Futuro anteriore_Nicola Lagioia
_Il futuro anteriore sarà un tempo in cui il concetto di civiltà avrà trionfato su quello di barbarie oppure, conseguentemente, non sarà. Avrà a che fare con la questione di specie. E sarà un tempo (sempre che non si verifichi il peggio, e un certo concetto di successione cronologica volta a un fine – quel che il meglio della tradizione occidentale ha chiamato progresso – non crolli su se stesso) dall’alto del quale si guarderà all’inizio di XXI secolo come a un’epoca di momentaneo arretramento.
Il Novecento era finito con l’illusione che la pace e il benessere universali fossero in procinto di trionfare nei quattro angoli del globo, senza che questo tra l’altro compromettesse più di tanto la salute del pianeta (un modo piuttosto arrogante per definire le condizioni di equilibrio congeniali alla sopravvivenza della sola razza umana). I primi quattordici anni del nuovo secolo si sono impegnati a provare il contrario. A mostrarci (e su quanto la riduzione al ruolo di spettatori sia colpevole, persino il futuro prossimo getterà lumi) come molte conquiste nate dopo la Seconda Guerra Mondiale, fecondate nei due secoli precedenti e considerate inalienabili, potessero essere smantellate senza grandi reazioni di senso contrario. Facciamo parlare qualche numero. Il mondo in cui ci siamo trovati a vivere prevede che il capo di un’azienda possa guadagnare oltre 500 volte lo stipendio di chi è alla base della medesima piramide lavorativa. Ancora meglio: le 85 persone più ricche del mondo possiedono una ricchezza pari a quella dei 3,5 miliardi più poveri. Il patrimonio privato dei primi 6, ad esempio, supera il debito pubblico della Grecia. Vale a dire il dolore e la condanna di un intero popolo.
Quando si naviga su queste cifre (pericolosamente affini al punto di non ritorno oltre il quale le tragedie diventano statistiche), non si sta più ragionando di socialismo o neoliberismo o socialdemocrazia. L’incentivo all’impegno e all’inventiva che una migliore prospettiva di vita resa possibile dai modelli economici fondati sul mercato dovrebbe (secondo la filosofia di quei modelli) favorire, giustifica la disparità di condizioni tra cittadini ugualmente liberi, ma entro una determinata soglia.
Dividere una torta in parti diseguali, in modo che i più bravi o i più tenaci o i più intelligenti o i più capaci ne abbiano di più, può non ledere i principi democratici, e prima ancora quelli di convivenza civile, a patto che la sproporzione non superi un certo limite. Se dividiamo una torta (le risorse e la ricchezza disponibile) in mille parti uguali, e le mie capacità fanno sì che io riesca ad accaparrarmene cento, lasciando i restanti novecento ai novantanove che (mettiamo) compongono la mia comunità, la sproporzione è certo discutibile, e tuttavia rientra forse ancora nell’ambito di una civiltà che voglia dirsi tale. Ma se rastrello con rapacità novecentonovantanove parti, lasciando l’unica restante ai rimanenti novantanove? Non stiamo in questo caso in un ambito di grave violazione dei diritti umani? Non ci siamo appena scaraventati, cioè, fuori dal diritto e dal patto sociale, ai margini della civiltà, fuori persino dalla Storia, un passo già nella barbarie?
Così, se un futuro remoto non ci sarà – se cioè il concetto di progresso si spezzerà come la chiglia di una nave sotto la tempesta – questo accadrà perché i prossimi decenni e secoli seguiranno (per progressione geometrica) quel che è accaduto negli ultimi trent’anni. Speriamo di no. Il mondo ha vissuto innumerevoli momenti di discontinuità prima di ritrovare ogni volta la rotta, e un trentennio è davvero una piccola misura per formulare giudizi definitivi.
Il problema a ogni modo è esattamente questo. Evitare di avvicinarsi o ripiombare nello stato di natura. Ed evitare di farlo, muniti degli strumenti (l’arsenale tecnologico che perfezioniamo e a propria volta ci modella) di cui l’uomo non disponeva agli albori della Storia. Cos’è, in fondo, che hanno saggiamente predicato nei secoli e nei millenni tutte le religioni e le filosofie e le dottrine politiche più illuminate? Un’emancipazione dallo stato di natura. La formulazione di un metodo, o di un pensiero, o di uno schema etico e/o spirituale, che ci allontanasse via via dalla violenza, la quale si propone come istintiva risolutrice del problema che nasce in noi ogniqualvolta ci troviamo a mediare tra l’esistenza (ineludibile) dei nostri simili e la presenza (limitata) delle risorse materiali (siano le nude cose o l’astrazione chiamata denaro che vorrebbe esserne lo specchio, ritrovandosi sempre più spesso a riflettere se stesso) presenti sul pianeta che condividiamo.
Escogitare sistemi per trasformare questa ferocia alla lunga distruttiva per l’intero gruppo umano in energia capace di giovare a tutti (e a ciascuno più che se fosse immerso in quel tipo di violenza, fosse anche chi se ne avvantaggia) è il cammino della civiltà.
Senza quello, staremmo ancora agli schiavi e alle piramidi. È un cammino praticabile, perché è insito nell’uomo almeno quanto il percorso opposto. Ecco perché è anche una questione di specie. Siamo in grado di perseguire il male proprio perché abbiamo l’inaudita capacità di pensare il suo contrario. Dimenticarlo significa affermare il falso, e – riformulando Josif Brodskij – commettere per amor di nichilismo un crimine antropologico innanzitutto contro noi stessi.
Di conseguenza, per dare una speranza al futuro anteriore (anche solo per immaginarlo, questo tempo cronologico) è sul presente che bisogna agire.