Ecce Bomba di Mario Ventrelli
–Ahhh… finalmend! Ecco dove si è rifuggiet quell’animal!
Washington, autunno 2019. Donald J. caricò il Winchester e lo puntò in direzione della porta d’ingresso della Sala Ovale. Per la tensione, il sudore gli imperlava il parrucchino.
Nel buio, il suo avversario si lisciava lentissimamente la coda. Quasi immobile. Poi, approfittando di un attimo di distrazione del Presidente, scattò come un fulmine.
Donald J. sparò con un attimo di ritardo e il proiettile, rimbalzando sul pavimento di granito, si piantò a due dita dal severo ritratto di George Washington, quadro uscito indenne da varie vicissitudini, comprese due guerre mondiali. Gilbert Stuart, l’autore del dipinto, si rigirò nella tomba.
–Li muert suj!-, gastemò Donald J. all’indirizzo del sorcio infilatosi, nel frattempo, come un razzo dietro la libreria vittoriana.
Tempi duri alla Casa Bianca. Da circa un anno Donald J. era affetto da quello che lo psichiatra che lo aveva in carico aveva definito “morbus spingardae”. Una cosa da strizzacervelli piuttosto complicata a raccontarsi. Diciamo, per semplificare, che dopo aver eliminato dentro e fuori il suolo americano tutti i nemici della Patria, di guerre il Presidente non ne poteva più fare: gente in giro con la voglia di farsi cannoneggiare non si trovava manco a pagarla.
Ma il vizietto della polvere da sparo ce l’aveva nel sangue e la sera, prima di andare a letto, ciabattava per la casa col cappello da cowboy in testa ed un vecchio archibugio appartenuto al generale Ulysses Grant, per dar la caccia ai ratti. Purtroppo, anche a causa del parrucchino che gli obnubilava la mira, Donald J. stava riducendo in molecole l’intera Stanza Ovale.
Per fortuna, a tenerlo a bada, ci pensava un erculeo maggiordomo texano messogli alle calcagna dallo strizzacervelli il quale, quando la sera la gazzarra cominciava, scattava come un puma e, dopo aver placcato il Presidente, lo sculacciava con una bistecca di bisonte, come è costumanza in quel di El Paso.
Prima di andare avanti con i drammatici fatti che ci apprestiamo a raccontare, è il caso di spendere due parole sull’idioma dialettale che abbiamo messo in bocca al Presidente.
Avendo questi un lessico assai pittoresco, praticamente intraducibile nella pur variopinta lingua italiana, ci siamo permessi di riprodurre il suo idioma e quello del suo Segretario di Stato, ispirandoci al colorito linguaggio di certi ruspanti muratori dell’alta Murgia pugliese, del cui nobile consesso lo scrivente fa orgogliosamente parte.
Ma torniamo alla nostra storia.
Si era agli inizi di giugno.
Si appropinquava il compleanno di Donald J. e il maggiordomo, pur di tener contento il Presidente bombarolo, col permesso dello psichiatra, gli regalò una cassa di petardi tanto per farlo scatenare un po’.
Alla vista dei mortaretti, il Presidente restò come inebetito e, per alcuni minuti, non proferì parolaccia.
Il maggiordomo era abituato a quei momenti di catalessi. In genere Donald J. li aveva quando certe sere, con aria sognante, osservava, in una bacheca della Casa Bianca, la collezione di soldatini di piombo donati dal suo lontano predecessore Abraham Lincoln.
Poi, così come si era assopito, d’improvviso si riprese. Con una scusa congedò il suo aiutante accompagnandolo cortesemente alla porta. Dopo aver chiuso il battente a doppia mandata, si tirò un tale ceffone alla fronte che per poco non ci restò secco:
-Mannagg a tutt le bomb dellu Vietnam. Perché non ci aggiù penzat prim??? E’ natural! Visto che accà nun gi stann cchiù guerre da far, tando val che usiamo le nostre armi per fare guerr alla guerr!!
Reso esagitato dalla sua intuizione, sollevò la cornetta e chiamò il Segretario di Stato.
Questi era sotto la doccia e, non appena sentì squillare la linea rossa, si lanciò a pesce sulla scrivania. Sapeva che quando Donald J. chiamava, non ammetteva più di tre squilli. Ce ne furono quattro. Donald J. era furente:
-Guaglio!! Li muert tuj… quand ti chjam adda scattare! La prossima vold che mi faj aspettar, ti mann a zappar nel giardino della casa Bbiang!
-Donald! Mi stev a fa la doccj… eccheccazz… mango na lavet di chjepp in pace mi pozz fare???
-Je success una cosa della massima inbortanz… se non arrivi qui entro 39 secondi…-, premendo il cronometro del suo Rolex Daytona, -…sei licenziet!-
Senza neppure avere il tempo di rivestirsi, il Segretario di Stato si avvolse alla meglio con la bandiera a stelle e strisce che era dietro la sua scrivania e si precipitò verso la Stanza Ovale dribblando gli antichi mobili in quercia come un mediano di mischia dei Dallas Cowboys:
-Le corn long della Corea del Nord! Sicuramend è colpa lor…non potevano aspettar altri cingue minut prim di langiar li missl. Se metto le mani addoss allu dittator, non lo so come andjem a finir!
Nel vederlo catapultarsi in ufficio avvolto nella bandiera americana, Donald J. batté un pugno sul tavolo:
-Bravo! Accussì mi piaci! Patriottico! In effetti, oggi je nu grande ggiorn per gli Stati Uniti!
-Meh… Donald J…. lo spero bene che non mi hai fatt correre qui inutilmend… teng nu sajett di fiaton…-, asciugandosi le palle con la bandiera stellestrisce.
-Acculazzati su quella poldron e ascoltami bben… Dungue: che cosa farai questu capodann?
–Capodann?? Donald J., mangano angora sei mesi! Mi so’ menz spedazzat l’osso del collo per scappare qui… e tutto per sendirmi far questa domand??? Figurt che penzev che era scoppjat la guerr con la Corea del Nord!
–Che me ne frega a mej della Corea… se ne possono andare tutt affangul…
-E allor perché mi hai chiamet?? Stong angor tutto bagnet dalla cap allu pet…
-Wee! Le domande le faccio io che sono lu presidend… E allor… che cos penzavi di far a capodann?-, insisteva Donald J.
-Ho promess alla mia mugliera di andare a sciar ad Aspen…
-E tand ci voleva a dirlo? Bene. Ci andrà senza di te. Accussi te la togli davand per qualche ggiorn….
-Seeee… tu la fai semblice…Devo trovar una scusa bbuona, sinocc quella mi spedazz di mazzat… E’ cunvind che a Washington io teng la cummara stagista…
Donald J. chiuse improvvisamente gli occhi. Ancora una volta parve cadere in catalessi. Erano quelli i momenti nei quali il Segretario di Stato lo temeva maggiormente. Quando, cioè, metteva in moto il cervello. Nel tentativo di risvegliarlo dal suo torpore, il Segretario tentò di buttarla sul cameratesco:
-Ahhhh… ma non ci sarà mica di mezzo qualche nuova praticand? Ci hai sempre li pandaloni sbottonat tu… che lazzaron che sei!
-Njende praticand… Già so avut abbastanza guaj con le femminazz… A capodann ce ne staremo invece buoni buoni, tranguill tranguill com due boyscout.
Detto questo, il Presidente si stiracchiò e incrociò i piedi sulla scrivania. Quando assumeva quella posa, significava che non ammetteva repliche.
–Ci siamo, ora sono guai-, pensò il Segretario con gli occhi spalancati a guisa di bovino. Donald J. lo fissava nelle palle degli occhi:
-Ho deciso di organizzar nu capodanno all’inzegn della fratellanza e della pace! Un occazion per ripudiare, na vold per tutt la guerra!-
-Donald, ma sei uscit pazz?? Ti sei improvvisamend convertit allu Mahatma? Tu? Donald J.? Non gi poss credere…
–Non zi dicenn cazzet!-, lo interruppe Donald J. Poi, con voce ispirata:
-Apri le recchje… Se, per il prossimo 31 dicembre, nuj riuscimm a far scoccare la mezzanotte in tutto lu mond nellu stessu istante, nuj potremmo realizzar n’avvenimend maj success prim!! Pjenzac… Tutt li popoli della terra che festeggjan inzjiem in nome della pace e della ricongiliazzjone.
-Ma ce ste a dire?-, lo interruppe il Segretario, sempre più disorientato. Ma il Presidente, ormai rapito dalla sua ispirazione, non lo sentiva più:
-Tutti gli esseri umani che gioiscono tenendosi per man. E, soprattutto, tutto organizzato da Donald J. e dal suo staff. Non zol ci facciam bella figur, ma li botti, li tric-trac e le castagnol per li festeggiamend glieli vendiamo noi!!
Improvvisamente al Segretario gli si aprì una finestra:
-Vedi che ti fa la pazzja…dice e dice cazzet, e alla fin qualche cosa di buono arriv…-, pensava tra sé e sé. Poi, rivolto a Donald J.:
-Beh…in effetti… in effetti l’idea non è male. Potremmo svuotare gli arsenali dellu Pentagono. Con questa carestia di guerr, quelli ci hanno le bomb ca gli escono pur dallu gabbnett… Donald, è una buona idea, lo devo ammettere! Non sei daccussì trimon come sembri…
-Trimon si tuj! Prima di endrar nella Stanza Oval, io sono stato un imprenditor, ricordalo! Mica nu sciacqualattughe come a tej…
-Imprenditor… è facile far l’imprenditor senza pagare le tass…
Donald J. fece finta di non sentire. Poi, alzandosi e volgendo lo sguardo verso il giardino della Casa Bianca:
E ora ascoltami attendamend…. Per prima cosa devi verificare con gli esperti se la faccenda dei fusi orari je tecnicamend possibbl. Una vold avut l’Ok, comincerai col contattare…-
Il primo ad essere messo al corrente dell’iniziativa fu il premier inglese, il quale chiamò poi quello francese. Dopo un breve conciliabolo, i due convennero che, sebbene l’idea paresse una grande puttanata, la nuova ventata antimilitarista avrebbe dato loro la possibilità di eludere il problema della disoccupazione durante il discorso di fine anno.
E, cosa da non sottovalutare, quelli erano tutti voti pacifisti da mettere in carniere per le prossime elezioni.
Simili considerazioni fecero il premier greco e quello italiano, ai quali l’andare in televisione assai piaceva, soprattutto se si trattava di promettere.
In breve la notizia di quella iniziativa si sparse per i quattro angoli del pianeta e pure il governo indiano diede il suo assenso.
A ruota seguirono quelli di Ankara, Berlino, Tokyo e di tutto il continente africano.
L’occasione di poter concorrere, almeno per una volta nella storia dell’umanità, alla realizzazione di un simile evento, fece dimenticare odi e rancori.
L’abbattimento dei fusi orari avrebbe infatti permesso a sette miliardi di esseri umani di brindare nello stesso istante ad una nuova era di pace e amicizia tra i popoli. Tutti insieme a festeggiare, uniti in un indissolubile abbraccio di giustizia e fratellanza, senza più barriere né frontiere.
Intanto l’industria bellica americana, riciclatasi per l’occasione in immensa fabbrica di fuochi d’artificio, cominciò a sfornare botti per tutti i gusti e per tutte le tasche.
Opportunamente modificati, furono messe in vendita mitragliette M16, missili terra aria MIM-104 Patriot e, per i più esibizionisti, carri armati Abrams M1A2.
Narrano le cronache che, osservandone da vicino l’obice da 120 millimetri, un bambino giudicò la guerra una cosa troppo seria per farla fare ai generali.
Intanto, ai più introversi fu data la possibilità di sparare missili da crociera Tomahawk nelle profondità oceaniche a bordo di un sommergibile nucleare della classe Ohio.
Uno sceicco arabo, invece, noleggiò un intero incrociatore lanciamissili classe Ticonderoga con compiti antiaerei e lo ancorò a Dubai.
Anche ai golpisti turchi, rinchiusi nelle segrete di Istanbul, fu concesso di poter festeggiare, ma solo con un piccolo cerino. Caricato a salve.
I generali del Pentagono non avevano dubbi: la produzione di armi per la pace aveva fatto impennare le azioni dell’industria degli armamenti, come ai bei tempi del Vietnam.
Intanto, dopo qualche tentennamento, anche i governi di Russia e Cina accettarono di aderire alla proposta.
Con l’adesione delle due Coree, fatto mai verificatosi prima, Donald J. entrò definitivamente in odore di Premio Nobel per la pace.
In seduta plenaria presso il Palazzo delle Nazioni Unite, si decise all’unanimità (parola il cui significato sembrava ormai andato perduto) che il meridiano cui far riferimento per lo scoccare della mezzanotte sarebbe stato il centesimo, quello passante per la stalla del ranch texano del Presidente, giusto riconoscimento per chi aveva avuto la geniale intuizione.
E proprio in quella stalla, facendosi un po’ di spazio tra le vacche, avrebbero brindato i governanti di tutto il mondo.
I leader religiosi invece, riuniti in simposio, avrebbero sobriamente festeggiato levitando eterei su di un dirigibile opportunamente messo a punto dalla Lockheed.
Festoni e fuochi pirotecnici furono montati sulla Tour Eiffel, lungo la Grande Muraglia, sulla cupola della Casa Bianca e sulle torri del Cremlino.
Dalla mezzanotte del 31 dicembre, nulla sarebbe più stato come prima.
Un solo grande botto avrebbe abbattuto vecchie barriere ideologiche, politiche, religiose e sociali.
Oppressori ed oppressi, guelfi e ghibellini, cacciatori e ambientalisti, tutti uniti in un unico grande abbraccio. Con uno sforzo umanitario mai visto prima, furono distribuite alle denutrite popolazioni africane tonnellate di granate Mk2, comunemente definite pineapple, con le quali saziare la loro fame.
Perlomeno quella dei festeggiamenti.
Arrivò il giorno fatidico, e per meglio figurare, Donald J. si fece stirare il parrucchino alla lavanderia della Casa Bianca.
Mentre la mezzanotte si appropinquava, gli invitati si prepararono per la foto di prammatica.
In omaggio a quanto di rappacificante aveva fatto nel corso del suo mandato, ospite d’onore della serata era George Dabliù. E fu proprio George Dabliù ad insistere perché, allo storico evento, prendesse parte anche l’ottuagenario ex premier italiano che, appena sceso dall’aereo, aveva dato sfoggio dei suoi nuovi tacchi ad aria compressa.
Foto di rito finale nella stalla:
Al centro troneggiava Donald J. Alla sua destra George Dabliù con alle sue spalle la madre Barbara, già Miss Arizona 1920.
Alla sinistra del Presidente, posava il premier russo, sorridente perché, tra un botto e l’altro, ne avrebbe approfittato per sganciare qualche confetto sull’Ukraina.
Al suo fianco quello francese, che sogghignava di gusto: tra un mortaretto e una castagnola, avrebbe fatto detonare un paio di atomiche sperimentali a Mururoa.
E sorrideva anche il premier cinese che due bocce sul Tibet, approfittando della confusione, voleva proprio mollarle.
E non vi diciamo l’allegrezza dei due leader coreani, sicuri di poterla fare finita a botta di atomiche, una volta per tutte.
E si tenevano per mano i leader indiano e pakistano i quali contavano sulla gazzarra per mollarsi due missili all’idrogeno.
E così pure etiopi ed eritrei, ugandesi e ruandesi.
Tutti l’uno all’insaputa dell’altro.
L’ex premier italiano, come già detto, si ergeva turrito sui suoi nuovi tacchi a camera d’aria, sorridente perché, approfittando dell’abbattimento virtuale delle frontiere, sperava di esportare qualche miliardo di svanziche.
Tutti amorevolmente abbracciati, mentre attendevano impazienti l’ora X.
A Donald J. fu concesso l’onore del conto alla rovescia. Il Presidente si allentò il nodo della cravatta, si appropinquò ad una telecamera, e, con la voce rotta dall’emozione disse:
–Cari governanti, cari leader religiosi.. non avrej maj penzet a tutt quest’adesieun, a questo slancio uman e politic. L’umanità è miglior di quello che si dic… Non ho parol per l’emozzieun…. Viva il pianeta Terr… Viva la pace tra li popoli…! Tra un mineut il mondo non sarà più lo stesso!
Nella stalla non si sentiva volare una mosca. Donald J. si rischiarò la gola e cominciò il conto alla rovescia:
–diec
-nov
-uett
-sitt
-sej
-ciung
-quatt
-troj
-due
-jong…
Scoccò la mezzanotte.
Come d’incanto, il globo si illuminò di un bagliore mai visto.
Fu un gigantesco regolamento di conti.
Dal Paraguay alla Russia, dalle Coree all’Arabia Saudita, fu un’unica detonazione di razzi e bombe, missili e granate. Seguirono una serie di esplosioni a raffica, un tremolio spaventoso e, col rumore di un gran peto, la terra esplose come una zucca vuota.
Dopo aver resistito a cataclismi e terremoti, meteoriti e pestilenze, il mondo fu incenerito da troppa bontà.
FINE