Digito a Papà_Domenico Menna, Roma
_Racconto vincitore quinta edizione Premio Energheia_1999.
_Menzione Giuria miglior racconto da sceneggiare quinta edizione Premio Energheia 1999.
“Papà, anche io come Giorgio Manganelli (lo scrittore) detesto il concetto di “vacanza intelligente”, “mi pare presupponga che l’ anno sia tutto idiota, eccetto quei quaranta giorni”…”
“Ciccio, allora che vuoi fare? Per non far sembrare idiota l’anno, preferisci andare al mare con palette e secchielli…?”
“Non lo so, papà. Però a ben rifletterci, mi mancano, sai, le palette ed i secchielletti dell’infanzia. Ricordi? Quando non c’erano ancora Felicia e Veronica. Tu, la mamma ed io a Fregene… Ricordi come ci divertivamo a fare, tra le risate, castelli di sabbia…”
“Castelli di sabbia… Piccolo mio lascia perdere i castelli, le fantasticherie di granelli di sabbia che il mare spazza e porta via. La vita è così, ne abbiamo parlato tante volte… Pensiamo piuttosto a quest’estate, organizziamo le vacanze, intelligenti o meno, per stare un po’ assieme…”
– “Francesco, è pronto in tavola, vieni!”, chiama la mamma dalla cucina.
– “Arrivo mamma”, rispondo.
“Papà – scrivo – devo lasciarti. E’ pronta la cena. Ti digito domani. Un abbraccio.” Invio l’ultima e-mail e corro a tavola.
Papà e mamma sono separati da sette anni. Avevo 8 anni quando papà fece le valigie.
Si fece trasferire dalla ditta alla filiale di Milano. Lì vive con la sua compagna Marta, la ex baby-sitter delle mie sorelle Felicia e Veronica (che oggi hanno rispettivamente 11 e 9 anni). Noi ragazzi e la mamma siamo rimasti a Roma, nella casa di sempre. E tutto mi ricorda i giorni felici, la “famiglia” intera, che sembrava una costruzione dalle fondamenta solide e che invece l’uragano ha spazzato via.
“Sì, papà – penso – lascio perdere i sogni di sabbia. Tu hai fatto le tue scelte. La vita è tua, non sta a me giudicarti…”
Mamma – mentre mangio e “penso” – mi guarda e non parla. Non ho mai compreso se disapprovi o meno il rapporto quotidiano instaurato via Internet con papà. Non ne abbiamo mai parlato. Per lei, Guglielmo (papà) è morto e sepolto, non fa mai accenno a lui. La separazione l’ha vissuta male, aspramente.
La notte – lo so – beve. Mi guarda sbocconcellare la carne, distrattamente.
– “Hai scritto a papà?”, rompe ad un tratto il silenzio la piccola Veronica. Felicia gli lancia un’occhiataccia. Arrossisco, non so perché, mi sento colto in flagranza di reato.
– “Sì”, dico con un filo di voce.
– “E che ha detto, come sta, quando viene?”, incalza. Felicia dà un calcio sotto il tavolo alla sorella.
Digito a papà tutte le sere, alle otto, poco prima di cena. Con papà ho preso l’abitudine di dialogare via Internet. Lui a Milano, io a Roma in famiglia, “parliamo” attraverso la tastiera. Comunichiamo. A modo nostro abbiamo riscoperto e rivitalizzato il rapporto padre-figlio che era stato compromesso dalla separazione e dalla lontanza. Papà non manca mai all’appuntamento, dovunque sia. Dal pc di casa o dal portatile se è fuori Milano per lavoro, mi legge e risponde, mi chiede e rispondo. Sì, comunichiamo in modo molto personale. E, lo confesso, questo rapporto “intimo” con mio padre mi piace, mi fa star bene, mi fa sentire la presenza paterna. Avremmo potuto rendere più sofisticata la nostra “conversazione”, con la telecamera, la chat o qualche altra diavoleria. Ma, pur non avendone parlato espressamente, abbiamo preferito questa forma telematica “primordiale” di comunicazione. Messaggi di posta elettronica – qualche volta una foto allegata (raramente) – che corrono alle otto di sera, veloci come la luce da Milano a Roma, da Roma a Milano.
Un rapporto epistolare prezioso. Le parole scritte racchiudono i sentimenti, sono concrete, visibili, palpabili. Le vedi formarsi sullo schermo, gli dai la voce della persona amata, le sfumature, i colori delle emozioni…
“Parlo” a Papà ed un po’ parlo anche a me stesso. E così è per papà. Si comunica all’altro ma anche a se stessi. E’ questo il bello di Internet, della tastiera.
“Sai papà, la mamma beve. Si ubriaca; ho visto la bottiglia nascosta. La vedo perdersi, annegare nel nulla e mi fa male. Non voglio darti colpe… però ho bisogno di parlartene. Capisci?”
“Figliolo, la mamma è fragile. Ha bisogno di aiuto, perché non le stai vicino, non le parli?”
“E come faccio? Le metto un pc in cucina, tra le pentole ed i piatti? Io senza Internet non so comunicare, sono una frana!”
Mamma mi chiama Francesco, papà preferisce affibbiarmi il diminutivo di Ciccio. Mi sdoppio anche nel nome.
Con papà lontano centinaia di chilometri comunico costantemente.
Tra mamma e me, pur vivendo nella stessa casa, c’è invece un muro di gomma, impalpabile ma c’è. I nostri silenzi rimbalzano sulla gomma…
“Ciccio – annota papà – vorrei un figlio da Marta, tu che dici? Lo so, detto così per Internet è un po’ brutale; ma ho bisogno di “famiglia”, di ricostruire sulle macerie… Capisci? Con Marta sto bene, ho ritrovato equilibrio, amore, passione. Prima la mia vita era una lampadina spenta, inanimata; oggi emetto luce. Però, Ciccio, mi manca un figlio. Sì anche per giocare con palette e secchielli. Che dici?”
“Papà, preferisco parlare delle vacanze intelligenti. Passo e chiudo e ti risparmio l’incazzatura.” Invio l’ultima e-mail della serata e chiudo il collegamento per un’altra cena con tv e silenzi. Sì, mi sono chiuso nel mio mondo, nella mia stanza, nei miei silenzi, con il poster di Maradona, lo stereo ed il personal computer.
Al di là della “frontiera” con la mia tana, con il mio rifugio, c’è una famiglia in frantumi. E quello lì vuol ricostruire sulle macerie!
Qui è peggio della Serbia, gli aerei invisibili hanno raso al suolo la nostra vita in comune. E quello lì vuole un figlio!
“Papà – digito incazzato – come la prenderebbe mamma (la mia mamma) la notizia di un figlio (un tuo figlio)? E Felicia, e Veronica? Non pensi a loro? Sentono la mancanza della figura paterna. Qui va tutto a rotoli e tu mi parli della tua felicità! Sei egoista!”
“Figliolo, diventi tu egoista, se vuoi impedirmi di vivere la mia vita. La felicità non è una chimera, si conquista giorno dopo giorno, si strappa al destino, a morsi. Si conquista a brandelli. Io provo a ricostruire, perché non lo fa anche la mamma? Sì, ho sbagliato. Ma non sono il solo, non puoi colpevolizzarmi. Sappi, figliolo, che in un rapporto di coppia si sbaglia sempre in due. Farebbe bene alla tua felicità sapere che anche papà è infelice, magari beve e si ubriaca? E’ questo che vuoi? Come si dice: “mal comune, mezzo gaudio”! Non troncare la conversazione, ti prego.”
“Non lo so papà. Sono confuso. Sono arrabbiato. Sono geloso. Sì, lo confesso, mi fa rabbia pensare che un bimbo ti stringa, cresca tra le tue braccia, “ascolti” la tua voce e non si accontenti di e-mail. Lo odio questo fratellastro ancor prima che sia concepito. Odio la sua felicità, i suoi castelli di sabbia, le sue, le tue risate… Tu, Marta ed il fratellastro… e se incontri un’altra, che fai, digiti anche al fratellastro? Magari ad appuntamenti sfalsati; uno alle sette, uno alle otto… Ti costerà cara la bolletta telefonica…”
“Non essere sarcastico, Ciccio. Allora quando ti sposerai e avrai un figlio tuo, che dovrò dirti? Ti dovrò dire che sono geloso del rapporto tra te e tuo figlio? No, Ciccio. Si ama una persona pensandola felice, realizzata. Augurandosi che “morsichi” la felicità. Io voglio la tua felicità, voglio che tu sia più fortunato di me. Vuoi che non lo sappia che coloro che hanno fatto le spese dei dissapori tra me e mamma, siete voi tre, tu e le tue sorelle.”
“Dissapori? Mi sembra un po’ riduttivo. Urla e piatti rotti. Litigi colossali che noi tre bambini, vivevamo stretti l’uno all’altro. Che ne sai del nostro dolore? Della sofferenza per la vostra separazione? Che ne sai dei mutismi di mamma?… Tu fai tutto facile; si sbaglia in due e… amen. Ma noi ragazzi che c’entriamo? Tu e la mamma avete distrutto tutto. Vedo solo macerie nella mia casa e questo fottuto pc che non sa darmi risposte adeguate. Non voglio che bevi anche tu, non voglio che ti colpevolizzi. Vorrei che anche la mamma uscisse dalla sua tana (la bottiglia) trovasse un uomo, cercasse bocconi di felicità. Magari che facesse un figlio anche lei. Un’altra bambina però no, non la sopporterei. Ci sono fin troppe donne in questa casa! Mamma con un altro! Due padri, uno a Roma ed uno a Milano… sai che divertimento!.”
Gironzolo intorno a mamma. Non parlo, tocco i soprammobili, fischietto, faccio il cretino. Ecco tutto. Mamma cucina e mi guarda sott’occhi, senza parlare.
Proviamo a comunicare, a lanciare un ponte tra le nostre sponde di gomma. Poi, d’istinto, l’abbraccio, la tengo stretta stretta a me, sempre nel silenzio più assoluto.
– “Fammi andare, Francesco – dice alla fine – che si brucia la cena.”
E si asciuga gli occhi con il grembiule.
– “Grazie, mamma.”
– “Grazie… di che?”
– “Di essere qui, di cucinare la cena, di pagarmi le bollette del telefono. Grazie di amarmi, di farmi crescere. Grazie di essermi vicino. Ti voglio bene mamma.”
“Papà, come diceva Totò, “ogni limite ha una pazienza!”. Sai, al di là della battuta da guitto, è proprio così. Sto comprendendo che si può separare il limite, il “confine” tra noi e gli altri, con la pazienza, con la comprensione, facendo il primo passo. Sai funziona. Sto cominciando a parlare con la mamma. Parole, in verità, ne dico poche, ma mi sono avvicinato, ho superato il “limite” che ci divideva. Ho abbracciato la mamma, le ho detto che le voglio bene, che non è sola. Ha me, ha le bimbe; insomma ha una famiglia presente, vitale, su cui appoggiarsi.”
“Ciccio, è vero. Ci vuole “pazienza” nei rapporti con gli altri, con chi si ama, comprendendo anche la “pazienza” degli altri nei nostri confronti. Forse io ne ho avuta poca. Forse avrei dovuto essere più paziente. Non so. Sono fiero di te, figlio mio.”
Felicia ha sofferto, soffre ancora molto per la “partenza” di papà. E’ una ragazzina solare, è allegra, è un punto di riferimento per la famiglia.
Ma l’allegria è la scorza. La solarità è in superficie. La sensibilità accentuata che possiede, la porta a nascondere i sentimenti, per non far preoccupare o turbare chi le vuol bene.
Lei, dentro, soffre e lacrime d’amore a volte sgorgano, repentinamente soffocate nell’allegria.
Mentre digito a papà, Felicia appare timidamente, discretamente alle mie spalle. Io scrivo, lei guarda, mentre il funky-rap del nuovo compact disc di Jovanotti, “Capo Horn”, espande calde sonorità su una delle solite serate romane. Jovanotti racconta di un bambino che insegue la sua ombra, così come tutti noi seguiamo il nostro destino… “E il resto – canta – va da sé e non lo so.”
“Un giorno ho visto uno che leggeva al contrario – canta ancora – gli ho chiesto scusa che stai facendo? Mi ha detto ho letto libri per tutta la vita e adesso io li sto cancellando, li rileggo tutti quanti al contrario, dimenticando quello che so.”
Signori è funky, è musica, è vita.
– “Felicia, ti andrebbe di salutare papà?”
– “Davvero posso?”
– “Certo, piccola; la tastiera è tua.”
A volte basta così poco per far felice chi si vuol bene!
“Papà – penso – questa sera non ci saranno colloqui tra di noi, non è giusto monopolizzarti. Sei “mio”, ma anche di Felicia, di Veronica e magari del fratellino milanese che verrà. Ed è bene che me ne faccia una ragione.”
Jovanotti continua a cantare, mentre Felicia scrive a papà. Io invece vado ad inseguire la mia ombra in salone.
“Sei una nave in mezzo al mare, il vento soffia dove vuole…” Il CD di Jovanotti è ancora la colonna sonora della mia vita.
Guardo il mare di Fregene, mentre Eolo sbuffa brezza e salsedine.
Osservo la spiaggia deserta e non la vedo.
Vedo invece un bambino felice con la sua paletta ed il secchiello che scava, scava. Tra la calca, tra i raggi solari, tra le risate… Il bambino gioca ed osserva i genitori felici che si abbracciano; la mamma con il pancione, in attesa non si sa di che (cose da grandi, dicono papà e mamma e ridono). Che belli quei genitori innamorati che si scambiano coccole e risate, mentre il bambino scava, alla ricerca del pozzo dei desideri… Il vento soffia dove vuole ed il mare si increspa. Prendo un sasso e lo lancio sull’acqua. Osservo i cerchi concentrici che si formano a pelo d’acqua e subito svaniscono.
Svaniscono i cerchi, svanisce il bambino con le palette, svaniscono i sogni. Resta solo la brezza che accarezza il casco mentre, in motorino, torno a casa.
Canto al vento.