Futuro Remoto, I racconti Futuro remoto

Futuro Remoto_Barbara Giambartolomei

_Recanati, 1824

Il babbo che era convinto che di figli non ne avrebbe avuti, allora aveva provato a convincerlo a farsi prete, a Buccio. Il babbo era preoccupato di questa cosa, che Buccio era il primogenito e lui spettava di conservare la stirpe e tramandare il titolo. Ma a Buccio l’abatino proprio non c’era stato verso di farglielo fare. Alla fine tutto quello che gli si chiedeva era di dire il breviario una volta al giorno, portare la tonsura e indossare la veste, con le calze bianche. Il babbo pensava che non gli stavano chiedendo la luna.

Ma a Buccio era più facile chiedergli la luna che fargli fare l’abatino. La luna te la tirava giù dal firmamento, ma il prete non lo faceva. Quando l’egregio Pacinotti, medico in Recanati, dopo aver intessuto varie e dotte conversazioni con il contino, aveva scosso la testa, dicendo che sì, il contino non aveva raggiunto la forma virile, non era uomo per dirla in modo brutale, il babbo aveva pensato subito all’abito sacerdotale. Di studi non ne doveva seguire, il buon sacerdote Sanchini tutto gli aveva insegnato, tutto, il greco, il latino e l’ebraico. Tutti ricordavano i tre sapienti giudei che erano arrivati a Recanati da Ancona, forse sperduti, ma che non parlavano nessuna lingua tranne la loro e Buccio era stato l’unico a potersi intrattenere con loro in dotti discorsi.

E neppure Carlo con quel matrimonio sconsiderato, i figli li faceva. Su certe cose non sapeva come cavarsene i piedi. I Leopardi di San Leopardo non figliavano. Buccio sognava la gloria e sognava di andarsene e già aveva provato a fuggire, e se n’era andato quasi un anno, quasi un anno! In quella città che, tornando a Recanati, aveva giurato di non voler vedere mai più.

Ma poi era tornato. Ma smaniava, come smaniava quel ragazzo, a stare chiuso nelle quattro mura del Palazzo, a passeggiare silenzioso con lo sguardo a terra in mezzo ai compaesani che lo guardavano sempre come se fosse caduto dalla luna. Smaniava e scriveva, le dita sempre sporche di inchiostro, la coperta sulle ginocchia.

Il viso pallido e liscio come un fanciullo. Che fanciullo nel corpo era rimasto.

Dopo la crudele malattia che l’aveva piegato in due, tutto il resto s’era fermato, come cristallizzato nel tempo.

Il babbo guardava al futuro con apprensione. Buccio invece cercava la gloria, la gloria! Con tutta l’anima, riempiendo pagine su pagine di parole, tanto che la smania adesso si era trasferita dall’umor nero, per carità di Dio, meglio così, a quella fretta di scrivere, che pareva usare tutte e due le mani in attesa che si asciugasse l’inchiostro.

La gloria però non arrivava, il prete non lo faceva e neppure i figli. In più, rifiutava tutti i lavori che lo Stella e il Niebuhr gli proponevano. Che alla fine il babbo si chiese che diavolo stesse combinando quel figlio maggiore e si mise in testa di rovistare fra le sue carte. Ora bisogna tenere anche presente che il babbo in fondo, in fondo orgoglioso di Buccio lo era, e molto. Che pure lui si crucciava che quel figlio primogenito rimasto fanciullo nel corpo, ma che lo era mai stato nella mente non raggiungesse la gloria che gli spettava fuori di Recanati. Se solo avesse smesso di scrivere eresie, che pure questo al babbo lo preoccupava più di ogni altra cosa. Buccio era tanto religioso da fanciullo e di questo pure si tormentava che con tutti quei libri che difendevano la fede, non ne aveva più. Già aveva perduto l’occasione di diventare bibliotecario alla Vaticana per quelle eresie… E certo gli sobbalzò il cuore quando prese quel foglio con su scritto “Il cantico del gallo silvestre” e che terminava così: Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama…

Che restò giorno e notte per molti giorni, insonne a considerare che quel figlio vedeva il futuro nero e alla fine, alzatosi nel cuore della notte e credendo di svegliarlo, lo trovò che al lume di candela, grattava la penna sulla carta, con quel corpo ingobbito, come se fosse giorno, e senza più il peso di doverlo destare, gli disse che era meglio che non pensasse tanto alla gloria, ma quegli scritti, Buon Dio, li tenesse da parte, da pubblicarli dopo che era morto, che i preti non gli avrebbero dato tregua e sarebbe andata che nello scaffale Libri Prohibiti ci finiva lui.

Buccio lo guardò. Sorrise, per la prima volta dopo tanto tempo.

Gli era tornato il cuore, disse.