I racconti del Premio letterario Energheia

E la casa pianse_Chiara Ferrigno, Roma

_Racconto finalista dodicesima edizione Premio Energheia 2006.

 

Una forma appena accennata, pallida, quasi dello stesso colore del muro. Grande come una mano. Gonfi ava l’intonaco: all’improvviso si mosse, veloce, come sotto la superficie. Un granchio grigio. E poi dietro, un altro.

La casa si svegliava piano. Non faceva caldo, non ancora.

La televisione ronzava a volume basso, in sala: nessuno la stava guardando. Nei primi tempi la casa aveva trovato davvero strano che chi adesso la abitava facesse così: lasciare la tv accesa in un’altra stanza, per tutta la notte. Non bastava lei, la casa, a farle compagnia? La luce filtrava dalle doppie tende, mai tirate fino in fondo: ma che strana ragazza. Diceva di soffrire d’insonnia, e poi non chiudeva le tende e lasciava la tv accesa. Allora la casa non la conosceva ancora bene, la ragazza si era trasferita lì solo da poco. All’inizio, la casa era stata contenta, ma davvero tanto: era disabitata da mesi, e si sentiva triste. Con la ragazza era stato proprio un colpo di fulmine: già la prima volta che era salita all’ultimo piano, facendo la rampa di scale semicircolari, era chiaro che sarebbe venuta ad abitare lì. Sorrideva, la ragazza, mentre la esplorava, quel primo giorno. L’ingresso luminoso con la grande lunga finestra. La sala con il cucinino, piccolo ma perfetto; e la finestra dalle stesse proporzioni dell’inquadratura di un film.

La casa gongolava: aveva capito all’istante che alla ragazza piaceva tutto. Persino lo spoglio, vastissimo terrazzo, che d’estate si abbacinava: perché l’amore è amore. Di perfetto amore, la casa aveva amato tutti i mobili portati lì: il tavolo collocato sotto la finestra, con le due sedie bianche gemelle.

La credenza piena di piatti allegri, il tappeto in camera davanti ai vecchi bauli foderati con pazienza. E lo stanzino, che gioia per lo stanzino: finalmente diventava quello che era sempre stato, altro che ripostiglio. Era un guardaroba: pieno di vestiti colorati, di pile ordinate di scatole di scarpe, di borse e di cappelli. Che ragazza. Come era stato bello quell’inizio. E’ vero, già allora la ragazza dormiva poco: ma poteva essere per l’emozione di traslocare, e anche un po’ per la stanchezza accumulata.

Traslocava e lavorava insieme, dopotutto. Poi però la casa aveva cominciato a preoccuparsi: la ragazza di notte si agitava tanto, e anche la casa non riusciva più a dormire bene.

Ormai capiva che spesso la ragazza non dormiva per niente: stava sveglia, ad occhi spalancati, e fissava qualcosa. La casa lo capiva, lo capiva che aveva paura. Ma non sapeva di cosa.

Poi, una notte, anche la casa cominciò a vederli.

I primi, erano stati proprio i granchi. Grigi, pallidi, ma a volte anche rossi, appesi a testa in giù sul soffitto. La ragazza li fissava terrorizzata, senza il coraggio né di muoversi né di accendere la luce. E la casa li sentiva camminare sui propri muri. Poi erano arrivati i grossi ragni: sospesi a mezz’aria nella camera da letto, a volte erano pelosi a volte metallici, con tante lucine sulla pancia, e tanti ragnetti che uscivano da fessure come piccole astronavi da una stazione spaziale. Una notte invece, la casa si era appena assopita, esausta: ma si svegliò di soprassalto. Era diventata una piscina. Una piscina piena di mosaici, come in antiche terme romane. Era bellissimo, c’erano giochi di luce nell’acqua cristallina e forme splendide disegnate sul fondo e sulle pareti. La ragazza galleggiava, all’altezza del soffitto, guardando in giù. E la casa ebbe un tuffo al cuore: un enorme luccio, dai denti aguzzi, si avventò su di lei. La casa si scosse, si agitò, non poteva urlare. La piscina e tutto il resto sparì, la ragazza tornò sul letto, gli occhi fissi e spaventati: tra le lenzuola, nella luce incerta dell’alba, sgusciò ancora una murena e poi si dissolse.

Anche nella notte appena trascorsa, erano arrivati: questi ospiti non desiderati. La ragazza si mosse debolmente, nel dormiveglia in cui alla fine era piombata: la casa sperò che il sole arrivasse in fretta, e che i granchi grigi sparissero dal muro prima che lei aprisse gli occhi. Grazie al cielo, il sole arrivò: disegnando sul muro di fronte alla finestra della camera i piccoli riquadri delle tende. Era sabato, e la casa era contenta: la ragazza non avrebbe dovuto correre via. Le piaceva, passare il tempo con lei: e di giorno piaceva anche alla ragazza. Quando stava ancora bene cucinava, e la casa si sentiva invadere da profumi così buoni. Veniva a trovarla qualche amico: una coppia simpatica veniva spesso, poi c’era un’amica della ragazza che per un po’ era stata ospite da lei, un amico con la barba era quasi sempre lì, ed era proprio un amico. C’era anche qualcun altro che veniva, raramente, e la ragazza prima e dopo era sempre strana: prima agitata e su di giri, poi come svuotata. Alla casa quel tipo non piaceva, ma alla ragazza sembrava di sì. Al sabato comunque non veniva mai, quindi la casa era ancora più contenta.

Nei giorni in cui non lavorava, la ragazza andava lenta lenta: certo era perché di notte non riusciva a dormire. Stava un po’ al computer, ma soprattutto stava in terrazzo, sdraiata al sole: la casa non capiva come poteva resistere, con tutto quel caldo. Sembrava che la ragazza proprio non lo sentisse.

Stava lì, immobile, finalmente addormentata: e la casa avrebbe voluto cullarla. I giorni erano così diversi dalle notti. Anche di giorno, però, c’erano dei momenti brutti: erano quando la ragazza doveva prendere la sue medicine. Le guardava a lungo, prima di inghiottirle: una fila di piccole pastiglie bianche, tonde. Ogni tre – quattro giorni ce n’era una in più: e la notte subito dopo arrivava un altro ospite non desiderato, e cattivo.

Sempre di più. Una volta era stato un delfino di pelouche, trasformato in un attimo in un mostro pieno di denti; oppure la bocca metallica di un alieno, che brillava nella penombra iridescente della luna; oppure una scimmia, accovacciata sul letto, con il muso di freddo acciaio e un braccio proteso a ghermire la ragazza. La casa aveva tanta paura, ma non per sé. Sapeva che quelle cose erano appunto soltanto ospiti: un giorno erano arrivati, un giorno sarebbero andati via. Ma la casa era spaventata per la ragazza, che passava di notte lunghe ore ad aspettare, terrorizzata, che gli ospiti prima o poi apparissero: e lo facevano sempre.

Quando alla fine fu sveglia del tutto, la ragazza fece colazione: ma senza molta fame. La casa ne spiava i gesti: la ragazza sbocconcellò qualcosa, ma faceva fatica anche a mandare giù il latte, quasi come se ogni sapore le desse fastidio. A volte le succedeva, e la casa era sicura che anche quello fosse colpa delle medicine. Ne era sicura anche la ragazza: che restò a lungo ferma, al tavolo, fissando l’inquadratura della finestra.

Poi si alzò e a piccoli, piccoli passi andò verso la camera da letto; lì aprì un cassetto e prese molte confezioni di pastiglie.

La casa ebbe un tuffo al cuore: la ragazza con tutte le medicine andò in bagno, e cominciò a tirar fuori le pastiglie ad una ad una. La casa avrebbe tanto voluto poter fare qualcosa: gridare, fermarla. La ragazza aveva gesti rallentati: quando tutte le confezioni delle medicine furono vuote, sul piano del mobiletto in bagno c’era un bel mucchio di pastiglie. La ragazza le guardò, pensosa, e la casa tremava. Poi, le raccolse nel cavo della mano: alzò il coperchio del water e ce le buttò tutte dentro, e fece scorrere l’acqua. La casa, se non fosse stata una casa, avrebbe fatto le capriole per il sollievo e la felicità: la ragazza era salva.

Quella notte, gli ospiti indesiderati tornarono. E anche quelle dopo, ancora per un po’. Un orsetto appeso al soffitto, ma con la faccia metallica di Terminator; un enorme ragno peloso sospeso al centro della zanzariera. Ma a poco a poco, era come se gli ospiti si indebolissero: un carro armato giocattolo diventava un granchio, ma di un grigio tenue; una grande ape che sembrava fatta all’uncinetto apparve e scomparve subito. Nell’ultima notte in cui gli ospiti visitarono la casa, ormai erano quasi soltanto ombre: come disegni animati che si agitavano piano nella penombra, per poi sbiadire e dileguarsi per sempre. Qualche giorno dopo la loro ultima apparizione, la ragazza andò a fare una gita fuori con il suo amico con la barba. Aveva un vestito leggero e colorato, e alla casa sembrava tanto bella. Quando tornò, nel tardo pomeriggio, sempre accompagnata dall’amico barbuto, la ragazza rideva: si mise di nuovo a cucinare – dopo tanto – e la casa fu felice. Fu ancora più felice quando capì: la ragazza, in cucina, preparava un sugo speciale. Di mare. Sugo di granchi, grandi e rossi. La ragazza, dopo solo un attimo di esitazione, si mise a spezzarli nella grande padella, per fare il sugo più saporito. Granchi rossi in padella, e mai più, mai più sui muri.

Autunno. Il sole si illanguidiva sulle pareti, attraverso le tende lasciate semi aperte. Non più tappeti, non più quadri, computer e tazze colorate. La ragazza era andata via: aveva da poco chiuso la porta dietro di sé, lasciando le chiavi alla proprietaria. La casa sapeva che se ne sarebbe andata: del resto, come avrebbe potuto restare? La casa la capiva, ma era triste: non avrebbe mai più trovato una ragazza così. Una briciola di vento mosse un foglio lasciato sul piano della cucina a gas: tutto il resto delle stanze era vuoto. Il foglio si sollevò, ondeggiò, si posò sul pavimento al centro del saloncino, in una dorata pozzanghera di sole. La casa lo lesse.

Casa delle ombre

casa del terrore

casa amata

tra mille solitudini

Specchio

Luci

Sole al mattino, sul letto

Non avere paura

qui

mi sarebbe impossibile

Veglio cercando

una possibile felicità

uno spazio di vita

Casa dell’amore negato

e cieco da un occhio

Casa mia

e mai mia

Ti lascerò

e ti porterò

in ogni sguardo

La casa tremò: l’aveva scritta per lei. La ragazza, la sua ragazza. Forse le case non possono piangere: ma questa casa fece ballare il foglio della poesia nel tiepido sole settembrino, allacciandolo a un refolo di vento. E pianse.