I racconti del Premio letterario Energheia

Effetto farfalla_Franco Cadenasso, Genova

islanda11Racconto finalista decima edizione Premio letterario Energheia.

 

Sparsi fazzoletti di erba lucida al sole interrompevano la candida continuità della macchia nevosa, quasi una coperta ormai logora che si portava addosso, i cicli del tempo.

L’inverno sarebbe finito ancora una volta, come era sempre accaduto, allontanandosi sconfitto a passo lento, avvolto nel suo freddo mantello.

Lupo arrotolava una sigaretta, seduto su una roccia che dominava la valle. Era assorto nei suoi pensieri, che ondeggiavano nell’aria sulle note di una triste canzone improvvisata da un’armonica a bocca a pochi metri da lui. Passò la lingua un paio di volte sulla lunghezza della cartina, poi cercò i fiammiferi. Si tolse il pesante mitra dalle spalle e lo appoggiò sulla roccia.

Una farfalla intanto svolazzava incerta tra le convessità irregolari della pietra e si posò infine sulla nera canna dell’arma. Lupo la notò e rimase a guardarla, con il fiammifero acceso tra le dita. Sentì il prepotente impulso di scacciarla, di farla volare via. Di allontanare quella creatura fragile dal rozzo e terribile appoggio. Stava per allungare la mano, quando dei passi alle sue spalle lo fecero voltare. Era Baletta, così soprannominato perché il più giovane della Brigata. Con l’agilità dei suoi sedici anni, il ragazzo saltò tra le rocce e si sedette accanto a Lupo.

“Ciao, comandante…”, disse sorridendo.

Le mani sporche e il viso cotto dal sole e dal freddo offendevano la freschezza dei suoi pochi anni, un paio dei quali trascorsi sui monti, insieme ai compagni.

Lupo allungò la sigaretta verso Baletta, che fece cenno di no col capo.

“Quando diventerai uomo?”, gli chiese Lupo sorridendo.

“Non mi va di fumare. Mi dispiace…”

Lupo lo guardò con affetto fraterno, poi gli passò una mano tra i capelli.

“E’ l’unica cosa dei grandi che non fai, Baletta…”

Rimasero un po’ in silenzio. Baletta osservava la farfalla, che era tornata a svolazzare, per poi allontanarsi verso altre curiosità.

“Ehi, comandante”, attaccò Baletta. “Cosa farai quando sarà tutto finito?”

“Mi sposo, Baletta”, rispose l’altro. Quindi si fece pensieroso e perse lo sguardo nella valle.

“E’ bella?”, chiese il ragazzo e Lupo recuperò lo sguardo e lo rivolse a Baletta.

“Sì”.

“Non hai una fotografia?”

Il comandante lo guardò con rimprovero.

“Non conviene portare con sé certe cose. Se mi prendono, potrebbero fare del male anche a lei…”

Baletta rimase in silenzio, maledicendosi in cuor suo per quella ingenuità.

“Bastardi fascisti…”, disse infine.

Lupo finì la sigaretta e la schiacciò sulla roccia. La farfalla ora volava ancora sulle loro teste.

“E tu cosa farai, se tutto finirà davvero?”

Baletta staccò un filo d’erba e lo mise tra i denti.

“Ho voglia di vedere mia madre…”, rispose, con un sottile velo tra gli occhi e l’anima.

Uomini e mezzi oziavano sulla riva del fiume. I resti del vecchio ponte affioravano di qualche metro dall’acqua, quasi braccia al cielo che reclamavano giustizia.

Lottando contro l’impeto della corrente che portava a spasso le nevi sciolte dai monti, squadre di soldati alleati armavano un nuovo passaggio, affinché gli eserciti potessero raggiungere l’altra sponda. I tedeschi si erano ritirati verso l’interno, lasciandosi alle spalle distruzione e campi minati.

Un gruppo di ufficiali alleati osservava la scena dall’alto di una collina. Guardavano il cielo, che appariva sereno e prometteva la primavera. Una brezza leggera ma ostinata aveva spinto lontano le nuvole e guerrieri più antichi vi avrebbero letto un benevolo responso.

In pochi giorni uomini e mezzi sarebbero passati dall’altra parte del fiume, per stanare i nemici e ricacciarli verso nord, completando così la liberazione dell’intera penisola. E il tempo era con loro, come se Dio avesse finalmente deciso da che parte stare.

Gli ufficiali si salutarono soddisfatti e gonfi di speranze e si ritirarono negli alloggi improvvisati. Un altro giorno stava morendo, un giorno che veniva a mancare all’utopia dei mille anni del Reich.

E finalmente la Brigata entrava in città. Ancora qualche raro sparo, che moriva nell’eco assorbita dai palazzi. Poi più nulla.

Gli Alleati erano alle porte, ma lo Stato Maggiore Tedesco si era già arreso alla banda scesa dai monti e le armi e gli stendardi si abbracciavano indifesi, ammucchiati in disordine sul selciato della piazza. La gente faceva festa, sventolava tricolori e bandiere rosse, tra qualche timida insegna monarchica. E poi, con l’imperdonabile ritardo di vent’anni, aveva inizio la caccia al fascista.

Ippolito, convinta camicia nera già dalle prime ore, si aggirava impaurito all’ombra delle case.

Impugnava l’ormai inutile pistola, che da sempre era stata il suo vanto e fiera appendice della sua indiscutibile virilità. Incontrò un altro paio di fascisti, anch’essi in divisa, e si ricompose. Maledisse i tedeschi, che si erano vigliaccamente calati le braghe ai traditori comunisti, e incitò i due ad affrontare i nemici, fosse anche l’ultimo atto della loro vita. Uscirono su una piazzetta, dove un gruppo di moderati padri di famiglia e rotonde madri della stessa era sceso per manifestare la propria solidarietà con i liberatori. La repressione maturata negli anni o più semplicemente la necessità di salire a pieno titolo sul podio dei vincitori, aveva trasformato le miti formiche operaie in voraci guerriere, che massacrarono i due fascisti, fino a sventrarne anche gli stivali.

Ippolito si era tenuto in disparte e si era rifugiato in un portone.

Un appartamento del primo piano, lasciato incustodito dagli occupanti che erano scesi in piazza, gli offrì l’opportunità di liberarsi della scomoda divisa. Cercò febbrilmente nei poveri armadi abiti più consoni e infine strappò un lembo di tenda e ne improvvisò uno scucito e glorioso fazzoletto rosso, che legò al collo senza ripugnanza.

Nella via principale, tedeschi e fascisti marciavano sconfitti, scortati dalle festanti bande partigiane. Lupo camminava in testa, sventolando il fazzoletto rosso verso la popolazione assiepata ai bordi della strada. Al suo fianco, Baletta trotterellava fiero, reggendo un grosso mitra che gli tormentava la spalla.

Qualche fila più indietro, confuso tra i partigiani, c’era Ippolito.

Lupo stava per allungare la mano, quando dei passi alle sue spalle lo fecero voltare. Era Baletta, che saltellava sulle pietre.

Tornò a guardare la farfalla, ma sentì il calore del fiammifero che aveva tra le dita. Se ne liberò e il gesto spaventò il povero insetto. Prima di alzarsi in volo, sbattè convulsamente le ali, ad una velocità impensabile per le modeste forze che una farfalla parrebbe possedere. Poi si allontanò fino a sparire, mentre Baletta si sedeva sorridendo accanto al suo comandante. Intanto il sole primaverile cadeva obliquo sulle macchie di neve, riflesso dai cristalli in tutte le direzioni.

Non erano passate che poche ore e sulle acque del fiume il sole scivolava radente, mentre gli uomini lavoravano di fretta all’armatura del nuovo ponte. Gli ufficiali osservavano nervosi, quando uno di essi indicò allarmato qualcosa che si affacciava dai monti. Dense e minacciose nuvole nere si inerpicavano a fatica, nel tentativo di superare l’impervia rotondità del profilo terrestre.

Gli ufficiali scrutarono l’orizzonte, con la speranza e il timore di ciò che i voluminosi binocoli potessero rivelare.

Le nubi lambirono finalmente le punte dei monti e presero a scivolare più veloci, come se avessero acquistato nuova energia. In poco tempo coprirono completamente il sole e la loro ombra passò densa prima sul fiume e infine sui berretti fregiati degli ufficiali, ora scomposti. E in breve la massa d’acqua perforò l’aeriforme contenitore e si scaricò con violenza e rumore su uomini e mezzi, sulle tende e sul fiume, non riconoscendo i graduati dalla truppa, diventati all’unisono mobili e indifesi bersagli. Intanto il giorno andava lentamente morendo e la poca luce trasformava le gocce cadenti in momentanee e improvvise scintille che alitavano nell’oscurità.

I giorni che seguirono tennero bloccate le truppe sotto un diluvio che gonfiava la massa del fiume e che non accennava a sgonfiare la densità del cielo. Gli Alleati, assediati tra il mare e la montagna, non potevano che rimanere in attesa della fine di quel castigo, mentre i Tedeschi, in posizione favorevole, trovarono il tempo di riorganizzare le forze.

Sul dissestato formicaio delle truppe di liberazione, alla pioggia seguirono i colpi del nemico, che caddero precisi e mortali a sconvolgere il paesaggio fangoso.

Il disastro accaduto agli Alleati rinvigorì animi e armi tedeschi su tutti i fronti e la liberazione della penisola, alle porte come la primavera, si risolse in un sogno perduto.

Lupo guardava il cielo, con la speranza di trovare tra le nubi lontane un punto in avvicinamento, il rumore amico di un motore, che avrebbe paracadutato viveri e armi.

“Ancora niente?”, chiedeva Baletta, sperando che il comandante avesse vista migliore della sua.

Lupo scuoteva la testa, passava un braccio sulle spalle del ragazzo e mestamente i due rientravano al campo.

L’armonica era muta da tempo.

Un giorno, mentre Lupo stava sulla roccia a scrutare il cielo, l’aiuto che da questo tardava a volare lasciò il posto alla vera minaccia, che il comandante da giorni temeva.

Sulla scoscesa costa della montagna, uomini e cani salivano rapidi, quasi si potevano udire le bestemmie tedesche e l’alitare feroce e bavoso degli animali. La partita era persa, l’assedio alla esigua Brigata si sarebbe risolto nell’inevitabile massacro della stessa e delle speranze che in essa tanti cuori avevano posto.

Lupo chiamò i suoi uomini e rimandò le lacrime della disperazione a quando fosse rimasto solo. Con l’autorità conferitagli da mesi di comando, ordinò loro di fuggire e disperdersi. Chissà che il futuro non potesse rivederli ancora insieme, per il riscatto finale. Non poterono che obbedire e Baletta venne fatto allontanare a forza, non volendo lasciare il suo comandante. Infine, tra le rocce che dominavano la valle sottostante, Lupo e pochi altri aspettarono il nemico, a cui avrebbero opposto resistenza il tempo necessario affinché il resto della Brigata potesse mettersi in salvo.

Ippolito seguiva il gruppo nutrito dei tedeschi, dietro di lui un manipolo di camicie nere che calpestavano i nudi arbusti della schiena del monte. Incitò i suoi, voleva arrivare tra i primi e prendersi buona parte del merito dell’operazione di rastrellamento. L’ultimo tratto della salita costrinse gli uomini a distanziarsi, chi passando tra le rocce, chi costeggiando un pendio di radici scheletriche che spaccavano il terreno in cerca di luce. Ippolito saliva appoggiandosi alle pietre, attorno a lui il silenzio della battaglia imminente. Felicino lo vide e si allungò pericolosamente sulla pancia del pendio, a rischio di volare di sotto. I passi di Ippolito portavano proprio sopra il suo ingenuo rifugio e il fascista lo avrebbe sicuramente scoperto. Felicino lasciò scivolare la mano fino alla cintura dei calzoni e sfilò il vecchio coltello con cui aveva affettato pane e formaggio con i compagni sui monti. Pensò a Lupo e agli altri rimasti sulla cima, intuendo che prima di loro sarebbe toccato a lui finire sgozzato tra le rocce. Aprì il coltello, quando lo stivale di Ippolito stava appoggiandosi sull’ultimo metro.

“Io o te…”, pensò Felicino, quando già era in piedi e affondava la lama nella carne morbida racchiusa nella camicia nera. Il sangue devastò quel mondo secco di polvere e arbusti, inzuppò la camicia nera di Ippolito e le mani e il viso di Felicino. Ippolito cadde senza capirne il perché, la testa rivolta alla cima che mai avrebbe raggiunto.

Felicino lo finì con altri colpi, poi rimase in piedi a guardarlo.

Non sapeva da che parte scappare e intanto non riusciva a staccare gli occhi da quelli del morto, spalancati al cielo.

Non ci furono pensieri o ragionamenti, sentiva la testa vuota e incapace di realizzare il da farsi. E intanto stava sbottonando la camicia del fascista, i calzoni, sfilava gli stivali e soltanto quando, spogliatosi dei suoi abiti, si ritrovò addosso, la divisa del nemico, capì finalmente cosa avesse fatto. Allora fuggì verso valle e nella sua mente il piano fu improvvisamente chiaro.

Il drappello di nazi-fascisti scendeva verso il paese. Alcuni soldati tenevano a fatica i feroci cani, che avevano nelle narici l’odore di casa e del pasto. Lupo camminava a testa alta, seppur ferito in più parti. Accanto a lui si trascinava Baletta, che aveva finto la fuga per poi raggiungere il suo comandante. Del gruppo rimasto a coprire la ritirata ai compagni, rimanevano soltanto due sopravvissuti. I nemici li portavano a valle per mostrarli alla gente, fatta uscire dalle case per assistere alla fucilazione dei traditori.

A ridosso del basso e scalcinato muro di pietra, un uomo e un ragazzo tenevano gli occhi socchiusi, feriti dagli ultimi raggi radenti del sole e della vita. Lupo si voltò verso Baletta, che lo stava guardando. Sorrisero entrambi e Baletta riuscì a far passare tre parole, attraverso la gola stretta nella morsa di polvere e di paura.

“La tua fidanzata…?”

Lupo non ebbe il tempo di rispondere. Rispose per lui la raffica dei mitra e l’eco che rimbalzò tra le case e risalì in parte la valle.

Felicino stava in silenzio, tra i fascisti che osservavano compiaciuti la scena. Due colpi di pistola dell’ufficiale tedesco assicurarono al di là i due nuovi arrivati e l’eco ripeté il percorso già noto.