– di Costantino Dilillo_
In copertina dopo il titolo e il sottotitolo c’è scritto “romanzo”. A furia di usare le parole, a volte ne perdiamo il senso originario, come se esse nel tempo si conquistassero autonome accezioni e prendessero a “significare” per conto proprio, senza il nostro permesso, cose diverse dalla loro propria essenza.
Leggendo il libro di Peppe ho riscoperto il senso della parola romanzo perché “E’ stata una lunga giornata” è un romanzo vero. Dopo i racconti, brevi e lunghi delle precedenti raccolte, Peppe ci narra una storia avvincente piena di sentimenti, di passioni, di dolore e di amore, di meschinità e di tristi compromessi esistenziali, di entusiasmi e di forti e radicali speranze, di sogni semplici che sono sogni grandi di persone vere.
Un romanzo storico che sullo sfondo delle vicende umane racconta un’epoca, l’autunno caldo delle lotte operaie del 1969 e che pure travalica la contingenza del periodo evocato perché attinge ai fondamentali dell’umanità, con personaggi potenti nella loro fragile umanità e credibili, veri, caduchi eppure alti, alti proprio perché precari.
Le vicende non si svolgono alla corte di Danimarca, né fra le nebbie del reame di Britannia, non nelle corti dell’Imperatrice d’Austria, ma nelle coree delle città industriali d’Italia e i protagonisti non sono Lady Diana né la Regina Apostolica d’Ungheria o la Regina di Boemia, ma sono operai, contadini emigrati dalla bassitalia per fornire la manodopera essenziale a un capitalismo industriale che alimentava il proprio boom economico grazie alla eradicazione esistenziale – prima che geografica – di intere comunità. Una deportazione di massa di meridionali in terre brianzole che ha distrutto radici e tradizioni sia dei luoghi d’origine che di quelli d’arrivo, tanto che, in terza generazione, in quelle contrade devastate dalle diossine postindustriali, hanno prolificato gli adoratori delle ampolline d’acqua celtico-padana.
I protagonisti del romanzo sono gente del Sud che emigrava verso un Nord inesplorato, inospitale e duro ma pur sempre meglio della miseria dei paesi svuotati del Sud, personaggi concreti che nel racconto misurano la frizione della loro fragile esistenza con le asperità di una società sconosciuta al ritmo di alienanti catene di montaggio .
Tutto ciò rende questo romanzo “potente”, come poche volte accade nella letteratura italiana che da Moravia in poi sembra aver dimenticato che il romanzo deve essere narrazione e che il lettore chiede di conoscere personaggi credibili cui affezionarsi e assieme ai quali tremare, patire, sognare e in fondo anche un po’ morire, in quella rappresentazione della vita che è appunto il romanzo popolare, come il poema cavalleresco, l’epopea, le grandi leggende omeriche, il grande cinema.Gramsci direbbe che quello di Peppe è un autentico esempio di letteratura nazional-popolare, la quale tristemente manca da sempre sugli scaffali italiani, salvo qualche datata eccezione come il Metello di Pratolini, Tre operai di Bernari, solo qualche pagina di Vittorini che più che narratore era intellettuale “di testa”.
Peppe Lomonaco, dopo “Visite eccellenti” e dopo i racconti di “Una mattina mi sono alzato”, si conferma narratore autentico e la maturazione stilistica gli consente di contenere il romanzo in una architettura classica che avvince.