Due ruote per andare lontano, Ester Annetta_Roma
Racconto finalista venticinquesima edizione Premio Energheia 2019
Aveva poco più di trent’anni Isaia, un dato anagrafico in sorprendente contrasto con le marcate rughe che già solcavano il suo viso, conferendogli un’espressione mista di saggezza e fatica.
Viveva in una delle rare case di mattoni e cemento nel cuore del villaggio: muri imbiancati, ambienti divisi, un piccolo portico ed un vasto cortile più simile ad un’aia, in verità, dacché papere e galline vi razzolavano gaie durante il giorno.
Non era stato soltanto fortunato ad aver trovato un lavoro che gli aveva consentito di scuotere la terra rossa dai suoi piedi scalzi, di indossare scarpe e camicie, di avere una dimora dignitosa (che presto avrebbe avuto anche la luce elettrica!) e di sostentare una moglie e quattro figli. Era stata piuttosto la sua tenace volontà ad averlo guidato verso la certezza che una vita migliore fosse possibile e che costanza e determinazione fossero gli ingredienti giusti per tradurre in realtà la sua parte di speranza.
Quel lavoro non era, infatti, il suo traguardo, ma soltanto un mezzo per aiutarsi a raggiungere un obiettivo superiore. Nel suo futuro immaginava un titolo, un attributo, che non solo gli avrebbe consentito una maggiora agiatezza ma, soprattutto, lo avrebbe riscattato da un passato di miseria e di privazioni di cui i suoi figli non avrebbero mai dovuto aver memoria.
Così, una sera, aveva annunciato alla moglie, a sua madre ed a suo nonno quell’intenzione:
“Voglio iscrivermi all’Università. Voglio prendere la laurea e diventare Professore”.
Più che un’ambizione il suo era sembrato un atto di coraggio e, perciò, nessuno aveva osato contraddirlo. Tutt’altro. Suo nonno, ponendogli solennemente una mano sul capo, l’aveva benedetto, mormorandogli con la sua ormai flebile voce che anche suo padre – se quella strana febbre non l’avesse portato via troppo giovane – sarebbe stato fiero di un’idea così audace e rivoluzionaria, per gente come loro.
Era stato il primo anello di una lunga catena di solidarietà che da lì agli anni a venire l’avrebbe sostenuto tra i dossi e le cunette di un faticoso cammino.
Per conciliarli con il lavoro, avrebbe potuto frequentare i corsi serali; una soluzione vantaggiosa, se non fosse stato per la distanza.
Ogni mattina Isaia percorreva a piedi gli otto chilometri che lo separavano dal villaggio limitrofo, dove lavorava. Lo stesso al ritorno, all’ora che si sarebbe detta “di pranzo”, secondo un criterio occidentale di scansione del tempo.
Frequentare i corsi avrebbe significato aggiungere a quella distanza altri 40 chilometri, affidandosi a mezzi di fortuna che gli consentissero di raggiungere la città capitale, lungo una fettuccia d’asfalto stesa tra i campi; un tragitto che non sarebbe durato mai meno di un paio d’ore.
Sarebbe partito all’alba ogni mattina, dopo aver baciato i figli nel sonno, per ritornare a notte fonda e ritrovarli avvolti in un nuovo sonno. Così per cinque anni almeno, perdendosi le loro stagioni, i denti caduti, l’arrochirsi della voce, la voce stessa. Ne avrebbe misurato la crescita solo vedendoli allungare nei loro giacigli: un’aggiunta di centimetri che ai suoi occhi sarebbe stato il solo indicatore del passaggio dall’infanzia all’età più adulta.
“Siate forti, figli miei. Lasciate che io vi apra la strada dove voi camminerete per arrivare ad un futuro migliore, per essere liberi.” Si consolava così Isaia, guardandoli dormire e riconsiderando il passato del suo popolo, già vittima dello schiavismo e del dominio coloniale, e ancora oggi indebolito dalla faticosa battaglia combattuta per l’indipendenza e da una lunga e sanguinosa guerra civile, che, di fatto, sembravano aver mutato soltanto i connotati degli antichi padroni, lasciando campo ad nuova forma di sottomissione e sfruttamento: quello delle grandi potenze economiche.
“Il sapere rende liberi, è l’ignoranza che rende prigionieri”. L’aveva letto studiando un antico filosofo, al tempo in cui la Missione, per la sua volontà ed i suoi meriti, gli aveva fornito una borsa di studio per consentirgli di frequentare il liceo in un altro villaggio. Aveva perciò maturato la consapevolezza che solo migliorandosi si può migliorare anche il contesto d’appartenenza e che lo sforzo del singolo può essere di esempio e sprone ad una comunità più vasta.
Si, avrebbe fatto la sua piccola rivoluzione Isaia, e dimostrato ai giovani del suo villaggio che avere il sostegno di una Missione non si traduce nell’attesa passiva di un costante aiuto ma nell’attivo impegno a sfruttare le opportunità, fino a rendersi autonomi, come si fa nel lasciare la mano di un accorto e prudente genitore che ha puntellato la sicurezza dei primi passi.
Così era iniziata la sua sfida. Alla fatica già messa in conto ben presto si era però aggiunta un’aggravante: la sera, al termine dei corsi, era ormai troppo tardi per trovare uno di quegli stipati camion che fungevano da corriera che potessero avvicinarlo al suo villaggio. Doveva perciò percorrere un tragitto di molti chilometri a piedi, giungendo a casa a notte fonda e senza aver sufficiente tempo per riposare prima di ripartire all’alba del giorno dopo.
D’inverno, poi, quando faceva buio presto, la strada del ritorno diventava anche pericolosa: il rischio di imboscate era frequente in quei luoghi disperati, dove capitava di essere aggrediti per pochi spiccioli o per il sacchetto del pranzo: un tozzo di pane o qualche ortaggio.
Spesso si era visto costretto a chiedere ospitalità in un posto di polizia, dove aveva trascorso la notte seduto su una sedia, appoggiato contro un muro, senza coperta né cuscino. Tempo dopo era divenuto il suo rifugio, da quando una sera era stato testimone di un’aggressione e, nel timore di essere riconosciuto e ucciso a sua volta, evitava di far ritorno quand’era ormai già buio.
La storia della sua volontà e del suo coraggio aveva ben presto fatto il giro del villaggio: Isaia era diventato un eroe, un simbolo di abnegazione, da supportare con ogni mezzo.
Che cos’è una comunità? E’ un luogo d’appartenenza in cui tutti si rivelano padri, madri e fratelli; in cui lo sforzo del singolo si tramuta nel sacrificio di tutti; ove un gesto, una parola di incoraggiamento, un dono fungono da carburante per alimentare il motore di un’impresa che agli occhi dei più ha il valore di un atto di onore e di riscatto collettivo.
Bastavano un sorriso, una pacca sulla spalla, il dono di un quaderno, di una penna o di un frutto per restituire a Isaia forza e resistenza, per onorare la solidarietà che con quei gesti gli tributava la sua gente, alla quale un giorno avrebbe dedicato la riuscita della sua impresa e con cui avrebbe condiviso la soddisfazione di un traguardo raggiunto anche grazie a quel contributo d’affetto e di fiducia.
Pure alla Missione era infine giunta l’eco di tanta ammirazione.
In quel villaggio quasi di frontiera, ai margini della civiltà ed arreso alla sua povertà, anni addietro un messo inviato forse più dalla Provvidenza che dal suo Ordine ecclesiale aveva scortato i primi aiuti. In quel luogo tra i più derelitti al mondo, un container stipato di cibo, vestiti, utensili ed altri generi di prima necessità aveva portato anche un carico di speranza. Quel popolo prescelto cui dalla lontana Italia erano arrivate come manna biblica assistenza e sussistenza aveva lentamente risollevato le sue sorti dall’afflizione e dall’abbandono. Ai primi interventi d’urgenza ne erano seguiti di più strutturati: erano stati scavati pozzi, costruite piccole case in malta e mattoni in luogo delle fragili capanne di fango e sterpi, creati un asilo, una scuola, un’infermeria e una casa per anziani. A tanti bambini e vecchi era stata offerta la garanzia di un pasto al giorno – l’unico, per i più – ma prima ancora il modo per plasmare (in un caso) o terminare (nell’altro) con più dignità il corso delle loro grame esistenze.
All’ingresso del villaggio, quasi come avamposto di guardia e custodia di un luogo protetto, era sorta la Vivenda, la residenza del missionario di turno che presiedeva ai tanti progetti ancora in corso e curava le necessità delle singole famiglie. Chiunque avesse un bisogno o una richiesta sapeva di poter trovare aiuto bussando a quella porta, da cui tuttavia mai – se non in casi estremi – sarebbero uscite assegnazioni o premi gratuiti, ma piuttosto strumenti ed indicazioni, perché fosse continuo lo stimolo a non adagiarsi nel dovuto ma ad ingegnarsi nel possibile.
La determinazione di Isaia rappresentava di certo uno degli esempi in cui la lezione dello sforzo per l’autonomia impartita dalla Missione aveva avuto efficacia. La borsa di studio gli aveva consentito di arrivare fino al diploma di liceo. Ma la voglia di andare oltre, la convinzione di dover ampliare un sapere che lo avrebbe reso libero, avevano continuato ad alimentare quello spirito di uomo nuovo che ambiva a diventare. E tanta volontà era giusto che ricevesse il suggello d’approvazione di quella Grande Madre cui Isaia aveva continuato a tributare rispetto e riconoscenza.
Così era stato che, qualche mese dopo, l’appoggio della Missione al sacrificio di Isaia aveva assunto forme concrete: un sellino, l’equivalente di una poltrona di prima classe; due ruote, un motore potente e veloce; un paio di pedali, le ali per volare nel vento.
Una bicicletta.
Una pedalata dopo l’altra, la fatica non sarebbe certo diminuita, ma il tempo si; almeno quegli otto chilometri necessari ad arrivare sul limite della strada asfaltata che portava in città Isaia li avrebbe percorsi più rapidamente, anche al ritorno, prima che il buio divenisse troppo fitto e i fantasmi della notte angosciassero la sua anima.
Da allora erano trascorsi cinque anni, un banco di prova estenuante in cui sofferenza, scoraggiamento e stanchezza si erano a lungo alternati, in aggiunta al frequente rimorso per il sacrificio di cure sottratte altrove.
Alla vigilia del taglio di quel traguardo tanto sudato, un nuovo pensiero aveva però turbato la felicità di Isaia.
All’usanza di quei luoghi, ci sarebbe stata una cerimonia corale, nello stadio della capitale, dove tutti i laureati di quell’anno sarebbero stati pubblicamente proclamati. Poi ciascuno, ricoperto dalla sua gloria e dal suo alloro, avrebbe portato alla sua gente il messaggio di quel successo. E sarebbe stata festa; un giorno intero di bellezza ed allegria da condividere con tutta la comunità del proprio villaggio, con ogni singolo latore di un “coraggio”, “resisti”, “ce la farai per te e per tutti noi” che durante quel tempo erano stati linfa e sostegno di tanta fatica.
Una festa avrebbe però richiesto una spesa per il cibo, per l’acqua, per quel minimo che si rende opportuno anche verso gli ospiti più modesti. L’emozione e la felicità di Isaia erano dunque inquinati dalla preoccupazione di non avere i mezzi sufficienti ad organizzare quel momento di festa che doveva alla sua gente.
Pazienza allora; se non avesse potuto ringraziare la sua comunità avrebbe atteso ancora, rimandato all’anno successivo la sua proclamazione, tentando, nel frattempo, di risparmiare a sufficienza per poter organizzare la sua festa.
Si era così recato alla Vivenda ed aveva manifestato le sue intenzioni.
Non si era trattato di un sottile ricatto né di uno stratagemma. Di fronte all’autenticità di quella preoccupazione, non era sfuggito il sincero e profondo senso di condivisione che avrebbe indotto Isaia a quell’ulteriore sacrificio.
Se c’è una certezza che affiora chiara ove c’è povertà è senz’altro quella della verità dei sentimenti. L’amore trabocca ove c’è miseria, riempendo di consolazione le lacune del mancante. E la gioia del singolo non è mai invisa né invidiata, è invece un frammento di gaiezza che avvolge l’anima degli altri diseredati accomunati dalla stessa sorte scura, ove la scintilla che rischiara l’esistenza di quell’uno può illuminare di riflesso anche la propria.
Quella rinuncia non era accettabile. La Missione si sarebbe fatta carico della spesa necessaria, prospettandola ad Isaia come un prestito e non una concessione, risparmiandogli così quel senso di umiliazione che la dignità umana non soffoca neppure quando a prevalere sia lo stato di bisogno.
***
E’ un assolato giorno d’agosto. E’ inverno quaggiù, sotto la linea dell’Equatore, di quelli miti, che sembrano quasi un inchino della natura di fronte alla necessità che, a chi ha già poche risorse, venga almeno risparmiato il peso della difesa dal freddo.
L’aia della casa di Isaia è un brulicare di vita; piccoli fuochi contornati da sassi ardono sotto grosse pentole ammaccate ed annerite prese in prestito nelle case del villaggio. I bambini si rincorrono ridendo, scalzi e sudici, le teste quasi tutte rasate che lasciano in evidenza macchie di scabbia; le vecchie, avvolte nelle loro stoffe sgargianti, siedono sonnecchiando su file di stuoie distese ai due lati di una sorta di tettoia eretta nello spazio centrale. Sotto di essa, a semiquadrato, sono disposti alcuni tavoli.
Isaia è seduto al centro, fiero, nella sua toga e col suo tocco. Alla sua destra siede un uomo dal viso antico, lo sguardo stanco e paziente; alla sinistra una donna anziana accanto ad una più giovane abbigliata a festa, la pelle imperlata di sudore che riluce sotto il sole.
Ai lati del tavolo siedono alcuni giovani, gli amici di Isaia, che, l’uno dopo l’altro, gli rendono omaggio con un breve discorso.
A piccoli gruppi, quasi a rappresentare i “rioni” del villaggio, i presenti sfilano davanti al tavolo, avanzando in processione tra danze e canti e recando un dono per il festeggiato; sono piccoli oggetti di uso comune: bicchieri, pentole, un ventilatore, confezioni di bottiglie d’acqua…quell’essenziale che solo in luoghi come questo si rivela prezioso.
Isaia si commuove quando per ultima, a sfilare, è sua moglie, la donna che sedeva alla sua sinistra e che ora, seguita dai quattro figli, incede danzando portando una grande torta.
L’allegria esplode tra applausi e cori.
Isaia si alza dalla sua sedia, sembra dirigersi verso la sua famiglia; e, invece, senza alcuna parola, si incammina superando tutta quella folla di gente ormai assiepata, scomparendo dietro la casa.
I cori e gli applausi si smorzano; un silenzio di incomprensione cala tra gli sguardi che si scrutano l’un l’altro interrogativi, forse immaginando un improvviso pudore o il bisogno di un momento di solitudine da dedicare al pensiero di un padre assente alla gioia di suo figlio.
Poi, una melodia dapprima sommessa e infine sempre più potente cattura l’attenzione di tutti che, come rispondendo ad un comando segreto, si volgono all’unisono verso la direzione da cui prima era scomparso: Isaia avanza lento, la voce spiegata in un canto accorato che buca lo stomaco e increspa la pelle.
Ha l’andatura solenne e regale, quella con cui si suole accompagnare al braccio una sposa o una principessa.
Ma accanto a lui non c’è nessuno; la sua mano, con gesto elegante, non ne stringe un’altra, ma il manubrio a tratti arrugginito della sua bicicletta.
Nessuno più di chi, nelle avversità della sua sorte, ha ricevuto un aiuto od un riguardo, sa apprezzarne il reale valore. Qualunque beneficio rivolto a chi ha patito fame, fatica, sofferenza è riconosciuto e restituito con uguale quantità di gratitudine, eretto a simbolo di una partecipazione che quanti più risultati avrà prodotto tanto più ne vorrà condividere. Non importa di quale sussidio si sia trattato; che abbia operato col sentimento o con lo sforzo di ingranaggi meccanici: la riconoscenza non vuole necessariamente destinatari in grado di averne percezione.
Un timido applauso sfugge dalla folla, seguito da un altro e da un altro e da un altro ancora, fino a diventare una pioggia, un temporale, una slavina che trascina ogni paio di mani, rimbalzando con la sua eco oltre i confini del villaggio, e in alto fino alle prime stelle.
Isaia, il Professore, ha avuto la sua vittoria. Ora ha un valido lasciapassare per un progetto di vita più sicuro e dignitoso.
A dispetto d’essere nero e di vivere in uno sperduto villaggio a sud dell’Africa.