Due autori a confronto
di Nunzio Festa
_Se fossi fuoco, arderei Firenze, di Vanni Santoni, Laterza (Bari, 2012); Bar Atlantic, di Bruno Osimo, Marcos y Marcos (Milano, 2012).
I gambrini, per inteso, coi ragazzi di vita nulla han a che fare. Nonostante Vanni Santoni, in un passaggio alquanto istrionico ma pur sempre e semplicemente sempre estroso di “Se fossi foco, arderei Firenze”, citi il poeta del fazzoletto rosso. Mentre una delle tante voci, accompagnate dalla voce principale, ancorché esterna la seconda, fa il giro di boa in una delle traverse della capitale del Rinascimento. Una scorribanda senza corsa cominciata da uno studente di lettere e proseguita da una straniera allampanata. Che a sua volta finisce nello squardo del giovane che spera e spererà che un giorno il suo presidiare il Gabinetto Viesseux si trasformi nella casuale non casualità d’incrociare un grande e affermato che si voglia affidare ai suoi servigi di studioso in erba. Prima che dal Gambrinus, un gambrino si faccia ingoiare dalla foga di scrivere grazie a un gruppo di lettori e scrittori giovani che dedicano parte del loro tempo libero a queste attività dello ‘spirito’ e della “vita”. Duccio, insomma, potrebbe esser nato dappertutto. Ma solamente a Firenze avrebbe potuto farsi sfregare dai passaggi di Santa Croce e l’Oltrarno. Duccio in qualsiasi altra città avrebbe potuto conoscere la redazione sotterranea che gli fa amare la scrittura, eppure solamente nel capoluogo toscano è spiato dalla Stazione Leopolda. La traccia del romanzo ha poco da darci; non che sia frivola: più che altro per il fatto che veramente i personaggi sono troppo abbozzati. C’arrivano, quindi, di fronte in forma di scarabocchio. Eppure quel che vivono potrete trovarlo in giro, a ben vedere. A incuriosirsi di certi ambienti. Perché si devono amare le tentazioni d’arte per assecondare gli istinti dei protagonisti del libro di Santoni. Il quale, dal suo canto, registra la vitalità e le fiacchezze d’una città da toglier di cartolina. E, adesso, chiediamoci, con una guida romanzata sulla Firenze che fu medicea come attacca il “Bar Atlantic” di Bruno Osimo? E noi, al dunque, da cinta ci mettiamo il superlativo spettacolo teatrale di Renzo Martinelli interpretato a Matera da Federica Fracassi e Guido Baldoni, dall’omonimo libro d’Aldo Nove, “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…”. E state per comprenderne la ragione. La precarietà dei giovani fiorentini, il precariato agito sotto al Gambrini dai gambrini e le esperienze fatte rivivere da Fracassi e Baldoni per via di Nove e Martinelli, sono praticamente l’altra faccia della trama-storia-vicenda dell’Adàm dell’ultimo libro del traduttore e cultore dell’ebraico Osimo. Un professionista dell’insegnamento che deve, materia che affronta con una certa apparente dose di tranquillità, divincolarsi tra treni e città del Settentrione italiota delle sedi universitarie nelle quali arriva a dar lezioni e sesso. Ebraico e sesso accanito. Mentre la moglie Ada, per lui Hhava attende a casa e il pene garantito durante il sonno insieme a un’altra mole di riti domestici. Ada, Paola, Monìca, Teresa, Fernanda, Sasha. Tutti giorni, l’intera settimana tranne il sabato del riposo, conditi da gesti abitudinari, nonostante quindi la precarietà di sottofondo, e le scopate. Nonostante l’affetto e lo stranissimo rispetto riservato alla mogliettina-commercialista Ada, l’intrigante e fedifrago Adàm si svuota con le altre, dunque, ma soprattutto come se avesse il culto del mantra si decida ai doveri che s’è imposto. “La sua vita è un mosaico di momenti vissuti al volo, tra carrozze ferroviarie, amanti diverse in città diverse e un beato stordimento, che lo porta a lasciarsi andare a questo flusso ininterrotto di esperienza con ironia e spirito giocoso. Lo stesso che l’autore mette nelle spassose note a pie’ di pagina, che costellano il libro con un tocco che mi viene spontaneo associare ad alcune delle uscite più felici di Woody Allen. Ma i temi, dicevo, sono seri. Su tutti, il precariato; lo spaesamento che induce in chi lo vive e si ritrova spezzettato in una serie sfilacciata di momenti. Manca un baricentro. Per Adàm il surrogato di questo ancoraggio interiore è l’adorata moglie, che pur cornifica abbondantemente, e anche il bar del titolo dell’opera, dove si consuma una confortante ritualità di gesti”, scrive infatti in un’acuta, intelligente e sintetica recensione Giovanni Agnoloni. “Ma in questo suo mondo galleggiante sul mare dell’instabilità rientra anche la lingua ebraica, l’oggetto del suo lavoro”, aggiunge Agnoloni. E in questo marasma di vicissitudini, non poteva mancare la sorpresa. Perché il professore deciderà per optare, in conclusione, per una scelta di vita, in un certo qual senso e modo, radicale. Che, appunto, modificherà gran parte d’abitudini e, prima di tutto, farà chiarezza sulla vera inadeguatezza e sul profondo sentimento d’insicurezza che il colto e attraente docente si preoccupava di mascherare.