Futuro Remoto, I racconti Futuro remoto

Eleonora_Piernicola Silvis

Il vicolo è semivuoto.

Provata dal caldo, Eleonora cammina sentendo l’eco dei suoi passi fra le case del Sasso Caveoso. A passo lento, torna verso l’Hotel Caveus, un quattro stelle intimo costruito all’interno di una delle centinaia di abitazioni che, nel corso dei secoli, l’uomo ha edificato senza regole.

È Matera. Sono i Sassi. Lì sono nate la vita e l’anima di Eleonora, in quel dedalo di vicoletti in cui non passa mai nessuno. È arrivata nel pomeriggio, dopo dieci ore di viaggio. Non ha più parenti a Matera, e domani penserà alla vendita della vecchia casa di famiglia, adesso vuole solo passeggiare e respirare l’aria della sua gente. Una guida turistica che si trascina dietro una comitiva di giapponesi accaldati le passa davanti.

Matera è il suo luogo dello spirito, il letto dell’anima. Passo dopo passo, Eleonora torna indietro negli anni, respira l’aria dell’infanzia e dell’adolescenza, l’aria bella del suo Sud, quel Sud buono dove non esistono casalesi, mafiosi e ‘ndranghetisti, ma solo gente benvestita e cortese che ti invita a bere un bicchiere a casa se ti vede da solo per strada, o che dà da mangiare ai gatti randagi togliendosi il pane di bocca; quel sud dove organizzano festival cinematografici e premi letterari e concorsi di bellezza. C’è un bar, anche un fast food. Anche a Matera è arrivato il vento di Corso Buenos Aires, Milano?, pensa; anche qui tira il soffio di chi non ha tempo da perdere e che se vuoi mangiare è meglio che addenti un hamburger perfettamente identico a quelli che potrebbero darti anche a Pietroburgo o a Bombay?

Forse.

Eppure nulla scalfisce, in lei, l’urlo ferito delle antiche scalinate vuote e delle case disabitate scavate nella roccia. Camminando, Eleonora sa di calpestare la Storia, quella che ha portato l’essere umano a incontrare quel colossale catino naturale, scavare la roccia per avere un posto dove dormire, e poi continuare a edificare case in modo schizofrenico addossandole l’una sull’altra fino al 1950.

Lungo quei vicoli vuoti e scarsamente illuminati da lampade giallastre esseri umani come lei avevano vissuto al buio, sotto la pioggia e al freddo, cibandosi di quello che riuscivano ad arraffare in giro, un po’ di pane, qualche radice. Qualche animale.

Arriva alla lunga balconata che dà sulla Gravina. Si affaccia a guardare il burrone. La sensazione che da sempre quella vista le procura è di terrore. La Gravina di Matera, il burrone su cui si affaccia la città nella zona dei Sassi, è brulla, nera, profonda. Agghiacciante. Poi il burrone risale per formare una collina senza alberi che si staglia spettrale nel chiarore pallido della luna. Pensa al sangue che per secoli è scorso lungo quelle strade. Si asciuga il sudore, cammina ancora e arriva a San Pietro Caveoso, la chiesa eretta sulla roccia viva.

Basta. Basta, si dice. Basta correre, basta dannarmi, basta stare dietro a figli di puttana che uccidono i propri simili, basta difendere uomini che picchiano mogli incinte o altri che si vendono l’anima per una barca o una vacanza. Basta con questa vita che mi ha distrutto, che mi ha reso una nullità morale.

Cosa potrei fare di diverso? Sono un avvocato, so fare solo questo, scavare nei codici e nelle sentenze della cassazione per cercare i più discutibili cavilli e portare all’assoluzione colpevoli e, spesso, condannare innocenti. Sono stanca di tutto questo. Mi sono stancata di fare la docente ordinaria di cinismo. Mi sono davvero rotta i coglioni, vorrei smetterla con questa vita: ma poi che faccio?

Una folata di vento caldo proveniente dall’inferno nero della Gravina le colpisce la fronte asciugandole il sudore che cola.

Voglio vivere senza più correre, per favore; ti prego, anche se non so chi sei.

Eleonora guarda i Sassi, il buio del burrone, sente il vento sulla pelle, il profumo dei suoi giorni felici, l’eco della Bella Stagione passata per sempre.

“Voglio vivere”, si dice. Vivere.