Esperienze, Federica My_Cernusco sul Naviglio(MI)
_Racconto finalista ventitreesima edizione Premio Enerrgheia_2017
Sono le otto di mattina e Giada è già fuori casa. Oggi c’è il sole ma tutto tace per le strade deserte di una Milano che si è svegliata da poco, mentre lei ha più sonno e meno voglia del solito di andare a scuola. Ha fatto appena trenta metri da quando ha slegato la catena e messo lo zaino nel cestello della bici, che: “Te lo hanno mai detto che sei bella?”
Non si è accorta del ragazzo che l’ha fiancheggiata sulla pista ciclabile e che adesso le pedala accanto, sempre e rigorosamente con la sinistra sul manubrio e il braccio destro a penzoloni. Filippo è così, lo conosce, gli piace sbucare all’improvviso e farle prendere un colpo ogni volta, solo che ormai lei non si spaventa più come un tempo.
“Come? – si volta a guardarlo – Buongiorno anche a te. Pensavo non saresti venuto oggi.”
“Rispondimi.”
“A cosa?”
“Te lo hanno detto sì o no che sei bella?”
Giada torna a guardare avanti ma abbassa leggermente il capo. “Sì – sospira – perché, tu lo credi?”
“Sì.”
Svoltano l’angolo e lei coglie l’occasione per lasciarsi sfuggire un sorriso a mezza bocca che Filippo non può vedere.
“E lo pensa anche la tua ragazza?”
“Può darsi. È rilevante?”
“Dovrebbe.”
“Secondo me no.” Sembra pensarci su, un po’ è deluso. “Sai cosa trovo triste?”. Filippo tiene gli occhi fissi sulla strada davanti a sé, continua a pedalare.
Giada lo precede. “Oltre all’infedeltà?”.
Non si aspettava veramente una risposta. “No, ma quasi, ci sei andata vicino. Intendo dire oltre l’infedeltà, al di là di quella, non in aggiunta. Vedi, la gente ormai si sofferma solo su queste sciocchezze, su questi stereotipi sociali: se un ragazzo fa un complimento ad un’altra ragazza, che non sia la sua, allora automaticamente ha intenzione di sedurla e subito diventa un fedifrago, un traditore.” Scuote la testa. “Facci caso: secondo te perché di complimenti non se ne sentono più in giro? La gente ha smesso di farli. E come darle torto infondo, se quello che riescono a suscitare è solo il mal pensiero degli altri. Non trovo giusto che al piacere di riceverne venga preposta la paura di formularne. Le conversazioni sono tutte impregnate di battutine scontate e di basso livello, doppi sensi, ambiguità e frasi fatte, nulla però che ci ricordi anche solo una volta della bellezza che ci circonda. È triste, no?”. Poggia anche la destra sul manubrio e pedala più forte, Giada è costretta ad accelerare per stargli dietro. “Io amo Ilaria – a denti stretti – ma penso anche che tu sia bella. Una cosa non esclude l’altra, non credi?”
“Sì. Mi dispiace.”
“E di cosa?”
“Di aver subito pensato male”
Alza le spalle. “Non ti preoccupare, non è mica colpa tua: ti è stato insegnato.”. Si volta e le sorride.
“A volte mi fai proprio sentire così inadatta, banale e superficiale, invece tu sei così profondo.”
“Allora sono io che ti devo delle scuse, ma non volermene: non è mia intenzione, del resto non lo penso neanche. Secondo me non esistono persone inadatte, è tutta una questione di coraggio, di capacità di imporre se stessi sulle situazioni. A dire il vero non penso nemmeno di essere profondo, anzi: a volte mi danno persino del pazzo per quello che dico. È solo che ci sono momenti in cui mi domando come sia stato possibile che siamo arrivati a tanto: nessuno si sofferma più sui dettagli, sulle piccole cose, che poi sono le uniche che contino. Li cancellano. È come se la paura di essere giudicati per le proprie emozioni e sensazioni abbia non solo impedito di manifestarle, ma anche annientato la necessità di provarle. Quante sono le persone che conosci di cui diresti che vivono ancora esperienze per il semplice piacere personale di sentirsi arricchite? A livello sentimentale s’intende.”
La ragazza aggrotta le sopracciglia e corruga la fronte nel tentativo di criptare quella domanda. “Cosa intendi dire per esperienze?”
“A dir la verità qualsiasi cosa può essere considerata un’esperienza, anche percorrere questa strada come stiamo facendo noi stamattina per arrivare a scuola, o slegare il catenaccio della bici quando torneremo a casa. Attenta al tombino. Adesso però sto parlando di quelle esperienze che fai per conto tuo, per te stessa e nessun altro, e non perché fanno moda e sono di tendenza. Spesso quelle non sono neanche vere esperienze, si fa molta confusione.”
“Ad esempio?”
Filippo resta in silenzio per qualche istante prima di risponderle. “Hai visto il nuovo modello di iPhone?”
“Sì.”
“E hai visto che fotocamera interna pazzesca ha?”
“Ok, ma cosa c’entra?”
“Ti priveresti forse dell’esperienza di scattarti un selfie con quel telefono? Hai idea di quanto prenderebbe bene il colore dei tuoi occhi?”
Si gira di scatto verso di lui, visibilmente arrossita. “Lo vedi che non sei abituata?”
“A cosa?”
“Ai complimenti. Attenta, guarda avanti.”
Sbanda ma fa appena in tempo ad evitare una buca. A Filippo scappa una risatina mentre lei si ricompone.
“Non ti seguo.”
“Giada, guardati attorno: non hai mai l’impressione di vivere in una società fatta solo di consumi? A cosa servono le vere esperienze in una società del genere? Non ci soffermiamo più su niente, siamo così superficiali. È tutto così veloce, così frenetico… Compri, usi, butti, e poi ricompri, riusi e ributti. Le pubblicità ci bombardano, siamo circondati, è pura guerra mediatica. Compra questo, non vedi quanto ti serve? Ma prendi anche quest’altro, sai anche tu di non poterne fare a meno. Perché scusa, può mancarti quello? E i venditori ci marciano su questa nostra incapacità di vivere a pieno le esperienze, sembrano quasi dirci: Ecco vedi, tu che sei sempre così indaffarato, che non hai un attimo di tempo per te, che corri senza sosta da una parte all’altra e non hai il tempo di goderti la vita – perché infondo si tratta di questo: ci piace essere commiserati, sentirci compatiti, ci piace proprio tanto, così tanto che non riusciamo a farne a meno, e lo sanno bene quelli che hanno bisogno di scovare nei punti deboli della gente nuove tattiche di mercato – sì tu, sta’ tranquillo, ci siamo qua noi. Pensi di non avere tempo a sufficienza per viverle, le tue esperienze? Non è un problema, siamo qui per questo, te le vendiamo noi. Ma non è questo vivere, non sono queste le vere esperienze.”
“Continuo a non capire cosa intendi dire.”
“Intendo dire che ieri sera c’era la partita della Nazionale ed io e mio padre avevamo deciso di andare a vedercela al bar dietro l’angolo con gli altri. Mentre stavo camminando per strada un cartellone pubblicitario ha catturato la mia attenzione. Era la pubblicità di una nuova birra: Stanco del solito luppolo che non ti soddisfa? ******, l’esperienza della birra come una volta. Ma tu lo avresti mai detto che non ti vendono più la birra, bensì l’esperienza della birra?”
“No.”
“E manco io, ma a quanto pare adesso funziona così.”
“E funziona?”
“Io dico di sì, altrimenti non vedo il perché di simili cartelloni, né perché mio padre avrebbe dovuto ordinarla una volta arrivati al locale.”
“L’hai assaggiata?”
“Sì.”
“E com’era?”
“Una birra come un’altra.”.
“Prevedibile, ma cosa c’entra tutto questo?”
“Non trovi sconcertante il fatto che la gente senta bisogno di comprare le esperienze perché pensa di non essere più in grado di viverle da sola? Per me è assurdo che si debba pagare per avere – o meglio, essere illusi di avere – qualcosa che ci spetta di diritto e per il quale basterebbe chiudere gli occhi un istante e trarre un respiro profondo perché lo si possa vivere a pieno. La gente non è più abituata a sentire, è come se si fosse dimenticata come si fa, e quando dico sentire, intendo sentire veramente, cose vere.”
“Non pensi che bere un bel boccale di birra possa essere considerato un’esperienza?”
“Assolutamente, sono il primo a crederlo.”
“E allora? Filippo io davvero non ti capisco.”
“La mia concezione di esperienza della birra è semplicemente diversa.”
“Ma allora cosa sono le esperienze?”
“Te l’ho detto, in generale sono qu-”
“No, io non parlo degli altri, parlo di te. Cosa sono per te le esperienze?”
Filippo distoglie lo sguardo dalla strada e lo sposta su di lei, è uno sguardo poco convinto. “Ti interessa davvero?”
“Arrivati a questo punto sì, tu che dici?”. Il ragazzo decelera – finalmente, pensa Giada.
“Bene allora. Io l’esperienza la associo al momento: vivi un’esperienza quando ti ritrovi inconsapevolmente a vivere una situazione destinata a segnarti, a lasciarti qualcosa. Prendiamo la birra di prima ad esempio. Vuoi sapere cos’è per me l’esperienza della birra? Io ho avuto due esperienze di birra, entrambe intense, ma molto diverse tra loro.”
“Pensavo che andassi matto per la birra.”
“Infatti è così, ho forse detto il contrario?”
“Beh, solo due volte…”
“Non ho parlato di quante volte ho bevuto birra in tutta la mia vita, ho solo detto che due di queste volte per me è stato un’esperienza.”
“Come al solito hai ragione tu.”
“Non ho ragione io, solo che tu tendi ad interpretare le mie parole. Non devi, prendi tutto ciò che dico per come lo dico. Dunque, stavo dicendo, le mie due esperienze.
La prima volta ero davvero piccolo, era estate, faceva caldo ed io mi trovavo a casa dei nonni. Il nonno aveva l’abitudine di bersi una bionda di tanto in tanto ed io morivo dalla curiosità di assaggiarla, almeno una volta, quella bevanda che pareva dovesse avere un nonsoché di afrodisiaco ma che mi veniva puntualmente, ogni volta, negata. Volevo assolutamente capire che cosa mai dovesse essere, di che cosa dovesse sapere questa birra perché il nonno la custodisse così gelosamente solo per sé e non me la lasciasse bere con la scusa che ero troppo piccolo per capire e apprezzarla. Così una notte ho aspettato che lui e la nonna andassero a dormire, ho chiuso gli occhi e forzato il respiro perché fosse il più profondo possibile, in modo che credessero che stessi effettivamente dormendo quando sono venuti a gettare un’occhiata nella mia cameretta, prima di coricarsi. Si sono spente le luci, ho aspettato ancora un po’ per essere più sicuro che non mi scoprissero, poi mi sono alzato e sono sgattaiolato in cucina per assaggiare la tanto ambita bevanda. Mi ha fatto schifo.
La seconda volta invece è stata lo scorso sabato sera a casa di Marco. Eravamo giusto un paio di amici, ci siamo messi in terrazzo perché c’era un venticello davvero piacevole. Parlavamo, nulla di più, davanti a delle bottiglie di birra semivuote e accerchiati dalle nuvole di fumo che si levavano dalle sigarette. Stavolta come puoi immaginare non mi ha fatto schifo.
L’esperienza non sta nello bere la birra in sé: è come il sapore del malto si combina e accompagna la situazione che nel frattempo ti si è creata attorno, come contribuisce da componente del momento a determinare ciò che provi. È per questo che io compiendo lo stesso identico gesto ho fatto due esperienze completamente diverse. Se mi dici birra, a me tornano in mente il tavolo e le sedie della cucina del nonno illuminate dalla lampadina del frigor aperto e l’aria fresca che ci sferzava il viso sul terrazzo di Marco.”
Filippo fa una pausa, ha fatto trenta, perché non fare trent’uno?
“E poi, a dirla tutta, non è nemmeno questo il tipo di esperienza che preferisco, quella condivisa. Mi piacciono molto di più quelle che si vivono in completa e perfetta solitudine. Non che le une debbano escludere le altre, è bene infatti che ci siano entrambe, ma personalmente preferisco le seconde; posto che un’esperienza, per quanto condivisa, rimane sempre un qualcosa di strettamente personale. Non esiste nessuno al mondo dotato della tua stessa, identica sensibilità percettiva di un’esperienza di fronte allo stesso evento: per quanto ciò che quest’ultimo è in grado di suscitare in te si avvicini a ciò che sa far scaturire in un altro, le vostre reazioni a livello emotivo non saranno mai perfettamente uguali. Questo perché ognuno è dotato di una sensibilità propria, per la cui definizione e messa a punto sono intercorsi fin dalla nascita degli agenti esterni particolari – pensa banalmente alla famiglia, al sistema di valori che ti è stato trasmesso e che dipende dal Paese in cui vivi, il corso di studi che hai intrapreso, eccetera – mentre altri, ancora diversi, continueranno ad affinarla nel corso della tua vita.”
“Di che tipo di esperienza parli?”
“Del tipo che è più facile da trovare, ne siamo circondati. Non ti è mai capitato di trovarti completamente da sola davanti ad un qualcosa che abbia avuto lo straordinario potere di sconvolgerti dentro? Un quadro, un suono, una poesia, un paesaggio, qualsiasi cosa. Te ne stai lì tranquillo, per conto tuo, quando all’improvviso qualcosa colpisce i tuoi sensi e ti cattura completamente. Non è un qualcosa che puoi prevedere, succede e basta. Un istante prima non ci pensi neanche e uno dopo sei lì, con gli occhi incollati sul dipinto, le orecchie tese ad ascoltare e il respiro ad inalare tutta l’aria mista all’atmosfera del momento.
C’è un posto sperduto nel paesino dove vado di solito in vacanza dai miei nonni, un posto piccolo tra le montagne della Basilicata, ormai quasi completamente disabitato, dove se chiudi gli occhi e tendi le orecchie riesci a sentire non solo l’ululato del vento ma addirittura il profumo che si porta dietro, l’odore degli ulivi. Io mi metto lì solitamente quando ho bisogno di pensare, anche se sono convinto che in un qualsiasi altro momento e con qualsiasi altra mia disposizione d’animo, l’effetto che produrrebbe in me rimarrebbe invariato. Me ne sto lì seduto a fissare quelle colline da dietro le sbarre in ferro battuto del balcone della camera del primo piano, con la schiena e la testa abbandonate al muro e le ginocchia tra le mani. Hanno un che di magnetico quei profili. Le macchie di verde e i campi si incastrano le une negli altri secondo uno schema geometrico irregolare ma dai lati tutti perfettamente dritti, quasi fossero stati tracciati con un righello; e le nuvole lasciano sempre spazio ad un filo, appena sopra la terra, sgombro ed incontaminato di cielo. Io non lo so cosa ci sia di tanto speciale in quelle colline, cosa si celi dietro quell’immagine, che descritta così ora perde di molto, ma ogni volta che mi siedo lì e la contemplo non riesco a scollarne lo sguardo per almeno dei minuti. Ti capita mai?”
Giada esita un attimo e approfitta della signora che sta attraversando la strada con il figlio piccolo da una parte e la cartella sul braccio opposto – e che di voglia di andare a scuola probabilmente ne ha ancora meno di loro due – per interrompere oltre che il tragitto, anche la conversazione.
“Non lo so, forse una cosa ci sarebbe, una cosa che mi è capitata una volta… – fa una pausa – no, non c’entra.”
“Mi faresti la cortesia di lasciare che sia io a decidere?”
“È una cosa stupida, non l’ho detta a nessuno.”
“Io sono qui e sono interessato a sentirla.”
Giada sembra convincersi. “Ecco, ci sono giorni in cui mi sembra di essere più… di avere una sensibilità straordinaria, più forte e intensa del solito.” Fa una pausa per osservare le eventuali reazioni provocate in Filippo da queste sue prime parole apparentemente un po’ sconclusionate, ma il ragazzo non batte ciglio, sta aspettando. Prosegue. “So che è da pazzi, ma in giornate del genere mi sento come se le mie frequenze vibrassero perfettamente sintonizzate con quelle del mondo che mi circonda. Mi segui?”
“Continua.”
“Qualche mattina fa mio padre mi ha dato uno strappo fino alla metro. Appena ho messo piede giù dalla macchina, ho sentito fortissimo l’odore di pioggia che impregnava l’aria.”
“Sapevi che gli Inglesi hanno un termine specifico per indicare l’odore della terra bagnata dalla pioggia dopo tanto tempo che non è piovuto?”
“Quale?”
“Petrichor. È una parola che mi piace tantissimo.”
“È bella, sì. Fatto sta che mi è corso un brivido lungo tutta la schiena. È stato un attimo, poi non ci ho più pensato. Non c’era sole, ma faceva caldo, il cielo era grigio. Ti capita mai di sentire la perfetta corrispondenza fra il tuo stato d’animo e il tempo? È un qualcosa che va oltre il semplice umore ed è come se si rispecchiasse nel cielo. Lo fissi e ci vedi riflesso il modo in cui ti senti. Mi sentivo strana. Mentre camminavo sulla strada per andare a scuola ho notato anche che l’albero all’ingresso del policlinico ha messo i fiori. Sono magnolie. Le hai viste? Le abbiamo passate due minuti fa. Erano rosa, come hai detto tu, magnetiche. Ero in ritardo, ma mi sono fermata lo stesso a guardarle per qualche secondo, non riuscivo a smettere di fissarle: erano semplicemente belle. Ed io mi sono riempita gli occhi di quella bellezza fino a colmarli, come se cercassi di incanalarla e di assorbirla. Alla fine ci sono entrata, a scuola. Il profumo di brioches che invade l’atrio mi si è riversato addosso appena ho varcato il portone. Era lo stesso profumo di sempre, quello che sentiamo tutti i giorni, ma non sempre mi capita di avvertirlo così penetrante. Sentivo che avrebbe avvolto ogni cosa quella mattina. Mi sentivo in sospensione al punto che per le scale mi sembrava di volare, su, fino al terzo piano. È giusto?”
Filippo sbanda e per un attimo, lui, infallibile ciclista, perde l’equilibrio. “Come puoi farmi una domanda del genere e ridurre tutto questo a giusto o sbagliato? Sono sensazioni Giada, non posso esistere sensazioni sbagliate. E comunque sì, hai perfettamente capito a cosa mi stessi riferendo. Io le chiamo Giorni Natura, le giornate in cui mi sento così.”
Giada si sente sollevata adesso. “Sai qual è il problema in tutto questo? – scrolla il capo – Che appena provo a condividerlo con qualcuno, i commenti sono sconfortanti e sminuiscono tutto: forse è solo perché mi sta per arrivare il ciclo, non pensi anche tu? Alla fine ti passa la voglia, di condividere.”
“Ecco vedi, è proprio quello che intendevo prima quando dicevo oltre l’infedeltà: oltre la superficialità di chi ribatte a questo modo alle tue sensazioni. Posso confessartela una cosa?”
“Un’altra?”
“Sì, mi piacerebbe.”
“Dimmi tutto.”
“Anche io la prima volta che mi è successo mi sono sentito così. Ero strano, sentivo che qualcosa in me si stava muovendo a profondità così nascoste che non avevo mai neppure pensato ci fossero. Ero strano. Non capivo cosa mi stesse accadendo, ma mi piaceva. Mi sentivo più leggero, mi sentivo, sì, in pace con me stesso e con il mondo. E da quel momento non ho più potuto farne a meno: ho iniziato a ricercare quella sensazione dappertutto, ho iniziato a cercare la bellezza nascosta in ogni cosa, in ogni foglia, in ogni fiore, ogni angolo di strada, nei volti della gente in metropolitana. Così ho scoperto che è ovunque, solo che in alcuni posti è celata molto meglio che in altri e fai più fatica a scorgerla. E sai qual è il posto in assoluto in cui è più difficile e meno comune trovarla?”
“No, quale?”
“Sui visi delle persone. Non la vedo in tutti, anzi, quasi in nessuno.”
“Ma in qualcuno sì.”
“In te.”
Sono arrivati. Scendono dalle biciclette e legano le catene. Aggirano la transenna, varcano insieme l’ingresso dell’edificio e sono nell’atrio.
“Te la posso offrire una brioche?”
“Sì, volentieri”.
Nel bar della scuola non c’è ancora nessuno, solo la ragazza al banco che serve: sono arrivati presto, colpa di Filippo che corre troppo.
“Ecco a voi ragazzi, le vostre brioches e il caffè. Di chi è?”
“Mio, grazie Tina.”
“Grazie a voi.”
“Filippo.”
“Sono io.”
Fa lo sciocco ma Giada non ride, ha un’espressione seria in volto. “Grazie.”
“Ma di cosa? Sono solo ottanta centesimi.”
“No, non mi riferivo alla brioche.”
“E a cos’altro potresti riferirti?”
“Al modo in cui mi hai aperto gli occhi poco fa mentre venivamo a scuola e ai complimenti che mi hai fatto, li ho apprezzati. Quindi grazie.”
“Figurati. In realtà spero che tu possa diventare un po’ più disinvolta nel ricevere complimenti, ti capiterà tante altre volte di sentirti dire che sei bella. – Giada arrossisce, Filippo sorride – Appunto, diciamo che devi lavorarci ancora un po’ su.”