Epistole su Lucano Poeta, Carla Fiorentino_Messina
Finalista Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione giovani
PERSIUS CORNUTO SALUTEM
S.V.B.E.E.Q.V
Caro Cornuto, mio maestro, sento fortemente la tua mancanza e mi duole l’assenza del migliore fra i miei amici, Lucano, che è partito per Atene ormai sei mesi fa. Ho caro nel cuore il ricordo del portico e della tua scuola, vorrei potervici tornare e ritrovarmici di nuovo fanciullo. Ricordo come ci rimproveravi: “Persio, Lucano! Quand’è che finalmente metterete giudizio!” quando scorrazzavamo come lepri per i giardini strappando i frutti maturi dagli alberi.
Quando tu, maestro, parlavi, le tue parole si mescolavano al suono del fiume che scorreva sulle rocce. C’era qualcosa nel tuo viso, serio, calmo e pieno di autorevolezza, che sembrava renderci piccoli, incapaci di vedere un futuro oltre quei momenti di gioco. Vicino a te era difficile ricordare di stare crescendo. Eravamo ammiratori della tua saggezza e trascorrevamo le sere insieme, dibattendo sui tuoi insegnamenti fino a tardi, attorno alle braci del fuoco.
Lucano è sempre stato un uomo dall’anima e dal cuore grandi, e io lo rimproveravo spesso: avrebbe dovuto essere più furbo. Io, dal canto mio, riconosco in me stesso una razionalità forse troppo prepotente, perciò, di lui, ho sempre invidiato l’animo coraggioso e passionale. Diceva di amare la schiettezza delle mie parole,: “semplici e sincere come quelle di un bambino, disarmanti per la loro onestà”. Mi ripeteva che pareva parlassi quasi sottovoce, allora io, per dargli noia, lo costringevo a parlarmi sussurrando, e quanta serenità trovavo in quei dibattiti! Ci regalasti tempi felici, caro Cornuto!
Il giorno in cui fu introdotto nella scuola, il cordovano aveva solo tredici anni, io ero più grande e già maturo, ma la sua innocenza fu un morbo contagioso: era marmocchio nei giochi e decrepito negli studi. La nostra amicizia nacque proprio quel giorno, come un torrente che sgorga impetuoso dalle montagne.
Oggi odio profondamente tutti i nuovi poeti che Roma celebra, tranne che Lucano stesso e pochi altri. Declamano come petulanti uccellacci dalle bocche larghe. Già tempo fa scelsi di lasciare a loro tutta l’ispirazione delle dee dell’Elicona, che sicuramente gli serviva più che a me. Mi sono sempre bastate, infatti, le mie stesse capacità e lo studio dei grandi oratori e poeti del passato, di quando la parola era ancora arte e non un giochetto di puro piacere.
Tutti edonisti balbuzienti, pensano a sedurre e persuadere l’uditorio, quasi stessero parlando con le proprie donne al talamo la notte di nozze. I loro discorsi sono insignificanti, con le loro parole altisonanti tentano di dar peso al fumo dei loro argomenti.
Sono dolci invece, i versi di Lucano. Ed ora che si trova nella terra di Orfeo, le parole delle sue lettere sanno di miele. Siamo due uomini diversi e ostinati. Io preferisco l’aspra satira all’epica e alle lodi che lui compone, ma mai potrò odiare ciò che proviene dall’animo suo.
Quando finimmo la scuola, ci giurammo fedeltà: ci trovammo in un’insenatura della spiaggia nascosti nell’ombra di una luna piena a metà che riluceva al di là degli scogli. Le onde erano tiepide, cariche di sabbia. Usammo uno dei miei rasoi, poiché lui era ancora giovane e imberbe, ci praticammo dei tagli sui palmi e intrecciammo le dita nel sangue stringendoci forte le mani: decidemmo di prometterci che avremmo vissuto per la poesia e saremmo morti da stoici. Ci vincolammo a vita a questo segreto, che adesso conosci tu soltanto, per preservarlo se io non dovessi vivere ancora a lungo.
Questa malattia mi svelle lo stomaco da settimane. È un decorso lento, potrebbe volerci anche qualche annata prima che i sintomi culminino e lo stomaco collassi. Ora, io mi trovo solo nella mia dimora in campagna, qui ho sempre desiderato vivere, e qui desidero morire: lontano dalla città e dai vizi. Dedicherò quanto mi resta da vivere alla poesia, e poi morirò da stoico, come promesso. Perciò mi pervade un senso di tranquillità. Non riesco a pensare a una morte più dolce.
Non rattristarti per me. Ecco il nostro errore: noi vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle. La vita passata appartiene alla morte. Ti dirò ancora una cosa: se vivrò, allora verrò a trovarti nella tua villa, e attenderò di salutare Lucano di ritorno dal suo viaggio. Comunque vada, considera tua la mia biblioteca, perché al tuo consiglio essa deve i libri più nobili e belli.
Etiam atque etiam vale.
LUCANUS PERSIO SUO SALUTEM
Mio Persio, caro amico. Mi manchi terribilmente. Mi riempirà di gioia avere tue notizie, non vedo l’ora di sentire negli orecchi il sussurro delle tue parole, quando mi scriverai. Devo confessarti, che nonostante io sia lontano dai miei affetti, sono molto felice qui.
La Grecia è un luogo d’idillio, ti piacerebbe incredibilmente. L’estate è diventata più calda e noi cerchiamo sollievo nell’ombra dei fiumi. Mi piace sentire il sole che mi batte sullo stomaco. Mi è stato detto che il ghiaccio invernale è durato più del solito. I giorni trascorrono tranquilli, mangiamo nelle nostre stanze e passiamo lunghe ore lontano dalla scuola, esplorando la regione. La sera, tuttavia, dobbiamo tornare alla grande sala ed esercitarci con le orazioni. I maestri sono molto severi ed austeri, le barbe lunghe nascondono la vecchiezza delle loro facce.
Una cosa insolita, però, mi è accaduta nelle ultime settimane. Vi è un giovane qui, che studia con me alla scuola, con cui ho avuto l’occasione di passare parecchio tempo. E mentre nuotavamo o parlavamo, è emersa una sensazione. Qualcosa di simile alla paura per il modo in cui mi colmava e cresceva nel mio petto. Qualcosa di simile alle lacrime per il modo improvviso in cui arrivava. Ma non era nessuna delle due, poiché era esuberante e non greve, luminosa e non spenta. In vita mia avevo già conosciuto l’appagamento, brevi frammenti di tempo in cui mi ero dedicato a qualche piacere solitario: scrivere versi, viaggiare, sognare. Ma in realtà, si era trattato non tanto di una presenza quanto di un’assenza, di una sospensione della paura.
Questa sensazione invece era diversa. La mia lingua si scioglieva spesso, inebriata dalla libertà. Questo e quello, gli dicevo. Non temevo mai di parlare troppo. Potevo sentire ogni nervo del mio corpo, ogni carezza dell’aria sulla mia pelle. E poi mi accorsi di quanto fossi cambiato. Qui non sono solo i servi e le donne ad amare gli uomini, ma anche i ragazzi stessi. È uso che qui l’uomo insegni al ragazzo a comportarsi come si conviene e lo porti ovunque con sé. E capita spesso che ciò che c’è tra loro sia più intenso di come vorrebbe apparire. Lui non mi ha insegnato nulla che io non sapessi già, eccetto che a conoscere me stesso e ad accorgermi di come il mio cuore possa sentire così fortemente. È un affetto spogliato da ogni morbosità e restituito alla naturalezza con cui i greci lo intendono. È cambiato tutto ma non mi sono mai sentito più a mio agio di adesso.
Benché io volessi renderti partecipe della mia felicità, il mio cuore è turbato dalla preoccupazione per la tua salute. Da quando mi hai detto delle tue tribolazioni, non faccio che pensare di voler tornare a Roma per assisterti.
Mio caro amico, non temere. Gli dei nascondono agli uomini la dolcezza della morte, affinché essi possano sopportare la vita. Tu conducesti una vita retta ed esemplare: nelle amicizie hai dato tutto te stesso, nella poetica hai denunciato le scorrettezze, e mai, stando con te, io avvertii il peso della vita. Sei stato un compagno fedele per tutta la mia vita e io vorrei che tu pensassi lo stesso di me: la fedeltà, quando sostiene gli amici che la fortuna schiaccia, è lodata, ma c’è da pagare una pena.
Perderti priverà la mia anima di una sua parte. Ma per te, separarti da questo mondo con la dignità che ti contraddistingue, e con coraggio trovare la pace, sarà un premio alla tua forza. So che il mistero delle tenebre ti solleverà giusti timori, ma essi non hanno alcuna utilità. Immaginare la propria fine lascia le paure correre veloci come cavalli imbizzarriti e attraversarci tutto il corpo con forti fremiti. Così ogni persona con le sue paure dà ali alle sue fantasie, e, senza nessun vero motivo di apprensione, gli uomini temono ciò che essi stessi hanno immaginato. Allora ascoltami bene, mio Persio: anche se il timore avrà sempre più argomenti, scegli la speranza.
Io ti starò vicino più che posso, e ti prometto che il nostro patto mi accompagnerà finché anch’io non ti raggiungerò lì dove sarai e ci ritroveremo. Tu difendi l’eterna vitalità dei valori giusti: che possa giovare l’impegno della nostra fatica, ispirando speranze, timori e voti; seppur destinati a perdersi in una realtà che ne è il completo stravolgimento.
Mio Persio, sei caro al mio cuore. Ci rivedremo. Fino ad allora, cercherò di non abbandonarmi allo sconforto, facendo tesoro del tuo ricordo, e farò in modo che la morte, alla sua venuta, mi trovi vivo.
Etiam atque etiam vale.
SENECA LUCANO SUO SALUTAM
Non sono passati 5 anni dal tuo ritorno a Roma, Lucano, e già non ne puoi più. La ragione di questo disagio la attribuisci al malgoverno di Nerone. Sei stato cresciuto dalla nostra famiglia con un’ideale di libertà che è ormai talmente radicato dentro di te che ti è impossibile adeguarti a qualsiasi tentativo di prevaricazione. Da quando nascesti e io ti fui zio, la libertà è ciò che ho voluto insegnarti.
Le offese personali che il principe ti ha arrecato fino a questo giorno, tu le hai tollerate con pazienza. Ma dopo l’incendio, come molti di noi, tu hai riconosciuto la vera minaccia che il potere detenuto da una mente instabile rappresenta per tutta Roma e i territori ad essa sottoposti. Per i cittadini, per gli artisti e per la sacrosanta facoltà di pensare e parlare. L’economia, i raccolti, la storia di questo impero che solo poche settimane fa bruciava tra le fiaccole, sono a rischio.
Nessuno si azzarda a opporsi apertamente a lui, poiché detiene, oltre che il potere delle leggi, quello del terrore. Commette crimini copiosamente, e divide la colpa con costoro ai quali fa mettere in atto i suoi atti di meschinità. Dibattendo lungamente, concordammo che un crimine che sia crimine di molti non viene vendicato da nessuno.
E, sebbene questo sia vero, noi non congiuriamo per bramosia di vendetta, bensì per difendere secondo le nostre possibilità e i nostri valori la libertà della repubblica, poiché aborriamo la tirannia. Se la vita non consente più un sereno esercizio della ragione, il saggio è pronto a rinunciarvi, convinto che morire bene significhi sfuggire al pericolo di vivere male. Partendo da questi principi abbiamo organizzato la nostra azione.
È necessario che tu sia determinato, Lucano, giacché è già successo che tu, colto dal timore per te stesso, rischiasti di mettere in pericolo gli altri. Sono a conoscenza dell’accusa che hai sporto verso tua madre, e non ti nascondo la mia delusione per essere mancato ai tuoi stessi valori. A entrambi è stata salvata la vita per favore della Fortuna, ma non ti fidare della momentanea bonaccia: fa presto il mare ad agitarsi. C’è una grande differenza tra il non volere e il non saper peccare, ragazzo, e uno stoico non conosce peccato.
Persino la liberta Epicari, denunciata da Proculo dopo che lei ebbe tentato di coinvolgerlo nel nostro disegno; scelse il suicidio pur di non rivelare i nomi dei complici dopo essere stata più volte torturata. É lei il fulgido esempio dell’ideale stoico, offerto a noi uomini da una donna. Lei in un così grande pericolo volle proteggere degli estranei, mentre uomini liberi, cavalieri e senatori, senza essere sottoposti a tortura, tradivano ognuno le persone più care.
Pisone e Rufo si pongono in testa alle nostre schiere e pianificano la caduta dell’Imperatore. Durante i prossimi giochi, Plauzio Laterano dovrebbe attraversare l’arena per gettarsi supplice ai piedi del principe, sferrando il primo colpo, e noi dovremmo seguitare a lui prontamente. Vale la pena tentare e sperare in una buona riuscita, ma non è da escludere il peggio.
Giovane Lucano, il destino guida chi lo segue di sua volontà, ma chi si ribella, lo trascina. Nessuno è pronto a questo, nessuno ci insegna a perire: ci vuole già tutta la vita per imparare a vivere e, quel che forse sembrerà più strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire. Si vive sempre come se si potesse attingere la vita da una fonte inesauribile, senza considerare quanto del nostro tempo sia già trascorso.
Tieni perciò a mente questo, Lucano: come tutti i fiumi, tutte le piogge e le sorgenti curative non alterano il sapore del mare, né l’attenuano, così l’impeto delle avversità non fiacca l’animo dell’uomo forte: resta sul posto e qualsiasi cosa avvenga la piega a sé; è infatti più potente di tutto ciò che lo circonda.
Non troveranno prove, questo è certo. Quando inevitabilmente verremo condannati, sarà allora chiaro chi aveva già ottenuto il disprezzo dell’imperatore senza avergli fino ad adesso arrecato alcuna offesa. Allora fatti coraggio, caro ragazzo, il saggio stoico è libero sul trono come in catene.
Cura ut valeas.
THRASEA PAETUS MARTIALI S.D
A un anno dalla morte di un illustre amico ed esemplare modello di stoico libertario e difensore della repubblica quale fu Lucano, mi presento a te con questa lettera, Marziale, poiché mosso dall’ira e dallo sdegno. Non mi è mai importato che prima o poi venisse la mia volta di soccombere, dunque non tacerò. È assolutamente necessario agire. E tu stesso devi sapere tutta la verità da chi ne fu diretto testimone: il mio nome è Trasea Peto, senatore.
Ebbene ascolta: questo è Nerone. È colui che commise matricidio con orgoglio e piacere, indirizzando lo stesso Seneca ad aggredire Giulia Agrippina insieme a Burro ma condotti da Aniceto: sapeva infatti che i pretoriani erano rimasti fedeli alla potente signora. Trovarono Agrippina da sola, nella sua camera, abbandonata dalle vili guardie e dalle paurose ancelle: le colpirono la testa per stordirla e, poiché lei stessa ordinava così, le squarciarono quel ventre maledetto che aveva generato un figlio mostruoso.
Quando, poi, Nerone inviò al senato una lettera in cui giustificava l’appena compiuto omicidio della madre, io fui il solo ad uscire dall’aula anziché congratularmi con lui come fecero gli altri senatori. “Non posso dire ciò che voglio e non dirò ciò che posso” azzardai guardandolo in volto, il suo sguardo orrendo mi trafisse lo stomaco. Da quel giorno mi odiò, e io ne fui soddisfatto: meglio aver paura di morire che aver paura di sperare, imparai da Seneca. Lui stesso tradì per il bene della patria e fu condannato.
Lo Stato da anni veniva scosso e percosso senza sosta dagli spasmi di follia dell’imperatore. Quanti omicidi e imbrogli, quel meschino! Il suo potere si nutriva della paura dei suoi sudditi , senza di essa Nerone sarebbe rimasto un ometto debole e incerto.
Poi, avvenne che un giorno la dea Mania ispirò quel pazzo: lo colse una straordinaria perfidia, e appiccò il fuoco in tutta la città. Incolpò i cristiani, ché rifiutandosi di venerarlo come un dio si erano guadagnati a ragione tutto il suo disprezzo.
La sua tracotanza superava ogni limite. Nessuno osò nemmeno combattere il fuoco, “per le ripetute minacce di molti che proibivano di spegnerlo e perché altri lanciavano fiaccole e gridavano d’aver ricevuto ordine di incendiare tutto”, così si racconta. Fiamme e carbone ovunque, lo splendore di Roma che s’inceneriva davanti ai suoi occhi ghiacciati. Nemmeno un’emozione celata dietro la sua voce che risuonava forte dal colle, mentre e cantava l’Iliou persis guardando il suo impero bruciare:
[…] “sopra le navi gli Argivi
ascesi, e date al fuoco le tende, si misero in mare.
E Ulisse, in Troia già, nascosto al cavallo nel grembo,
era coi suoi compagni, già stretti i Troiani a consesso,
che aveano entro la reggia condotta essi stessi la fiera.
[…]E sovra gli altri dovea prevalere quest’ultimo avviso:
ch’era per essi fatale soccombere quando la rocca
avesse accolto il grande cavallo di legno, ove tutti
eran gli Argivi piú forti, forieri di morte ai Troiani.
E cantò poscia come, gli Achei, dal cavallo balzati,
lasciato il cavo agguato, la rocca mettevano a sacco.
Cantò come chi qua chi là saccheggiarono Troia,
e come Ulisse, insieme col pari agl’iddii Menelao,
simile a Marte, piombò di Deífobo sopra la casa:
Narrò come la guerra piú dura egli quivi sostenne,
e la vittoria a lui consenti la magnanima Atena.”
La gelosia, poi, lo rodeva dentro: apprezzò Lucano finché non comprese di non poterne eguagliare la poetica, la bravura del poeta adombrava la vanità del principe, così si prese più volte la libertà di interromperlo durante le declamazioni. Subì vessazioni e umiliazioni per mesi, fino a essere spogliato della sua carica di questore e allontanato dalla corte. Tornato in città vide il popolo vivere nel timore e nella povertà mentre Nerone nuotava nel lusso. I cristiani venivano martoriati e la censura non permetteva di parlare o di scrivere liberamente. Il poeta, impulsivo com’era, non si curava di inveire apertamente contro l’imperatore, così lo zio Seneca lo introdusse a Gaio Pisone.
Esasperato, Lucano prese parte alla congiura dei Pisoni organizzata per uccidere il princeps, e venne accusato già una prima volta. E lui, preso completamente dal terrore di morire, si umiliò, arrendendosi alla delazione: incriminò la sua stessa madre, povera Acilia. Venne poi accusato per la seconda volta, e fu definitivamente condannato. A lui seguirono nello stesso anno Lucio Seneca, Petronio Arbitro, Gneo Corbulone e e lo stesso Pisone. Ma Nerone ancora adesso non si ferma.
Ebbene, oggi ti scrivo, caro amico, poiché ho affrontato un processo e anch’io ho ricevuto da pochi giorni la mia condanna. Mi aspetta una lama sottile che mi condurrà a un’eternità di tenebre. Ma avrò coraggio. Ti saluto con la speranza che la verità sopravvivrà a tutti noi, e ti auguro fortuna, Marziale. Conserva per sempre questa lettera.
Vale.
ARGENTARIA POLLA STATIO S.D.P.
Spero che questa lettera ti trovi bene, Stazio mio caro amico. Sono ormai trascorsi venticinque anni dalla ricorrenza della “garbata tragedia”, come la chiamasti tu, che ci ha legati nella nostra corrispondenza.
Tra chi maneggia parole e versi l’anima appare più preziosa del corpo, e il ricordo più longevo della vita stessa. La memoria segue l’uomo nella morte, e prolunga l’affetto di chi lo stimava in vita. E di parole, versi, e memoria noi discorriamo da quando tu ti interessasti del mio triste stato allora, quand’ero pietosa vedova, e volesti che ti narrassi la vita del nostro perduto Lucano.
Ma mai mi chiedesti della morte di lui, forse per delicatezza, forse per non permettere allo strazio di stringere nuovamente il mio cuore debole di dolore. Ma serenamente puoi, caro Stazio, domandare a me o agli amici suoi che gli sopravvissero, di come la vita sgorgò dalle braccia di lui e dei compagni suoi; di come con gelido calcolo il princeps decretava la vita e la morte, la salvezza e la condanna, l’innocenza o la colpevolezza, l’amicizia o il tradimento, di chi lo aveva circondato per tutta la vita.
Gli aveva dedicato gloriosi versi, Lucano grande poeta. Ai certamina che Nerone stesso aveva indetto, grandi e celebri lodi gli tessé, tanto da ottenere dalle sue stesse mani la palma del vincitore. E solo cinque anni trascorsero affinché fossero quelle stesse mani a porgerlo alla tenebra con l’inganno di una libera scelta: il suicidio.
Ma che libertà è mai quella di scegliere di abbruttirsi il volto corrugato d’angoscia, deturparsi il corpo col dolore di tante lame, dilaniarsi le carni, e fargli soddisfare la sua fervente sete di sangue scarlatto, che tanto lo fece ruggire e annaspare come un cane furioso? Che nebbia di delirio doveva aver avvolto la sua mente vedendo i suoi nemici capitolare per propria mano, come penitenti di fronte a un dio, ottenendo che gli orrori della sua mente fossero commessi da altri? Obbligati a essere per se stessi vittime e carnefici, affinché le sue bianche mani non si lordassero di flutti bollenti.
Ma il sangue del marito macchia ancora la pelle permanentemente a me che portogli l’ultimo saluto, mi stesi a letto con lui da moglie, e mi vi risvegliai da vedova. Voleva che gli paresse una cosa naturale benché fosse stata indotta: così si spense nel sonno. Era tanto stanco, in effetti.
Ma ricordo che mai il senno lo abbandonò, sempre con grande lucidità seppe subito cosa bisognava si facesse prima che potesse avere inizio la sua esecuzione.
Una sera si sedette al tavolo per una notte intera, insonne. Alla mattina aveva scritto parole di fuoco, carta bollente consegnò agli araldi dell’imperatore. Una per una, le nefandezze e le perversioni di Nerone, uno per uno i nomi degli amanti e delle donne, dei delatori, dei sicari e dei corrotti alla sua corte; così che lui stesso avesse davanti agli occhi la sua scelleratezza. Non tralasciò nemmeno di distruggere il proprio anello, sigillo di famiglia, perché non fosse ancora una volta, il nome di un condannato a sottoscrivere liste di proscrizione contraffatte: squallidi mezzi quelli dei potenti, lo sapeva. Poi, servo fedele della propria poesia, la notte seguente scrisse una lettera d’addio all’amato padre annotando alcune modifiche ai suoi dolci versi, unica eredità che ritenne preziosa.
Venne così il lugubre giorno, a cui io non assistetti se non per vederlo dormire. Mi fu detto che si circondò di amici e altri stoici, ché solamente loro avrebbero potuto vedere tanto orrore in volto, tante ferite fluttuose. E che grida tremende sentivano senza scomporsi mai, senza oscurarsi l’animo!
Si fece “aprire e chiudere” le vene, mi dissero, “a suo piacimento”; e quando ebbe finito, consumò un lauto pranzo che mi aveva chiesto di far preparare, declamando versi sul valore della stoica morte di un soldato.
Trascorse gli ultimi momenti con i migliori tra i suoi. Mi riferirono che non pianse mai, bensì rideva e raccontava storie e si rallegrava con gli scherzi dei suoi compagni.
Venne infine da me, con un vestito lungo, con maniche pesanti, pallido in volto, gli occhi cerchiati. Mi strinse a sé, mi ringraziò e si addormentò. Non poteva essere più dolce e discreto con me, mi dispiacque.
L’avrei seguito negli inferi, ma non mi volle con sé, come non volle la moglie Seneca, suo zio, vittima tale e quale a lui dell’iracondo principe.
Anno dopo anno io onoro ancora la sua nascita, facendomi beffe del tiranno, uccisosi infine allo stesso modo in cui mi privò del marito. Bevo e, in barba all’Orco, declamo componimenti. Quelli più colmi di vita tra i miei e i suoi. Mi ispirò Trasea Peto, che libò il sangue delle sue vene a Giove Liberatore.
Ti invito allora a unirti a me e a chi lo apprezza, nella sua casa, in Novembre, per celebrare le parole, i versi e la memoria di Lucano, in quanto mio sposo, nostro amico e poeta caro a tutti.
Fac ut valeas.
Sitografia:
per la citazione poetica da Omero, “Odissea”, libro VIII, vv. 505 – 515 https://it.wikisource.org/wiki/Odissea_(Romagnoli)/Canto_VIII