F., Mariamaguette Maragno_Matera
Menzione Premio letterario Enerrgheia 2024 – Sezione giovani
“Domani solo domani” mi aveva scritto.
Esco dalla metro verde scrutando il cielo grigio scuro, sta già iniziando a gocciolare.
Avevamo appuntamento alla grande mela. Chissà se riuscirò a riconoscerlo, penso, ma sì,
sarà quello vestito peggio e dall’aspetto triste.
Lo vedo e un po’ mi batte il cuore, è la prima persona con cui esco dopo Antonio. È
strano, ieri non mi sarei alzata dal letto neanche per pisciare, ma stamattina il pensiero di
uscire con qualcuno mi ha motivata. Mi sono svegliata presto, ho lavato i denti, mi sono
vestita e truccata, al solo pensiero di qualcuno che mi aspetta, fuori. È da un po’ di tempo
che non esco di casa, bloccata in quelle lenzuola così morbide, così pesanti di lacrime.
Respiro, l’aria contaminata e umida della città non è una “bella boccata d’aria fresca” ma
sicuramente è fredda e quel gelo un po’ aiuta a riprendermi dai miei pensieri.
Federico è seduto sul marciapiede, al centro fra i senza tetto e la polizia. Mi avvicino, alza
la testa e i nostri sguardi si incrociano per pochissimo, riabbassa gli occhi e si alza. Mi
sembra fragile, ma non molto diverso da come lo avevo immaginato. Lui, e con lui il resto
del mondo, pensa di essere brutto, orribile, disgustoso, ma quei suoi occhi tanto scuri li
trovo belli fin da subito. Ci salutiamo ed è sempre imbarazzante in questi casi. Un match
su un app d’incontri è così facile, parlare e conoscersi per davvero è un’altra storia.
Camminiamo verso la stazione, ci fermiamo, lui alza la testa e mi chiede se fumo. Fino ad
ora il suo viso era rimasto coperto dai capelli. “Se ne posso scroccare una”, mi porge un
pacchetto di Lucky Strike, ha gli occhi gentili. Ad Antonio non piaceva il fumo, non lo
sopportava. Da quando mi ha lasciata ho iniziato a fumare, quasi per ripicca, ultimamente
lo faccio spesso ma sono ancora al mio primo pacchetto di sigarette.
Seduti al tavolino di un bar proviamo a rompere l’imbarazzo, le classiche domande di
circostanza falliscono più e più volte. Poi inizia a raccontarmi della sua vita. Non lavora,
sua madre lavora un sacco, non ha amici, o per lo meno non amici “veri”. Si abbatte di
continuo, lo faccio anche io, di solito non sono così.
Federico ha un accento strano che lo allontana dalla realtà. Restiamo al caldo per qualche
ora e quando usciamo piove ancora. Niente neve, gli dispiace. Mi aveva chiesto di vederci
quel giorno nella speranza di passeggiare sotto la neve, io penso che sia andata meglio
così, ma fa’ comunque un freddo glaciale. Indosso i miei pantaloni verdi, come l’ultima
volta che sono uscita, quella precedente e quella ancora prima. Non so neanche perché ci
sto uscendo con questo tizio ma parlare, sotto un ombrello troppo piccolo, con Milano
sullo sfondo, mi sta facendo stare meglio dopo tanto tempo. Passeggiando finiamo nel
parco di Piazza Gae Aulenti. Il parco giochi è vuoto, a parte noi: due ventenni a
dondolarsi sulle altalene.
Avevamo iniziato a parlare di musica già da Porta Garibaldi, e così siamo finiti ai Pop X.
Non li ascoltavo dall’ultima volta con Antonio, mi fa un po’ male il cuore ma cerco di non
morirci. Va meglio, oggi va meglio.
Seduti in una libreria, davanti al terzo caffè della giornata, mi racconta dei suoi Manga
preferiti: “Questo te lo presterò, devi leggerlo”. Non mi ha permesso di pagare neanche
una volta, e andrà così anche per tutte le altre uscite. “Volevo portarti dei fumetti oggi sai,
ma non sapevo… come sarebbe andata” è imbarazzato.
“Io mi ci sto trovando molto bene a parlare con te” non ci penso troppo quando dico cose
del genere, ma è vero. Quando mi ha chiesto di vederci avevo immaginato un’uscita breve
e poco entusiasmante. Invece, oltre al nostro imbarazzo, riesce a esistere anche altro.
Ci salutiamo alla metro. “Ah, ma l’avrei voluta una foto, una foto con te” mi dice. Con la
mano in tasca sfioro il mio cellulare, l’idea di un selfie mi da’ il voltastomaco. “Facciamola
lì” prendo il suo braccio e, senza dargli il tempo di rispondere, ci ritroviamo in una cabina
per fototessere. Così vicini in una stanza stretta e luminosa è strano e imbarazzante ma il
ricordo impresso è perfetto. Ha catturato tutto il mio disagio e tutta la sua tristezza.
“… grazie” finiscono così i primi messaggi che mi manda dopo quell’incontro.
Era la prima delle nostre “ultime uscite”.
Poi è sparito.
Non ci eravamo scambiati i numeri di telefono, i contatti social o qualsiasi altra
informazione. Fino a quel giorno non avevo modo di contattarlo al di fuori dell’app su cui
ci eravamo conosciuti. Avevo disattivato le notifiche ma la aprivo abbastanza spesso da
leggere tutti i suoi messaggi, lunghi e tristi.
Il nostro scambio epistolare era scandito da bug e malfunzionamenti di una piattaforma
instabile e questo conferiva alla nostra comunicazione un equilibrio fondato
sull’incertezza. Mi piaceva, Federico sembrava un sogno, talvolta un incubo, che era solo
nella mia mente. La distanza mi stava bene, almeno fino ad ora.
Il suo account è sparito, e con esso anche tutti i nostri messaggi. Ripensando a quella
prima uscita ne analizzo i gesti, cerco di estrapolare qualsiasi informazione utile, ma
nulla, non ricordo neanche su quale metro fosse salito. Maledico la mia mente, la mia
stupida memoria a breve termine. Qualche vago ricordo mi aveva spinta a cercarlo su
YouTube, ricostruendo a mente la playlist che mi aveva fatto ascoltare, ma in tre giorni di
ricerca intensiva non ero riuscita a trovarlo.
Mentre salgo sul tram ci penso ancora. Ho un appuntamento e sono in ritardo ma
continuo a guardarmi intorno nella speranza di incontrarlo. Lì mi scrive. Ora che sono
truccata, ben vestita e di buon umore, so di non dover rispondere. Non voglio neanche
leggere, la sua instabilità già la conosco bene, so come riesce sempre a condizionarmi. I
suoi messaggi sono come una trappola. Mi incuriosiscono, non resisto e poi me ne pento.
Ovviamente, anche questa volta, la curiosità vince.
Un messaggio lungo, come suo solito.
Mi racconta di sua madre, suo padre che la picchiava, della sua voglia di farsi male. In
mezzo a quel flusso di coscienza un frase: “Sembra stupido ma sai pensavo saresti stata tu
la mia prima volta”.
Qualche giorno dopo lo invito a casa mia.
Varcando la porta Federico è carico di imbarazzo, cosa si aspettava? Mi guarda, io abbasso
lo sguardo, cosa pensavo di fare? Attraverso il corridoio in punta di piedi fino alla cucina
e mi impegno le mani preparando una tisana. Mi vergogno di qualsiasi pensiero fatto fino
a questo momento, mi mordo la lingua e taccio.
Lui è seduto a tavola, non parla, non mi guarda. Verso l’acqua bollente nelle tazze, facendo
durare i miei gesti più del necessario. Ringrazio il cielo che la casa sia vuota.
Ci spostiamo in camera e seduti sul mio tappeto a fiori, rompo il silenzio parlando di
Antonio. “È come se non mi avesse lasciato lui, ma l’intero concetto di relazione, di
Amore che avevo nella mia mente”. Ora mi guarda. “Mi dispiace che ti abbia fatta stare
così male, io non sarei sopravvissuto. Non so come si faccia a fare del male così”. Poco
dopo, su quello stesso tappeto, cantiamo il mio album preferito a squarcia gola.
Federico ha dormito da me la prima volta dopo il mio viaggio in Marocco.
Saluto mio padre in stazione e da lì torno a casa. Lo incontro all’uscita della metro,
nonostante gli avessi detto di raggiungermi più tardi. Volevo farmi una doccia e sistemare
camera, invece l’ho visto di spalle salire le scale mobili; era sulla mia stessa metro.
A casa mangiamo una pizza e, dopo aver fissato una schermata di caricamento per
qualche ora nel tentativo di guardare Sanremo, lui inizia a farmi vedere dei video che non
mi interessano per niente. Lo ascolto parlare per un po’, poi mi avvicino e poggio la testa
sulla sua spalla. Chiudo gli occhi. Sono stanca e anche annoiata, ho bisogno di affetto e
vicinanza. Pensa che io stia dormendo quando mi picchietta sulla spalla “Ei!”, io gli
rispondo “Mettiamoci più comodi”.
Stesi l’una di fronte all’altro sento il suo sguardo su di me. Mi avvicino. Inizia a toccarmi,
prima sfiorandomi le braccia, le spalle, poi con sempre più forza, mi stringe. Aprendo gli
occhi trovo i suoi scuri, i suoi capelli neri. Mi sporgo verso le sue labbra e penso che i
primi baci dovrebbero essere dolci, allora gli sfioro le labbra. Non era un bacio, mi
riavvicino, premo la mia bocca contro la sua. Lo bacio ancora, Federico ride. “Non sono
capace”, lo dissi anche io a Rob qualche anno prima. “Non bisogna essere capaci, devi solo
fare ciò che ti piace”. Ci stringiamo e lui trema tutto. Le sue mani, le sue braccia,
stringendomi tremano, facendo tremare un po’ anche me. Ci stringiamo ancora e ancora,
quasi a volerci male, mi tiene a sé con forza, fino a volermi spogliare.
Così inizia a toccarmi.
L’ultima persona era stata Antonio, io non faccio altro che pensarci soffocando in quei
capelli lisci e scurissimi. Credevo di non essere più in grado, pensavo che Antonio avesse
strappato via il lato di me più intimo, più fragile e complesso. Invece è una cosa che mi
appartiene, a me soltanto.
Quella notte mi sono riappropriata di una delle tante cose che credevo irrimediabilmente
vincolate a lui, anche se non le voleva.
Nella notte Federico è bello, l’atmosfera impregnata del suo odore e della sua tristezza.
L’aria stessa sembra malinconica, le luci della città entrano dalla finestra e ci illuminano
come nella scena di un vecchio fumetto noir.
Il mattino dopo mi sveglio con un peso sullo stomaco, aprendo gli occhi. Dico a Federico
di andar via mentre lui mi chiede se voglio fare colazione fuori. “La mia coinquilina torna
fra poco, devo lavarmi”. Taciturna e schiva lo saluto, timida con me stessa più che con lui.
Non mi parlo e non mi ascolto. Non faccio altro che chiedermi cosa sto facendo, perché.
So solo di essere nel torto, per un motivo o per un’altro.
Dopo qualche ora Federico mi manda la foto di un paesaggio, “è bellissimo”. Dal tono dei
messaggi sembra allegro, fin troppo, quasi euforico.
Cambia drasticamente verso sera. Io gli scrivo quello che penso, quello che sento, lui
dichiara: “è meglio non vederci più”. Acconsento, poi confessa di avermi preso un regalo.
La volta successiva ci vediamo per quel motivo, anche quella doveva essere l’ultima.
Le sue mani tremano mentre stringono le mie sul tavolo. Sull’anulare ho un anello,
scintilla nonostante il brutto tempo fuori. Il regalo di Federico era in un contenitore rosa
confetto con un nastrino argento, ora è al mio dito.
“Ti amo Marta” con gli occhi percorro la linea sottile dei fili bianchi che decorano le
giunture del mio pantalone. Sento le lacrime rigarmi il viso.
“Ti amo” ripete. Chissà se qualcuno ci sta guardando, chissà cosa siamo per la gente
intorno: un ragazzo innamorato, una ragazza ingrata. Forse si stanno dicendo addio.
Forse lei è una traditrice. Forse lui sta per partire. Sembra sempre tutto così semplice visto
dall’esterno.
“Ti amo”. Io tengo lo sguardo basso, sui miei pantaloni verdi. Sul tavolo un libro: “Lo
squalificato” di Osamu Dazai, anche quello un regalo di Federico.
“Ti amo”. Siamo nel bar della nostra prima uscita. “Ti amo Marta”. Chiudo gli occhi.
Nessuno mi ha mai amata, nessuno l’ha mai fatto tanto da dirmelo.
L’ombra di Federico non mi si stacca di dosso, anche dopo il nostro ultimo incontro.
Continuo a sentire il peso del suo sguardo sulla mia pelle anche a letto con altre persone.
Le loro mani mi sfiorano la pelle e così toccano anche gli occhi scuri di Federico, i suoi
capelli, la sua pelle chiara. Spogliarmi davanti a Federico mi faceva bella, una perla
preziosa, scheggiata e irraggiungibile.
Ho scritto più di una volta delle sue mani, degli “scusa” che mi sussurrava nelle orecchie,
ho scritto pochissimo di quanto mi ha fatto male.
Il sabato ho lezione nella sede principale del mio istituto. Le 8:30 del mattino nel weekend
sono ancora più crudeli quando il corso è a scelta, ma la docente di Antropologia della
Cultura Pop fa’ valere lo sforzo.
Oggi però non è un sabato qualunque. Qualche settimana prima Federico mi aveva
scritto, mi aveva dato una data, mi aveva detto che “l’avrebbe fatto”, “stavolta per davvero”.
“Mi serve solo coraggio Marta, non aspetto altro. Ma ti giuro che il 18 lo faccio”.
Stamattina mi sono svegliata come al solito, senza pensarci troppo e cercando di resistere
alla giornata. Da un paio di mesi va’ meglio, riesco a seguire le lezioni e uscire di casa,
cambiare pantaloni e lavarmi, tutto sembra filare liscio.
“Gli anni 80, Patti Smith” segno sul mio laptop. “18 marzo 2023” leggo.
I miei occhi rimangono fissi sulla data.
Riesco a capire subito quando sto per avere un attacco di panico, lo sento crescere e nel
mentre so di non poterci fare nulla. Come un’onda altissima che arriva da lontano cresce,
cresce e a ogni secondo che passa spero si disperda nel nulla. Ma invece no, continua
finché non diventa ingestibile, allora mi inonda e quando non riesco a respirare è già
troppo tardi. Fortunatamente conosco bene la dinamica, tanto da prevenire una scenata in
classe. A passo svelto scappo dalla lezione, verso il parco.
Se piangi per strada a Milano nessuno ti guarda, in realtà qualsiasi cosa tu faccia per
strada a Milano nessuno ti guarda, in questa città sei invisibile.
Mi fermo davanti al commissariato. Mi sento così stupida, così tanto idiota. Prendo il mio
telefono, cerco in rubrica. Un contatto è salvato con solo tre emoticon: un telefono, due
figure che si abbracciano e un cuore blu. Con le dita tremolanti ci clicco sopra.
Suona, non rispondono. Cerco su Google “Telefono amico”, non rispondono. Provo
“Telefono azzurro”, mi basta che qualcuno risponda; altra chiamata nel vuoto. Chi si
chiama in questi casi?
Resisto alla tentazione di telefonare mio padre. Lo farei preoccupare inutilmente, alla fine
non è così importante. Nel frattempo non riesco a respirare, ho la gola bloccata dalle
lacrime ma riesco a gestirla. Basta fare respiri regolari, contare i colori e prendere tempo.
Tento ancora il mio giro di telefonate: le tre emoji, Telefono azzurro, Telefono amico.
“Pronto?” Finalmente. “Salve, avrei bisogno del vostro aiuto” la mia voce è
inaspettatamente decisa quando racconto all’operatore di Federico.
Mi ascolta in silenzio nel lungo monologo che gli sputo addosso. Senza lacrime, ora sento
solo rabbia. Gli spiego che non voglio essere responsabile di un suicidio, che so che non è
colpa mia, ma francamente non so come gestire la situazione.
“Capisco” silenzio “Be’ noi non possiamo fare nulla”.
Notando il mio silenzio, l’operatore continua: “Noi aiutiamo i diretti interessati a uscire da
situazioni di emergenza, in questo caso non so come aiutarla se non ascoltando. Non
siamo psicologi professionisti, siamo tutti volontari”.
Io resto in silenzio. Ancora rabbia che cresce. “Al massimo ti posso dare qualche consiglio,
ma è solo il mio punto di vista eh”.
Lo ascolto consigliarmi di chiamare Federico. Mi dice che forse, se ci parlo con più
decisione, magari capirà. Chiudo la telefonata, nulla di risolto. Cosa pensavo di ottenere?
È ovvio che me ne debba occupare io. Sono stata io a invitarlo da me, sono stata io a
illuderlo, a rapirlo nella mia trappola. Con le persone così bisogna stare attenti, io non lo
sono stata abbastanza. Quando avevo bisogno solo di un abbraccio mi sono buttata fra le
braccia sbagliate, lo sapevo ma dovevo stare più attenta.
Ora provo solo rabbia, frustrazione, odio.
Per me stessa e il mio riuscire sempre a farmi male.
Alla fine chiamo Federico.
“Pronto?” dall’altro capo del telefono mi risponde una voce allegra, ha il suo accento.
Gli sputo addosso tutta la rabbia, tutto il panico e la paura provate fino a questo
momento. Parlo senza paura di ferirlo, urlando al telefono. Lui resta in silenzio finché non
finisco di parlare.
“Scusa Marta”.