Futuro remoto_Francesco Bianco
_Per un linguista, futuro remoto è un titolo molto accattivante, che sollecita l›intelletto sotto diversi aspetti.
Da un punto di vista retorico, per esempio, futuro remoto può essere considerato un elegante crocevia tra figure diverse. Vi si può leggere un ossimoro, che tende la corda del tempo nelle due direzioni: il passato, quello remoto, sempre più lontano, e il futuro, destinato prima o poi a farsi presente. Oppure, interpretando l’aggettivo in senso meno ristretto, si può vedere in remoto uno strumento di amplificazione: un futuro remoto è un orizzonte lontano, che non riusciamo a scorgere…
Lo stesso linguista osserva che l’italiano non ha un futuro remoto. La ricca articolazione temporale della nostra lingua, che tanto mette in difficoltà i discenti stranieri, è clamorosamente sbilanciata verso il passato. Il futuro non dispone che di una forma, più un’altra (il cosiddetto futuro anteriore) che è possibile usare solo in certi contesti, in correlazione con la prima. La nostra mano sinistra può attingere a un’intera tavolozza cromatica, mentre la destra deve cavarsela con una tinta e mezza.
Mi sono sempre chiesto, in effetti, il perché di tale lacuna, comune a molte lingue ma, proprio in virtù della complessa articolazione dei tempi del passato che caratterizza l’italiano, particolarmente evidente nella nostra.
Come se il futuro, in fin dei conti, fosse qualcosa di superfluo; una specie di appendice linguistica, traccia semiatrofizzata di una funzione che era e che non è (quasi) più.
Eppure, alcune delle più rimarchevoli narrazioni che la letteratura e il cinema ricordino, da 1984 a Roma senza papa, da Guerre stellari a Blade runner, sono ambientate nel futuro: un futuro prossimo oppure, più spesso, un futuro remoto. Nessuna di queste storie, tuttavia, fa largo uso dei tempi del futuro. L’avvenire, realistico o fantastico, ottimista o distopico, è sempre narrato immaginando un punto di vista ad esso posteriore: come se si trattasse del passato, dunque.
Mi sono sempre domandato come sarebbe raccontare il domani dal punto di vista presente: usando i tempi verbali canonici.
Anni fa mi ero ripromesso di provarci: avevo anche scelto il titolo di un racconto per cui, avendone già abbozzato l’architettura temporale, mi mancavano solo i contenuti: un dettaglio da poco, per un saggio di narrativa sperimentale.
Domani avverrà, questo il titolo che avevo coniato, si sarebbe svolto in un futuro prossimo, quasi presente: ventiquattr’ore dopo il momento dell’enunciazione. Sarebbe potuto cominciare così: Domani mi sveglierò alle sette, come sempre. Avrò l’impressione che in realtà sia più tardi, poiché il sole, già alto nel cielo, tintinnerà luminoso contro le imposte, infilando il suo riverbero negli interstizi. Non mi preoccuperò più di tanto: è un’impressione ricorrente, a certe latitudini e a certe longitudini. Ci sono abituato. Meno ricorrente, piuttosto, il fatto che non avrò sonno, contrariamente a quanto spesso mi accade.
Sarebbe stucchevole? Non lo so. Che io sappia, finora non ci ha mai provato nessuno e, dunque, il mio incipit virtuale è il primo esordio di questo tipo.
La domanda di partenza, comunque, resta: perché esistono tanti tempi per raccontare il passato, che è unico, mentre per immaginare gli infiniti futuri possibili abbiamo solo un tempo a disposizione? Ha a che fare col fatto che, umanità conservatrice, siamo più inclini a rivolgerci all’indietro piuttosto che a lanciarci a capofitto nell’avvenire? Sono meri fatti di lingua o rispecchiano qualcosa di più profondo, se qualcosa di più profondo della lingua esiste?
Quale che sia la risposta, futuro remoto, per il linguista, ha anche un altro sapore: quello dell’autobiografia. Per un ricercatore il futuro remoto è innanzi tutto il proprio: remoto perché nasconde le risposte alle quotidiane istanze; remoto perché incerto e imperscrutabile, remoto perché lo vedi e non lo vedi, beffardo, additare percorsi tortuosi, che si perdono nella nebbia del tempo.