I brevissimi 2016 – Era di maggio, al Caffè d’Italia di Sara Palmieri, Ravenna.
Anno 2016 (I sette peccati capitali – la gola)
Che dolce questo sole di maggio che si insinua tra i vicoli e si intrufola tra le imposte socchiuse!
La città dormiente si sta svegliando e tra poco scivolerà nel caos del romore dei cavalli e delle carrozze sul selciato, delle grida dei mercanti, del lamento dei mendicanti, del vocìo dei bambini, dei discorsi delle donne alla stesa delle lenzuola. Ma per ora lo scorrere del tempo è sospeso ed è nostro, artigiani della notte e dell’alba. Fornai, ambulanti, gestori di bar e di caffè. Ormai sono anch’io della categoria. Da qualche giorno sono garzone, lavabicchieri e cameriere di questo Caffè in piazza San Ferdinando: si chiama Caffè d’Italia anche se l’Italia ancora non c’è.
Qui vengono artisti e letterati, intellettuali che l’Italia vorrebbero farla. Mi piace origliare i loro discorsi, a volte urlati e altre appena sussurrati. Il Caffè lo apro io, aspetto il garzone del fornaio che porta i dolci ancora caldi: pasticcini, roccocò e millefoglie, babà e bignè, zeppole e cannoli, sfogliatelle ricce e frolle, che dispongo con cura nelle lustre vetrine del bancone. Ci so fare e il padrone lo sa e non si oppone, apprezza il piglio artistico che mi guida nell’incombenza. Studio e alterno le forme dei dolci e dei biscotti, accosto il bianco dello zucchero al nero del cioccolato, i colori variopinti delle decorazioni – diavoletti e scorze di canditi – con l’ambra del miele e l’oro della glassa alla nocciola. Così accomodati rallegrano subito l’atmosfera, rendendola avvolgente e calda, mentre il profumo dei dolci e l’aroma del caffè si fondono e invadono l’altro versante della piazza. Poi arriva trafelato il padrone, che si infila nel retrobottega e comincia a lavorare ai gelati, al cioccolato e alla frutta, e ai sorbetti al limone, quello ovale e giallo citrino che si produce a Sorrento. Dopo poco la mattina si anima del viavai dei clienti, alcuni hanno fretta e bevono d’un fiato i loro caffè, altri hanno tempo e li sorseggiano piano in attesa degli amici con cui inizieranno accese discussioni, che potrebbero sfociare in diatribe. Intanto la quantità dei dolci nelle vetrine si assottiglia e devo rimpiazzarla. Lui arriva nel tardo pomeriggio, si siede nell’angolo più scuro, ma il migliore per godere della vista della vetrina su cui a quell’ora si dispiega l’ultimo raggio di sole. Posa la tuba sulla sedia a lato, ma non il soprabito turchino, in cui, invece, si stringe di più. Si siede con difficoltà dopo aver lasciato il bastone e finalmente sembra più dritto, la curva delle spalle gobbe si mimetizza un poco. Apre un quaderno o un libro e comincia a leggere, avvicinando gli occhi piccoli e rossi fino a sfiorare le parole. Legge con avidità, la stessa con cui osserva i dolci, quasi contemplandoli, uno ad uno, prima di decidere quale gli servirò per primo. Non conto più i caffè zuccheratissimi che beve d’un sorso e che alterna ai sorbetti al limone e ai cannellini di Sulmona, che chiede numerosi in un piattino.
Lo sguardo acuto e mobile, che non immagineresti in un corpo così provato, va dalle righe del libro ai clienti ai dolci. A volte sorride nell’osservare, altre s’ incupisce. Non gli daresti un tornese, ma quando discorre si schiude l’infinito: la gentilezza dei modi e l’arguzia delle parole sapienti incantano e vorresti non smettesse mai. Corre una linea armonica tra quel suo osservare la vita e l’ingurgitare dolci, succhiare confetti, sorbire gelati, in maniera tanto bramosa. Non bisogna farsi ingannare dall’aspetto dimesso e triste, il suo cuore è gaio e la sua golosità pari all’ ansia di vita. Costretto in quel corpo, si danna di non poter vivere come vorrebbe ed è questo il cruccio più grande. Lo capisco anch’io, umile garzone di bottega. Quest’uomo intristisce ed entusiasma al tempo stesso, se ne percepisce il talento e la potenza, la grandezza e il mistero. Dice, a volte, che la vita è male, ma, ascoltandolo, a me della vita giunge solo la sua bellezza. L’altro giorno era chino a stilare una lista. Gli
ho chiesto di che scrivesse. Mi ha guardato con sorpresa. “E’ un elenco delle mie pietanze preferite” – mi ha risposto con altro accento. “Non so leggere – gli ho spiegato e allora me le ha recitate. “Spaghetti, formaggi, budini di riso, sformati di patate, cozze e cannolicchi, pizze e, ancora, bignè, granite e gelati, le dolcezze del mortal destino!” E’ andato via tardissimo, dopo aver mangiato, letto, pensato, sorriso, forse pianto. Con la sua andatura, incerta sul bastone, ha svoltato l’angolo. La luce che, ignaro, aveva diffuso fino a quel momento, si è spenta e solo allora è stato notte. Ho chiesto al padrone chi fosse quel signore. “E’ un letterato, – mi ha risposto – si chiama Giacomo Leopardi”.