Fernanda_Maria Schirone, Pignola(PZ)
_Racconto finalista terza edizione Premio Energheia 1996.
Due scatti e la valigia si volle finalmente chiudere. Piena di roba che rigonfiava il cartone pressato e forzava pericolosamente le chiusure metalliche un po’ arrugginite. Il viaggio sarebbe stato lungo. Era consigliabile assicurarsi la tenuta con uno spago robusto, come aveva visto fare tante volte negli ultimi anni dal fratello Vincenzo, dalle sorelle più grandi. Anche se aveva impiegato più tempo a scartare che a scegliere ciò che avrebbe portato con sé, la roba continuava ad essere tanta da non starci in quell’unica grande valigia. Ma era poi davvero troppa per andarsene e cambiare vita?
A Napoli l’accompagnò il fratello Luigi. Avevano preso posto nel vagone di terza classe, su due panche di legno, lucide, l’uno di fronte all’altra. Lo sguardo perso oltre il vetro opaco del finestrino, le tornava in mente l’urlo di dolore della madre, il pianto sommesso del padre e dei familiari, delle amiche. Erano andati tutti come in processione ad accompagnarla alla stazione. Ne partivano tanti in quel tempo dalla Basilicata e sempre tutto il paese faceva quella mesta processione fino ai binari del treno. L’America era così lontana che forse mai più si sarebbero visti. Era un distacco per sempre.
Tutto le diceva della distanza che andava crescendo tra lei e Pignola. Gli scossoni del vagone, il ritmo incessante, sempre uguale, lo stridore dei freni nelle povere stazioni. Le gallerie nere, lunghe, popolate dagli spiriti delle ragazze che per non affrontare la vergogna si facevano maciullare sdraiate sui binari. Guardò la stazione di Balvano, dove furono deposti i corpi senza vita di centinaia di uomini donne e bambini quella volta che il treno si era fermato nella galleria maledetta e l’ossido di carbonio li aveva soffocati. Era morto lì anche lo zio Antonio. Glielo raccontava sempre la zia Assunta rimasta vedova a vent’anni con due figli.
Il treno andava, con una lentezza esasperante tra montagne aspre e pietraie, tra gole e campi bruciati dalla siccità di quell’estate impietosa, e già il paesaggio si faceva più dolce verso Eboli e la pianura campana. Ma i pensieri di Fernanda erano ancora lì sul cocuzzolo sul quale sorgeva il suo paese. Pensava al piccolo cimitero; pensava alle bare bianche dei morti piccoli che accompagnava quasi ogni giorno. C’era anche la tomba del fratellino in quel cimitero.
Erano pensieri dolorosi di morte; forse anche lei era come morta per quelli lasciati lì, al paese, da quando il treno era sparito in fondo alla stazione.
L’aria era umida, appiccicosa. Insopportabile. Mancavano tre ore all’imbarco. Sulle banchine, sciami di bambini scalzi, magri, con grandi occhi e sguardi da adulti; altri, pallidi e grassocci, denunciavano storie alimentari di lardo e farinacei. Davano in grida incomprensibili, si chiamavano, si spintonavano, ridevano. Aspettavano i pescherecci per rubare e spartirsi pesce crudo. L’attesa era ancora lunga. Non volle entrare nella squallida sala d’aspetto della biglietteria portuale, piena di sudori e voci e odori. Sedette invece insieme al fratello su un basso gradino all’esterno, di fronte al mare e alle navi all’ancora. La lieve brezza rendeva più sopportabile l’afa che ancora opprimeva quei primi giorni di settembre. Osservò la vasta distesa d’acqua: a quell’ora pareva infinita, senza linea d’orizzonte, non azzurra come lei si era aspettata logicamente, ma di un’incerta tonalità bianchiccia, fusa col cielo in una spessa cortina di vapori. Una fitta e sottile raggiera di rughe le si formava intorno agli occhi se si provava a scrutare il limite di quel bagliore infinito.
Estrasse due fette di pane da una reticella in cui aveva sistemato poche cose di uso immediato, e un grappolo di uva nera. Mangiarono, in silenzio, Fernanda e Luigi. Di tanto in tanto, Fernanda toccava la taschina che si era cucita nella parte interna dell’ampia gonna, per assicurarsi che il prezioso biglietto d’imbarco della Flotta Lauro e l’altro pezzo di carta con la destinazione ci fossero ancora. Era un gesto rassicurante, la prova che di lì a qualche settimana le cose avrebbero potuto cambiare, anche se non sapeva ancora come. Certo la vita in America sarebbe stata meno misera, così le avevano detto, così aveva sempre sentito raccontare da chi tornava per qualche Natale, con quello strano accento che si allontanava sempre più da quello noto, le parole come arrotondate, il tono cantilenato. Verso la fine delle vacanze tutto ciò quasi spariva. Il dialetto ridiventava familiare. Ma la volta dopo più forte si avvertiva quello strano linguaggio, lucano e d’oltremare insieme.
Il porto di Napoli non se l’era immaginato così untuoso, sporco. Sull’acqua galleggiavano bottiglie, cassette vuote, macchie scure di nafta, cartacce. Ne aveva sentito parlare da piccola, dai tanti che avevano accompagnato al piroscafo fratelli, mariti, genitori, che dicevano che era grande, importante, e in una nave poteva starci più gente che in tutto il suo paese. A lei la nave parve un lugubre casermone pieno di angosce e di paure. Guardava quelle donne, quei costumi neri della sua montagna di Basilicata, la tristezza e la paura scolpite sui volti scavati dal sole e dalla pioggia. Guardava suo fratello senza che le riuscisse di dire una parola, la bocca secca, il groppo in gola dopo il pianto disperato alla stazione del suo paese prima che il treno partisse. Poco distante da loro, alcune bancarelle e uno squallido chiosco di friggitoria.
Provò un dolore acuto allo stomaco. Quell’odore di fritto, quell’olio nero nel quale galleggiavano i panzerotti e le paste cresciute. Le mosche non le davano tregua.
Quelle ragazze accaldate, così scollate da far provare vergogna, quelle donne grasse, i capelli scarmigliati, che sulla bancarella offrivano stecche intere di americane e svizzere e che ammiccavano a quegli uomini carichi di ansia e di dolore, era la prima volta che le vedeva.
Al paese non c’era nulla di tutto questo. Solo sguardi furtivi che la facevano arrossire in chiesa e lungo la strada di casa quando Michele la seguiva ovunque ma senza il coraggio di dirle una parola.
Napoli, il porto, il brulichio della gente, le macchine, i negozi le sembravano estranei. Un altro mondo che non era il suo.
Salì a bordo della nave salutando col fazzoletto il fratello, confuso in mezzo a centinaia di mani che lanciavano l’ultimo addio. Poi si lasciò inghiottire dall’enorme ventre.
Aveva sentito parlare del comandante, quello che voleva il re, venivano anche al paese a fare comizi quando si votava per Lauro e per il re. Doveva essere un buon uomo, mandava scatole di tonno, di carne, maccheroni, anche le scarpe a chi dava il voto. Minuccio accatastava con occhio vigile i sacchi che contenevano tutto questo ben di dio. Un giorno la mamma arrivò a casa con dei pacchi. Disse di non dir niente a papà. Anche lei era andata da Minuccio che distribuiva le scatolette del comandante. Suo padre: un’immagine forte nella memoria. Non ci danno la terra, diceva la sera quando tornava dalla Camera del Lavoro. Potremmo vivere tutti, potremmo anche mettere qualcosa da parte per il corredo del matrimonio.
Partecipava anche lei ai comizi in piazza, la mano stretta nella mano forte del padre. Nel feudo possiamo vivere in tanti, e quello che raccogliamo sarà nostro. Ora se ci danno due tomoli in fitto, più della metà al padrone.
Fernanda ricordava il padre sudato come un negro e il mulo che schiumava bava infilarsi nel portone freddo di don Giovanni il mese di agosto per scaricare il fitto. Don Giovanni giocava a carte nel bar con il panama bianco e il sigaro lungo con gli altri signori. Al grano ci pensava Lucia, la serva, che si lamentava sempre, che il grano non era di buona qualità, che pesa il sacco come pesasse l’oro, che questi cafoni non hanno riguardo per la bontà di don Giovanni, dovrebbe farvi morire di fame.
Ci sono stati i morti a Montescaglioso, disse una sera il padre rientrando più tardi del solito. La terra non ce la danno, sibilò, trangugiando un bicchiere di vino rosso prima di inghiottire rabbia e minestra già fredda per l’attesa.
A tratti aveva paura. Un’avventura, o un’avventatezza, partire così, sola, a vent’anni, nessuna esperienza né di viaggi, né di altra gente che non fosse la sua gente. Sentiva però di avere con sé una grande dose di coraggio, e di volontà. Va bene, una volta arrivata in Sud America non sarebbe stata sola, andava a raggiungere il fratello Vincenzo che le aveva trovato il lavoro. Ma che lei sapesse, nessun’altra donna aveva voluto affrontare da sola l’oceano, una nuova terra, facce straniere, un lavoro in una città sconosciuta, grande, infinitamente più grande dei luoghi che aveva lasciato quella mattina all’alba. Ma che altro le rimaneva da fare. Le cose erano andate così per la sua famiglia e sarebbe stato per sempre così. Non rimaneva che partire. In America, chissà.
L’America. Un sogno di là dal mare abbagliante di Napoli.
La nave si annunciò rumorosamente nel porto di Bahia de Todos os Santos. Era arrivata finalmente in Brasile. Una dolce brezza spirava sulle palme da cocco, sulle spiagge bianche e sconfinate. Passarono ancora due ore prima che i passeggeri stremati potessero finalmente scendere, gli sguardi spenti dalle infinite nottate in dormiveglia, dal mal di mare, dalla spossatezza per la lunga attesa, dall’ansia dell’arrivo. Valigie, pacchi di cartone, bambini afferrati per i polsi, piangenti e vocianti. Nella ressa dello sbarco accomunava tutti un odore acre e penetrante che tradiva giorni di promiscuità, precarietà di sistemazione sulla nave, lavaggi approssimativi, pane stantio, salame e caciocavallo, cipolle e vino rosso. Un’umanità della quale anche Fernanda ora faceva parte.
Alcuni emigrati, di ritorno ai luoghi di lavoro, stavolta si erano portate le mogli, che apparivano instupidite dal nuovo, impaurite dalle voci straniere. Loro, gli uomini, le avevano precedute di alcuni anni, il tempo di disporre di una casa dignitosa dove poter stare insieme alle donne e ai figli. Altri tornavano soli ai luoghi di lavoro. Per altri ancora, come per Fernanda, lo stesso sguardo smarrito, le spalle leggermente curve di chi non ha certezze, il futuro cominciava ora.
Finalmente scese anche lei sulla terraferma.
Il porto pullulava di bianchi, creoli, neri, meticci. Una folla multicolore che spiccava nel bagliore ancora più accecante di quello che aveva lasciato al porto di Napoli.
I pescherecci solcavano la Baia di Tutti i Santi. Vele bianche e azzurre, rosse, gialle coloravano il verde mare bahiano. Altri dondolavano alle banchine di fronte al grande Mercato Coloniale accanto alle navi di grosso tonnellaggio ormeggiate lungo i grandi magazzini e la Stazione Marittima.
Migliaia di piccole bancarelle erano ricolme di frutta tropicale che lei non conosceva ma che in seguito avrebbe cominciato a gustare: mango, avocado, frutti della passione. C’erano montagne di banane, arance, limoni piccoli e verdi e una quantità di pesci di tutti i colori il cui aroma intenso insieme alle alghe riempiva le narici di odori a lei sconosciuti.
Vincenzo l’abbracciò. Volle sapere del paese, dei familiari. Dell’inverno e della neve, dei ghiaccioli appesi alle tegole. La neve lui non l’aveva più vista da quando otto anni prima era sbarcato in questo mondo fatto di sole, di bellezze e sofferenze, di fame, e abbondanza di allegria sfrenata e di lacrime sempre cocenti.
Salirono su un autobus giallo e sgangherato nel quale il sudore colava a rivoli dai seni prorompenti di donne negre avvolte in cotoni sgargianti, e dal petto ambrato e magro di decine di ragazzi vestiti quasi di niente. L’autobus s’arrampicò lungo l’erta del Tabuao e si fermò in una piazzetta di pietre nere arroventate dal sole di mezzogiorno.
“E’ il Pelourinho.”, le disse Vincenzo addentrandosi in un vicoletto fresco; poi, finalmente, in un piccolo appartamento ricavato dallo spezzettamento di una vecchia casa di un signore portoghese che nel secolo scorso esportava lo zucchero in Europa.
Fernanda era ancora stordita dal viaggio e dalle emozioni; Vincenzo intanto le prospettava un futuro di sicurezza e benessere nel cotonificio del signor Fortunato. Anche lui figlio di emigrati. Aveva studiato però; lo chiamavano dottore. Aveva fatto fortuna.
Lo vide due giorni dopo al suo primo giorno di lavoro, quando don Antonio Fortunato volle salutarla nel suo grande ufficio di legno scuro con l’aria condizionata che permetteva di respirare un poco. Anche don Antonio, con un vestito di lino candido, con i capelli bianchi curati, le aveva chiesto della neve e del paese. Suo padre lo aveva portato via dalla Basilicata che era ancora bimbo. A volte era tornato in Italia. A Milano, a Roma, a Venezia per affari. Al paese non era tornato.
Il cotonificio Fortunato sorgeva nel cuore della città vecchia, un casermone grigio con alte ciminiere. Un’aria appiccicosa e polverosa si stampava sul collo e sui capelli sudati ogni volta che bisognava attraversare il quartiere per raggiungere il posto di lavoro.
Alla fine della settimana nella busta paga c’era sempre il giusto. I cruzeiros e gli spiccioli risultavano con precisione. Non come al paese quando il padre si lamentava di dover attendere mesi perché gli pagassero qualche giornata di lavoro richiesta come se si pregasse un santo.
Accanto al suo banco in fabbrica lavorava Jorge, un mulatto, che dal primo giorno l’aveva guardata con i suoi occhi neri e spiritati, chini a controllare il filo quando Fernanda volgeva lo sguardo verso di lui.
Jorge la invitò la prima volta alla festa della Madonna del Rosario dei Negri. Non lontano da casa, sul Pelourinho. Vincenzo acconsentì. Conosceva Jorge, abitava anch’egli nel quartiere. Un bravo ragazzo.
Quella sera Fernanda assaggiò la cacháça, un liquore forte di canna da zucchero che le bruciava lo stomaco e la gola. Con un po’ di succo di limone, ghiaccio e zucchero era sopportabile anche per lei. I vicoli del Pelourinho brulicavano di chitarre allegre, di samba sfrenati in una processione rumorosa di gente. Spighe di granturco bollite, dolci divorati dalle mosche. In questa miseria di vicoli e stradine si ergevano illuminate le belle chiese dei gesuiti, il palazzo del vescovo, e quelli ormai in rovina dei grandi proprietari delle piantagioni e degli esportatori di zucchero.
Jorge le raccontò che proprio lì nella piazzetta del Pelourinho c’era il patibolo dove i negri schiavi venivano frustati. Dai balconi di quelle residenze un tempo fastose si affacciavano i signori ed anche le signorine bianche per vedere le spalle sanguinanti dei negri che pagavano il tributo alla frusta. Le pietre del selciato sono nere come gli schiavi che vi lavorarono, ma a mezzogiorno col sole accecante hanno riflessi color sangue. Troppa sofferenza hanno visto le pietre della Piazza del Patibolo.
Fernanda ascoltava e stringeva forte la mano di Jorge.
Anche lei aveva conosciuto la sofferenza del padre, dei braccianti di Basilicata in quei dolorosi anni ’50, ma le storie che le raccontava Jorge la impaurivano.
Presero ad uscire insieme il sabato sera. Non mancarono una festa. La Concezione della Spiaggia, la processione del Gesù dei Naviganti, la
processione dei Re Magi. Il lavaggio della chiesa di Bonfin, uno spettacolo come il carnevale. Un santo che fa miracoli incredibili: cura la lebbra, la tubercolosi, la pazzia, rimargina le ferite, svia anche le coltellate. Protegge dalle piene dei fiumi, protegge le piantagioni, protegge dal colera.
Anche al paese c’erano molti santi. Ma ognuno proteggeva da una malattia o da una calamità. Un solo santo con tanti poteri non lo immaginava. Per questo la festa durava otto giorni. Il vescovo e il clero non la vedono di buon occhio, diceva Jorge. Somiglia più ai riti pagani africani che alle liturgie portoghesi, e tentano di osteggiarla.
Musiche, balli, chitarre. Le mulatte con le mani piene di fiori e brocche e vasi in equilibrio sulle teste. Cavalli e carretti inondati e sepolti dalla carta velina. E alla fine le donne lavano la chiesa, nonostante la proibizione del vescovo.
Le feste si conclusero con il Carnevale di Bahia. Più bello, assicurava Jorge, più pittoresco, più allegro e più vero di quello di Rio. Questo è il carnevale del popolo, con i camion con gli altoparlanti che trascinano la folla. A Rio è il carnevale dei turisti.
Si allontanarono dalla ressa variopinta e dall’afa che la confusione rendeva opprimente. Andarono a respirare la brezza notturna sotto il Faro della Barriera, su una spiaggetta meravigliosa, vicino al villaggio dei pescatori.
La festa, il caldo, i colori. Suoni e rumori lontani. Si guardarono. Stavano bene insieme. Lo dicevano, l’uno all’altra, i loro occhi, luminosi, le mani che si stringevano. Jorge le sorrise. Labbra carnose e denti bianchi. Il suo odore, quella sera, più intenso. Per gli avvenimenti accaduti, per l’avvenimento che accadeva. Fernanda non seppe resistere. Era la prima volta.
I giorni seguenti, le settimane, i mesi trascorsero lievi. Insieme sul lavoro, insieme la sera.
Si sposarono nella chiesa di Sant’Ana, piccola, semplice, imbiancata a calce. Ma per la festa Fernanda volle gli stessi colori, la stessa allegria, i profumi di quella sera del carnevale. Il tono fu modesto, ma acceso.
Dona Janaina, la madre di Jorge, vestita di cotone fiorato, riceveva gli invitati nella vecchia casa di Rua da Misericordia, nel sobborgo di Paripe. Grandi piante di tamarindo ombreggiavano la povera casa e davano refrigerio agli invitati. Le stava accanto Otavio, il marito, un negro grande come un armadio che sprizzava torrenti di sudore sotto un vestito troppo stretto e un papillon color viola che sembrava strangolarlo.
Era fuggito Otavio dalla miseria del Sertao per cercare un lavoro in città. Aveva lavorato tutta la vita alla Compagnia dei trasporti urbani. Guidava i tram della linea circolare di Bahia. La linea dei tram era di una compagnia canadese con capitali americani che aveva il monopolio della luce, tram, ascensori e telefoni.
Otavio attraversava col suo tram rumoroso e sgangherato tutti i giorni, come in una via crucis, i quartieri più poveri della città. Via dei Quindici Misteri lo faceva fantasticare. Cosa nascondeva quel nome? Quali misteri nelle notti senza luna?
Largos dos Aflitos gli ricordava il Sertao e i suoi dolori. Di qui però poteva guardare l’oceano, l’incredibile distesa d’acqua che si estendeva fino alle coste dell’Africa; e poi la montagna che dominava la città, e i tetti delle case di Bahia.
L’Avenida degli Amori, un susseguirsi di casupole di fango e pietre che di notte si illuminavano di luci fioche e invitanti.
La strada intitolata al grande generale Simon Bolivar aveva un’aggiunta tutta bahiana: Bolivar dei Fiori.
Otavio nel gran giorno di festa aveva occhi solo per Fernanda. Lo riempiva di orgoglio quella ragazza bionda e timida venuta dall’Italia per sposare il suo Jorge.
C’erano tutti i compagni della fabbrica. Ognuno aveva voluto partecipare con un dono. A ornare i tavoli, grandi ceste colme di fiori colorati e frutti saporiti che diffondevano fragranze intense e soavi.
Ballarono tutti, fino a tarda notte.
A casa tornava stanco, nervoso.
A volte si gettava sul letto senza assaggiare la cena. Fernanda non aveva mai visto Jorge così, se non da quando dirigeva il sindacato a Bahia.
Si preparava un’ampia mobilitazione popolare contro le voci di un possibile golpe. I generali alzavano la voce, accusavano i partiti politici e il sindacato di portare il paese alla rovina. Nelle caserme c’erano preparativi e fermenti. L’inflazione era ormai a tre cifre su base annuale.
La grande manifestazione per la democrazia venne organizzata in piazza Castro Alves. Il palco era già stato montato sotto la statua del grande poeta che dominava l’immensa spianata proprio davanti al palazzo dell’Associazione del Commercio del Caffè, il ritrovo dell’imprenditoria più proterva.
C’erano pericoli di provocazioni. Jorge lo sapeva. Era già successo a San Paolo, bastava un niente per provocare la tragedia. Dopo il Cile, l’Uruguay e l’Argentina, il disegno era di chiudere il cono sudamericano in una morsa reazionaria. I generali fremevano, cercavano il momento adatto, l’occasione per sbarazzarsi di un governo con parvenze democratiche ma inetto e corrotto.
Fernanda fu avvertita dalle grida delle donne e degli uomini che risalivano correndo lungo il vicolo della Chiesa dei Terziari francescani per disperdersi nelle viuzze e nelle strade del Pelourinho. C’erano feriti. Il sangue bagnava ancora una volta il selciato nero.
Chico e Merces dormivano nei loro lettini, protetti dalle zanzariere.
Quattro e sei anni, non aveva voluto lasciarli. S’affacciò all’uscio. Nessuno l’avvicinava.
Tentavano di sfuggire il suo sguardo spaventato. Quattro compagni portavano sulle spalle Jorge colpito da un proiettile alla schiena. Il sangue colava lungo il dorso scuro e luccicante di sudore.
Il cotonificio era stato chiuso.
La crisi economica, l’inflazione divoravano quel poco che era riuscita a mettere da parte.
Le scrivevano che l’Italia era adesso un paese ricco, sviluppato. Partecipava alle riunioni dei sette paesi più industrializzati.
Pensò che era nata sfortunata. Era fuggita dall’Italia per miseria, verso un paese ricco di tutto e con grandi prospettive.
Ora era cambiato tutto. La miseria le era sempre a fianco: prima in Italia, ora in Brasile. Carmine, il fratello più piccolo, era emigrato a Milano, e lavorava alla Pirelli insieme alla moglie.
Avevano comprato una casa, a San Giuliano, là dove la nebbia è più densa che in città, e si mescola e si confonde con lo smog dell’inquinamento. D’accordo, in certi giorni dalle finestre penetravano i miasmi del canalone che scorre lungo la via Emilia; e presto si erano dovuti abituare al fragore assordante degli aerei che andavano ad atterrare a Linate, e che parevano sfiorare bassissimi i tetti delle case di San Giuliano. Ma avevano la casa. E anche la macchina. L’estate, poi, tornavano in Basilicata. Un po’ al paese, un po’ al mare. A Metaponto, in albergo.
Fernanda decise. Si recò a salutare Jorge nel grande cimitero che costeggia l’Estrada da Liberdade. Anche Jorge avrebbe approvato.
Dona Janaina e Otavio piansero in silenzio quando abbracciarono Chico e Merces.
L’aereo della Varig sorvolò la Bahia di Tutti i Santi, inclinò sulle misere case fermate sull’acqua del quartiere degli alagados e puntò verso l’Europa.