Fiore d’oro_Gino Falorni, Roma
_Racconto finalista sedicesima edizione Premio Energheia 2010.
Ore 15. 45
La guardai bene quella casa. Sapevo che sarebbe stata l’ultima volta. Me l’ero girata tutta. Con calma. La cucina, il bagno, il soggiorno, la camera da letto, il ripostiglio, i balconi.
Mancava solo una stanza. Quella di Nina. Aprii la porta. Da quel giorno lì dentro, io e Martina non avevamo toccato più niente. Avevamo lasciato tutto com’era. La disposizione dei mobili, i giocattoli sparsi per terra, i poster di qualche cantante attaccati sulle pareti. Sfiorai ogni cosa, fino a quando non mi ritrovai davanti al suo letto. Sul cuscino c’era ancora quel giocattolo a forma di pipa, dove se ci soffiavi dentro, dall’altra estremità usciva una pallina. Mi vennero in mente tutte le volte che ci avevo giocato con Nina, prima di farla addormentare.
Mi sdraiai, e fu in quel momento che mi ricordai del fiore d’oro nella tasca interna della mia giacca. Lo tirai fuori e me lo portai al cuore. Mi sentivo stanco. Svuotato di ogni cosa.
Decisi di dormire un po’. Tanto a svegliarmi, pensai, avrebbe provveduto la sirena di qualche volante della polizia, che tra poco sarebbe venuta a prendermi.
Ore 15.30
– Pronto 113
– Al Km 280 dell’Aurelia c’è un casale. Andateci, troverete un cadavere.
– Pronto? Chi parla!
Riattaccai senza aggiungere altro. Da quella cabina telefonica a casa mia la distanza non era molta. Settecento metri, forse un pòdi più. Me la feci a piedi. Arrivato dentro l’ingresso del condominio, mi accorsi che nella buca delle lettere c’era un volantino. Lo presi. Pubblicizzava l’abbonamento, per tutto l’anno e ad un prezzo sorprendente, di una rivista di moda molto famosa. Lo feci cadere a terra. Il mio appartamento stava al terzo piano ma questa volta, per arrivarci, usai l’ascensore.
Ore 15.15
Fermai la macchina in prossimità di un campo di grano.
Avevo un mare di spighe davanti a me. Nina li chiamava fiori d’oro. Ogni volta che andavamo al mare mi pregava sempre di fermarmi e di prendergliene uno. Anche quella volta lo feci.
Poi rientrai in macchina e ripartii.
Ore 14.30
Se entrai là dentro non fu né per chiedere perdono, né per ripulirmi la coscienza; ma solo perché sentivo di starci. Non c’era molta gente. Qualche signora che pregava e qualche suora che andava avanti e dietro. Mi misi seduto sull’ultima panca. Era una bella chiesa e anche se ero un professore di matematica, non mi fu difficile capire che doveva avere anche molta storia. Girai lo sguardo intorno. C’erano tante colonne ai lati, con degli ornamenti bellissimi. Tra tutte mi colpì una in particolare. Sul suo capitello c’erano scolpite tre teste di leone. La cosa che mi sorprese fu che a differenza delle altre quell’incisione sembrava non aver risentito del passare del tempo. Era pulita, chiara, pura. Un rumore di passi mi allontanò da quei pensieri. Un signore stava entrando. Guardai l’orologio. Era ora di andare. Prima di voltare le spalle fissai il crocifisso dietro l’altare. Era la prima volta, dopo la morte di Nina, che me ne ritrovavo davanti uno. Mi resi conto che non avevo niente da dirgli. Mi accorsi che non c’era rabbia nei suoi confronti. Eppure di motivi ne avrei avuti. Avrei avuto molte ragioni per gridargli in faccia il mio dolore, per domandargli perché proprio io e la mia famiglia. E invece non feci niente. Spinsi solo la porta e me ne andai. Dopo un minuto ero in macchina, e piangendo, presi la strada di casa.
Ore 13.10
Prima di aprire la porta della stanza 20, feci un bel respiro e rimisi la giacca. Mi accorsi che mancava un bottone. Sicuramente l’avevo perso nel casale. Quando entrai la vidi come sempre, seduta su una sedia vicino al suo letto a guardare fuori dalla finestra.
Mi avvicinai.
– Ciao Amore.
Martina si girò e mi sorrise dal suo mondo, dal suo buio.
– Ciao ciao ciao… -, mi disse con voce sottile e innaturale.
– Come stai? -, le chiesi accarezzandole i capelli.
Lei voltò di nuovo lo sguardo verso la finestra.
– Nina è con te?
Quante volte avevo sentito quella domanda. E quante volte le avevo dato sempre la stessa risposta.
– No amore è a casa con tua madre, sta studiando.
– Ah è brava la mia bambina, proprio brava vero?
– Si -, le risposi prendendole la mano.
– Mi raccomando quella poesia di Shakespeare, la deve imparare tutta a memoria per domani, mi raccomando, è importante.
È importante! È importante! -, mi sussurrò nell’orecchio.
Fu in quel momento che glielo dissi.
– L’ho ucciso Martina… l’ho ucciso.
Lei continuò a ripetere la stessa cantilena, e riportò gli occhi spenti oltre la finestra.
– È importante… è importante… è importante…
Restai ancora un pò, poi le diedi un bacio sulla guancia e mi diressi verso la porta. Prima di uscire, la guardai ancora un secondo. Era bellissima con quella luce sul viso.
Ore 13.00
Il viale d’ingresso della clinica psichiatrica Villa Rovere era lungo e stretto, ma finiva su uno spiazzo grandissimo, con al centro una quercia imponente. Parcheggiai, presi la giacca e mi incamminai verso l’entrata. Nel gabbiotto informazioni c’era Pietro. Una specie di custode.
– Ciao Pietro.
– Ehy ciao Vince’, come stai?
– Bene, senti io vado da mia moglie.
– D’accordo.
– Il professor Visi c’è?
– No è andato via poco fa, te lo chiamo se vuoi.
Pietro era sempre stata una persona gentile e molto simpatica.
Quello che più mi piaceva di lui era la spontaneità e la naturalezza che riusciva ad avere là dentro. Con i medici, con i pazienti, con i loro familiari. Ripensai a tutte le volte che era stato capace di farmi uscire da quel posto, addirittura con il sorriso sulle labbra.
– Non preoccuparti, lo chiamerò io più tardi -, gli risposi.
– Come vuoi.
Pietro non poteva sapere che più tardi, l’unica cosa che avrei chiamato sarebbe stata la polizia. Come non poteva sapere che, quel giorno ero lì per dire addio a mia moglie. Lo salutai, e poi, invece di prendere l’ascensore, mi diressi sulle scale. Era la prima volta da quando andavo in quel posto che lo facevo. Pietro lo notò subito.
– Vince’ come mai oggi non prendi l’ascensore?
– Perché oggi mi va di cammina’ Pie’.
– Ho capito, ma stasera c’ho na’ festa sulla spiaggia e non voglio che piova.
Ci mettemmo a ridere; e io per un pòcontinuai a farlo anche mentre salivo le scale.
Ore 12.15
“E non finisce mica il cielo… anche se manchi tu… sarà dolore o è sempre cielo…
Martina aveva sempre amato quella canzone. Stavo guidando da un quarto d’ora, più o meno, e da un quarto d’ora la mettevo e la rimettevo continuamente. Quella canzone, da quando Martina con la mente era andata via, in un posto lontanissimo, era diventato il solo legame che potevo avere con lei, con i nostri ricordi, con tutta la vita passata insieme.
Sulla mano sinistra avevo ancora un pò di sangue. Presi una delle ultime salviettine umidificate, che avevo usato per rinfrescarmi il viso appena uscito dal casale e me la passai tra le dita e sul palmo della mano. La strofinai forte. Con gli ultimi residui di rabbia che mi restavano.
10/09/2007 ore 12.00
Questa è la mia confessione. Sono Vincenzo Fredi e l’uomo senza vita a terra è Rocco Lollei. Sono stato io ad ucciderlo.
Quest’animale, il 4 aprile del 1997, in questo casale ed esattamente in questo punto, violentò e uccise Nina Fredi. Mia figlia. Fu preso tre giorni dopo e condannato a trent’anni. Un mese fa, dopo solo dieci, gli è stata concessa la semilibertà per buona condotta. Dieci anni. L’età di Nina, quando questo lurido e putrido essere le tolse la vita. Abito in Via Lusi 8.
Venite quando volete.
Rilessi la lettera. Poi la posai sulla mensola del camino.
La conoscevo a memoria quella stanza. Era stata un elemento costante dei miei incubi, che a loro volta dal quel giorno, erano diventati una costante di ogni maledetta notte; mia, e di mia moglie Martina. Prima di andarmene, guardai nuovamente gli occhi di quella bestia.
Erano ancora aperti.
Sorrisi, poi mi girai e uscii da lì dentro.