Luna Tramonto. Silenzio.
…
Non si guardò neanche indietro. Senza esitazione. Follia. Gli bastò un passo. Follia. Oceano. Si lasciò cadere e non risalì mai più. Tornò a me.
Era nato per questo.
Pagina seconda
Arrivava da lontano la conoscenza del mare e si presentava sotto forma di rughe di salsedine scavate sul volto increspato di quel marinaio.
Non era ancora guarito da certi segni indelebili, incisi nell’anima. Non era guarito da naufragi, da tempeste, onde immense e travolgenti, dalla schiuma bianca sullo scafo, dagli schizzi che si schiantavano sul volto come perle di ghiaccio, dal corpo scosso dal vento del nord.
Un mare iracondo.
Un mare, però, altrettanto placido.
Infatti, non era guarito neanche dal rumore incessante, calmo, soporifero dello sciabordio. Dal continuo rintocco della pioggia su un letto spianato fatto di nulla, dove tutto sembrava fluttuare invece di galleggiare. Un inviso, placido, nemico.
Non era guarito, non si era salvato -e la portava agli altri, la sua malattia. Non parlava, non gliela raccontava. Gli occhi, sempre socchiusi custodivano, voraci, i segreti dei più profondi e scuri abissi. Le palpebre si erano ingrigite e portavano il peso della stanchezza di una vita, sembravano essere di piombo. Gli abitanti di quel borgo dove il vecchio marinaio viveva ormai inerte sotto il macigno degli anni giocavano a scommettere sul colore dei suoi occhi.
Sicuramente nessuno avrebbe mai detto che i suoi occhi fossero marroni, pensavano, piuttosto, che avessero preso il colore del mare. Forse era così, forse erano blu, della tonalità di un fondale sereno. O forse erano neri e portavano il colore di un naufragio notturno. E se fossero stati verdi?
Nessuno lo sapeva. Lo sguardo era basso, stanco, si piegava sotto il mare che ancora premeva. E premeva. Premeva. Non lasciava tregua. Quell’uomo, che tante volte era finito con la testa sott’acqua, sembrava aver dato il suo ultimo addio alla superficie durante un’“ultima volta” che nessuno sapeva essere l’ultima. Nessuno a parte lui. E il mare. Probabilmente fu come vendere l’anima al diavolo, ma con più consapevolezza. Perché il diavolo, prima di prendersi tutto di te, ti lascia scegliere. Il mare no.
Io attendo lo sfinimento, attendo per rubarti l’ultimo respiro, esalato con rassegnazione. E succede che un giorno metti la testa sott’acqua, travolto da un’onda violenta o accolto nel grembo di una distesa calma e salata e riemergi che non ti rimane altro che corpo. L’anima, il respiro, la linfa vitale, non appartengono più a nessuno se non a me. E nessuno se ne accorge sul momento, ma poi si ritrovano davanti a un marinaio che non parla e si fissa le mani consumate mentre si passa tra le dita una moneta, come se quella fosse una medaglia vergognosa, un attestato che dice “l’Oceano: ha tutto lui ciò che è mio”.
Ho tutto io ciò che è suo.
Pagina terza
Maneggiava i colori come se avesse fretta. Intingeva i pennelli sempre nelle stesse tonalità: quelle del mare. Dipingeva sulla spiaggia, ogni giorno nello stesso punto. A separare la tela e il bagnasciuga erano pochi passi ma erano stati calcolati con tanta meticolosa precisione che neanche le maree più esuberanti bagnavano mai il cavalletto.
La sua sfida era dipingere il mare. Aveva iniziato minuziosamente ma da quando si era resa conto che non è possibile dipingere il mare sedeva sul suo sgabellino e, quasi con rabbia, schiantava pennellate insofferenti su quelle tele bianche.
Le sue giornate avevano un ordine e un’organizzazione che si potrebbero definire affascinanti; tutto era programmato, i tempi calcolati, le passioni razionalmente regolate. Il momento della pittura era un’anomala crepa di follia nella regolarità levigata della perfezione quotidiana. Per questo non voleva mai essere vista nel suo esercizio: non sembrava lei, non era più una giovane ragazza, quasi si imbruttiva, i suoi movimenti erano scomposti e scoordinati. Il movimento della sua testa sembrava seguire il ritmo del ticchettio di un orologio. Sollevava la testa per guardare il mare e poi la riabbassava sulla tela innumerevoli volte prima di stendere anche solo una pennellata. Mare, tela. Mare, tela. Mare, tela. Tic, tac. Tic, tac. Tic, tac. Un ritmo frenetico. Poi accennava giusto una sbavatura di colore e si ripeteva il rituale. Un orologio.
Dalla prima volta che si era seduta davanti al mare, con pennelli e colori che sarebbero rimasti i medesimi per il resto della sua vita, era passato tanto tempo. Quel desiderio di dipingere il mare era diventato sfida e poi ossessione. Nelle ossessioni ci si invecchia e la sua, di vecchiaia, sembrava averla brutalmente deformata -nei modi e nello spirito. Certo, continuava a seguire, impeccabile, il flusso delle sue abitudini e del suo perfetto razionalismo: a vederla da fuori sembrava un’anziana signora placata dal peso degli anni ma sempre lucida, sempre meticolosa e precisa. Eppure, continuava a recarsi a pochi passi dal bagnasciuga con la sua attrezzatura. Continuava a distruggere tele quasi immacolate alimentando la sua follia ad ogni seduta. Continuava a pensare che non poteva morire senza sapere come si disegna il mare.
Come si disegna il mare?
Vidi l’esatto momento, attimo impercettibile, in cui quella donna si risolse. Aveva passato anni della sua vita a sprecare la sua follia per me. Dipingere il mare, ora l’aveva capito, non è come fare un ritratto. Un volto ha un limite indiscutibile, contorni incontestabili. Dipingere il viso di una persona è una procedura estremamente tecnica, una scienza esatta. Un volto ha un limite.
Invece, dove si ferma il mare? Dove si trova il suo limite? Dove finisce? Come si può percepire come reale quell’istante in cui si ferma a baciare la spiaggia? Che poi… davvero si ferma? No, il mare non si ferma.
Fu un’intuizione. La vecchia smise di muovere freneticamente il capo, cessò ogni movimento rozzo e scoordinato, la follia smise di dettare; raccolse le sue ultime forze e si diresse verso il mare con un pennello mai utilizzato prima (l’aveva conservato incontaminato dai suoi eccessi in un’atto di scaramanzia). Entrò nell’acqua fredda fino all’altezza del polpaccio, i suoi pantaloni di lino si inzupparono e aderirono alla gamba rivestendola di una pellicola bianca. Si chinò a fatica verso l’acqua mentre le onde le si infrangevano sulle cosce bagnandole il ventre. Allungò il braccio e immerse la punta del pennello nell’acqua poi tornò alla tela avanzando passi lenti che sprofondavano nella sabbia. Scelse un punto e decise che avrebbe iniziato da lì. Disegnò acqua salata. Stava dipingendo il mare con il mare. L’aveva capito. Quello era l’unico modo per farlo.
L’aveva capito. Sono infinito. Sono rumore incessante, eterno, vivo. Sono onda che si concede alla sabbia, la stringe in un attimo inafferrabile e si ferma per la durata di un battito d’ali, poi riprende il suo viaggio e l’abbandona.
Potenza corrosiva, culla di pensieri. Sono mare.
Emblema del cambiamento. Sono mare.
Mare che è specchio del cielo e ne prende le sembianze: nero petrolio quando abbraccia la notte, pioggia di argento quando sfiora le nuvole, infuocato di mille colori quando il sole bacia le dune.
Increspato quando il vento mi percuote ed io percuoto lui, distesa placida in quelle giornate immobili, forato da proiettili quando ricado su me stesso in tempesta. Bianco di schiuma,
esondante. Sempre.
Mille forme e colori. Mai fermo. Mai identico a me stesso eppure con indiscutibile identità.
Sono mare.
Ispirazione di poeti, ventre di Afrodite, punizione di Dio, sacrificio necessario per chi osa sfidarmi.
Sono mare.
È mare.
È amare. È amarlo.