Giocatori di guerra_Carlo Orefice, Napoli
_Racconto finalista settima edizione Premio Energheia 2001.
Le grida di vittoria echeggiarono improvvise nel silenzio del deserto, simili a mulinelli di vento impazziti. Mustafà rialzò la testa e vide attraverso la polvere, il pallone rotolare alle spalle del portiere che invano aveva cercato di raggiungerlo con un ultimo disperato guizzo. Avevano vinto! I compagni gli corsero incontro e lo alzarono al cielo come se il premio di quella partita fosse stato lui.
Il sorriso dell’uomo si riflesse luminoso contro le alti pareti di fango che li circondavano mentre decine di braccia si agitavano al cielo come a toccarne la volta. Dietro di loro, tra porzioni di carne sudata e lembi di vestiti lacerati da troppa attesa, si intravedevano le facce sconsolate dell’altra squadra.
Alcuni guardavano la striscia del pallone che sulla sabbia aveva oltrepassato la linea della porta come una lumaca oltraggiosa; altri, con le mani a reggersi la testa, chiusero gli occhi e si passarono, mestamente la lingua sulle labbra ancora appiccicate di sabbia e sudore assaporando il sapore della sconfitta.
L’ombra del sole proiettata sulla roccia aveva oramai oltrepassato un piccolo segno che indicava la fine della partita.
Alcuni uomini tolsero dalla sabbia i legni che fungevano da pali e se li caricarono sulle spalle. Simili a tanti Cristi che si avviavano verso il Golgota, si guardarono sconsolati ripromettendosi che la prossima volta avrebbero vinto loro.
Era da quindici lunghissimi anni che quella scena si ripeteva sempre uguale. In quella piccola prigione sperduta nel Sahara occidentale a Mustafà, ai suoi compagni e ai loro carcerieri non restava altro da fare se non giocare a pallone.
Le sentinelle Sahraui sistemate sui muri indicarono ai prigionieri di ritornare verso le loro capanne dal tetto a cupola.
Usando i fucili come un arbitro usa il cartellino rosso, li fecero allontanare da quell’improvvisato campo dove, almeno lì, non bisognava dribblare le mine o il filo spinato, ma i piedi callosi degli avversari.
Il clima nei mesi estivi diventava soffocante superando i cinquantacinque gradi e in lontananza si intravedeva la sagoma deformata del pallone che era rimasto esattamente dove il preciso colpo di testa di Mustafà lo aveva indirizzato.
“Chissà”, domandò l’uomo ad un suo compagno mentre si toglieva il sudore di dosso con un panno lurido, “cosa ha fatto la squadra di Mohammed? Se ha vinto anche lei sarà per noi una finale molto difficile”.
L’altro lo guardò sollevando leggermente le spalle come se avesse voluto grattarsi le orecchie. Improvvisamente entrò nella capanna Arez, un ragazzo di appena diciassette anni, stringendo in una mano un piccolo pezzo di carta sgualcito che fino a pochi minuti prima doveva essere servito per conservare qualche pezzo di pane stantìo. Tutti i giocatori della squadra di Mustafà si zittirono come fanno le api quando raggiungono un fiore. Il ragazzo, cercando di riprendere fiato, si sedette su un copertone di una vecchia jeep che fungeva da sedia. Tutta l’attenzione era su di lui.
“La squadra di Mohammed ha vinto quattro a uno”, disse velocemente per liberarsi di quelle parole il prima possibile.
“Allora è in finale con noi?”, domandò scoraggiato uno degli uomini che si era appena gettato esausto sulla sua brandina.
“Non è ancora certo”, continuò il ragazzo, “domani lo sapremo.”
Un leggero brusìo si diffuse nella piccola capanna. Mustafà prese il pezzo di carta e lo strinse nervosamente tra le mani gettandolo in un angolo scuro dove era sistemata una latrina improvvisata e maleodorante.
“Questa sera sapete cosa chiedere al nostro dio”, disse rivolgendosi ai suoi compagni, “Allah saprà ascoltarci.”
La notte scese silenziosa, come era solita fare in quei luoghi.
I fuochi accesi dalle sentinelle illuminavano i volti spargendo piccole lingue di luce sulle dune circostanti simili alle gobbe di tanti cammelli immobili.
“Dormi?”, chiese Sufyan al compagno Mustafà.
“No”, rispose l’uomo girandosi sulla sua piccola branda di ferro e fissando il soffitto.
“Allora stai pensando al torneo?”
“Penso a mia moglie”, disse lui toccandosi i capelli che si confondevano con il buio, “ero poco più che un ragazzo quando mi hanno rinchiuso qui dentro. Avrei voglia di accarezzarla, anche solo per un istante. In notti come questa non è sufficiente neanche il mio dolore a farmi compagnia”.
“Quando credi che finirà tutto questo?”
“Questa non è una partita di calcio”, rispose Mustafà respirando l’aria calda che faceva fatica ad uscire dalla piccola finestra, “nessuna partita dura quindici anni”.
“E il nostro paese?”, rispose l’amico.
“Il nostro paese ci ha dimenticato in questo angolo di mondo.”
Si rigirò su un fianco e si mise a guardare una foto sbiadita appesa vicino una delle sbarre del letto con un sottile filo. Un leggero soffio di vento la fece muovere leggermente come uno strano orologio che batteva sempre la stessa ora.
“Che senso ha questa guerra? Anche se vincessimo il torneo, saremmo sempre dei perdenti e lo stesso vale per Mohammed e le altre guardie. Forse loro si meritano di vincere molto più di noi. Almeno questa partita”.
“Non siamo noi ad aver voluto tutto questo. Noi siamo solo dei soldati”, gli rispose una voce dal buio, ancora concentrata sulla foto che si muoveva.
“Sì, però siamo noi ad aver disseminato questo deserto con mine che spappolano le carni e rendono irriconoscibili figli che potrebbero essere anche i nostri”.
Mustafà non rispose. Il sonno arrivò improvviso riportandolo indietro con la memoria. Rivide le granate che cadevano dal cielo come frutti maturi dagli alberi. La sabbia era rovente, piena di corpi mutilati che pian piano scomparivano lasciando intravedere solamente qualche mano che sembrava indicare il cielo. Cercò riparo sotto una jeep. Il rumore si fece sempre più assordante. Erano rimasti in pochi, troppo pochi per cercare di opporre resistenza senza cadere falciati dalle mitragliatrici che stavano seminando le dune con bossoli infecondi.
“Allah proteggimi tu”, mormorò nella speranza che quelle sue parole arrivassero alte nel cielo. Ma quel giorno Allah aveva tanti figli da ascoltare e tutti erano tra loro fratelli e così le preghiere del ragazzo si fermarono all’altezza della portiera dove c’era la bandiera del suo paese e non andarono più su. Una pallottola centrò in pieno la testa di un altro soldato che gli era disteso vicino. Mustafà guardò la croce verde della bandiera perdersi nello sfondo rosso e capì che quella partita sarebbe stata definitivamente persa.
I prigionieri furono svegliati da una voce registrata proveniente da un piccolo altoparlante sistemato in uno degli angoli del cortile. Era la prima preghiera del giorno. Decine di ginocchia ancora assonnate si abbassarono fino a toccare la terra inumidita dalla notte appena passata. Le mani furono portate avanti al corpo orientato verso nord. Con tanti inchini nei confronti di un signore invisibile, le fronti bruciate dal sole arrivarono ad annusare la terra, mentre le labbra pronunciarono con un bisbiglio la loro appartenenza ad Allah.
Mustafà avrebbe voluto chiedergli perché era ancora lì, anche se erano passati già tre anni dal cessate il fuoco concordato nel settembre del 1991, anche se gli avevano rubato tutto, compreso la gioventù, anche se i suoi amici erano morti e i suoi figli cresciuti lontano da lui come gabbiani solitari. Ogni inchino una domanda senza risposta che rimbombava nella sua testa. Una leggera lacrima iniziò a scendere sulla guancia destra cambiando direzione ogni volta che incontrava una ruga per poi cadere tra le dita ingiallite dalla nicotina, il solo piacere che gli era rimasto. Ognuno di quei venti uomini rinchiusi in quella cella stava facendo la stessa cosa, anche se nessuno voleva alzare lo sguardo per importunare il dolore di chi gli stava vicino.
Chi più chi meno, erano oramai molti anni che dividevano quello spazio, così angusto fatto di sbarre alle finestre, con la nostalgia per la propria terra che impregnava le pareti come l’umidità. Avevano imparato a rispettarsi, o almeno avevano imparato a rispettare i propri ruoli di giocatori nel momento in cui i loro piedi toccavano il pallone bianco dai rombi neri.
Quella stessa mattina, due ore dopo, la squadra di Mohammed era già disposta in campo. Il capitano richiamò i giocatori intorno a lui e con parole secche pronunciate tra i denti mezzi cariati, incitò gli animi alzando lo sguardo al cielo.
“Facciamo vedere a questi cani come ci muoviamo nella nostra terra”, disse portando la palla al centro del campo.
Un fischio breve ma intenso ruppe la tensione. I corpi iniziarono a rincorrersi tra loro come gli anelli di una catena che scorrono veloci lungo l’argano di un’àncora. Ogni tanto da una nuvola di sabbia sbucava il pallone e le grida lo accompagnavano ad ogni movimento, simile al toro in una arena.
Se non fosse stato per il colore dei pantaloncini, i ventidue giocatori sarebbero potuti sembrare tutti fratelli della stessa madre, e in fondo, anche se i fucili che sporgevano dai muri come tante bandiere mutilate avrebbero suggerito il contrario, così era.
Non c’era nessun arbitro a controllare la partita, non era necessario. Fuori da quel campo, tra le dune del deserto dei deserti, quei fratelli si erano trucidati per decenni, senza regole, senza esitazioni, prendendo a calci non un pallone, ma la testa del nemico. Ma quando il sole raggiungeva la posizione ottimale e l’ombra sulla roccia iniziava il suo percorso, gli odi reciproci si fermavano. Non erano più dei nemici, ma solamente dei giocatori. Nessun trattato, nessun accordo o armistizio avrebbe potuto turbare quei novanta minuti nei quali tutto sembrava normale. Novanta minuti per dimenticare decenni di sangue e orrori. Forse era un po’ poco, ma sempre meglio di niente.
Mohammed rubò un pallone destinato a perdersi oltre la linea laterale. Con un’accelerazione improvvisa si portò in posizione di tiro e lasciò partire un destro portentoso. La palla passò velocissima nella mischia e comparve alla sinistra del portiere che ebbe appena il tempo di rendersi conto di aver perso l’accesso alla finale.
Quella notte nessuno dormì nella cella di Mustafà. Frasi spezzate cozzavano al buio e si andavano a posare sulle brande di ferro seguendo il bianco degli occhi che sembravano tanti fanali accesi.
“Domani ci giochiamo la finale”, gli disse Sufyan.
“Già, non mi sembra vero”.
“Credi che ce la faremo?”
“Solo Allah lo sa”, gli rispose Mustafà.
“Io ho paura”, disse l’uomo cercando conforto nell’amico.
“Non devi aver paura”, gli rispose Mustafà stringendogli la mano in segno di affetto, “non abbiamo niente da perdere”.
“Come si chiama tuo figlio?”, gli chiese Sufyan dall’oscurità.
“Mio figlio?… Khemaìss”, rispose l’uomo indugiando un poco.
“E perché proprio questo nome?”
“Beh”, disse lui sorridendo, “mia moglie era già pronta dal lunedì, ma era riuscita a trattenerlo dentro di sé, fino a giovedì, perché sapeva che quel giorno della settimana è riservato soltanto alle nascite maschili. E’ arrivato dopo una lunga attesa”.
“E com’è stato?” continuò a chiedergli l’amico in preda all’entusiasmo, “Io non sono ancora un padre, ma appena tutto questo sarà finito lo diventerò presto”.
“Mi sembra ieri. Tutta la famiglia fu convocata e riunita nella nostra casa, a partire da mercoledì sera. I miei due fratelli, con mogli e bambini, erano arrivati, inquieti e impazienti. Io ero il più piccolo e quello fu un grande giorno per tutti. Lalla, mia moglie, s’era chiusa in camera con la sorella. Nessuno era autorizzata a disturbarla, nemmeno io. Verso mezzanotte si udirono dei gemiti: erano le prime doglie. Tutti parlavano a bassa voce. All’alba si udì il richiamo della preghiera. A quel punto mia moglie si mise ad urlare. Il giorno si alzò dai tetti delle case e illuminò il cielo. Verso le nove del mattino, il mattino di quel giovedì, la sorella di mia moglie uscì dalla stanza e cacciò un grido di gioia, ripetendolo fino a sfiatarsi: E’ un maschio, un maschio, un maschio!!! Quel giorno divenni padre… Sono passati quasi sedici anni da allora”.
La notte tacciò ogni discorso ulteriore. Mustafà cercò di prendere sonno, nonostante quei ricordi tornati alla memoria gli pesassero sugli occhi come macigni di pomice che non si consumava con le lacrime.
La mattina seguente tutto era pronto. Le due squadre erano disposte in campo. Per quella finale, unica volta durante tutte le partite del campionato, i giocatori indossavano delle magliette colorate: rosso per Mustafà e compagni, giallo per la squadra di Mohammed.
L’atmosfera era tesa. Sui volti si intravedeva un misto di concentrazione e speranza. Erano tre anni che Mustafà non vinceva. L’anno prima era stato eliminato dopo tre partite perché alcuni suoi giocatori si erano ammalati, e per correre appresso a una palla con quarantacinque gradi all’ombra quella non era sicuramente la condizione fisica migliore.
Ogni cella era composta da venti uomini. Tra loro venivano estratti undici titolari, ma tenendo presente le malattie e, per alcuni casi, la vecchiaia, perdere più di due giocatori poteva significare la sconfitta sicura.
Il pallone fu sistemato al centro del cortile. Per l’occasione il campo fu delimitato con delle strisce di gesso per renderlo più visibile e alle estremità superiori dei pali che servivano da porte fu legata una lunga striscia fatta con tante buste di plastica per indicare la traversa. Il significato di quella lunga prigionia, per entrambe le squadre, era racchiuso in quell’ultima partita.
Appena il sole fu abbastanza in alto per iniziare la sua corsa lungo la pietra che scandiva il tempo della partita, un colpo di fucile sparato da una guardia ne segnò l’inizio. Tutti i giocatori si mossero freneticamente. Tanti punti gialli e rossi si erano disposti in campo, ognuno a coprire la sua zona o a marcare il giocatore che gli era stato assegnato. Mustafà giocava all’attacco, Sufyan gli stava poco dietro, pronto a lanciargli la palla per un suo scatto improvviso.
Per un poco, le due squadre si studiarono. Cercando di possedere la palla il più possibile Mohammed tentava di capire quale combinazione lo avrebbe potuto portare verso l’area avversaria. Lui e la sua squadra erano più alti degli avversari, quindi privilegiavano il gioco fatto di palle alte e colpi di testa, ma i marocchini erano molto più veloci, sicuramente meno bravi a tenere palla, ma la loro velocità costituiva la loro carta vincente.
Sufyan lanciò un pallone improvviso che tagliò l’aria trasversalmente ma invece di trovare i piedi di uno dei suoi compagni fu prontamente bloccato dalle mani callose del portiere avversario che lo rilanciò dall’altra parte del campo dove una serie di stretti passaggi portarono subito in goal la squadra di Mhoammed. La palla sbucciò il palo più interno rispetto al portiere e finì oltre la linea di porta. L’urlo di gioia della squadra gialla fu assordante. Tutti i giocatori rincorsero il compagno che li aveva portati in vantaggio e in preda all’euforia si abbracciarono stretti come fa il polipo quando è colpito dal remo di una barca.
Mustafà si girò a guardare la sua squadra. Gli sguardi erano bassi e in alcuni occhi si poteva leggere la sensazione di non potercela fare a vincere.
Un altro colpo di fucile indicò nuovamente l’inizio della partita.
La squadra di Mhoammed, euforica per il gol appena fatto, si buttò subito tutta all’attacco, cercando di prendere alla sprovvista gli avversari ancora frastornati che intanto correvano alla rinfusa appresso al pallone. Mustafà alzò gli occhi al cielo per guardare in che punto era il sole. L’ombra sulla roccia indicava che mancavano circa dieci minuti alla fine del primo tempo. Restavano cinquantacinque minuti per ribaltare il risultato.
“Forza, andiamo!” gridò ai compagni per incitarli.
Le riserve erano sistemate lungo la linea laterale di fronte alle celle, sedute su alcuni vecchi bidoni di combustibile che fungevano da sedie. Appena la palla uscì dal rettangolo di gioco Arez, uno dei giocatori della squadra rossa, corse verso Mustafà.
“Fammi entrare!” gli disse trattenendolo per la maglietta,
“Sto bene. Posso giocare”.
“Sei ancora troppo debole Arez”, gli rispose il capitano.
“No Mustafà, ti dico che sto bene. Fammi entrare”.
Mustafà lo guardò negli occhi e vide lo stesso desiderio di un ragazzo dell’età di suo figlio.
“Sicuro di stare bene?” gli disse sorridendo leggermente.
“Sicuro!” gli rispose il ragazzo stringendosi una corda ai fianchi che gli serviva da cintura.
“Va bene. Che Allah ti protegga!”
Il capitano fece cenno all’altra squadra di voler effettuare una sostituzione e richiamò uno dei giocatori che un poco contrariato si andò a sedere su uno dei bidoni fuori dal campo. Arez, nonostante la lunga febbre che lo aveva debilitato, si dimostrò subito all’altezza della situazione. Con una finta si portò al centro dell’aria avversaria e lasciò partire un tiro che fu fermato dalla mano di un incauto difensore. “Rigore!”
Urlarono subito i giocatori in maglia rossa. Il difensore guardò verso la sua squadra sollevando le spalle, quasi a volersi scusare. Le proteste degli avversari furono subito placate dallo stesso Mhoammed che si abbassò a prendere il pallone e lo posizionò sul punto da dove si sarebbe battuta la massima punizione.
Mustafà chiamo a sé Sufyan. “Te la senti di tirare tu?”
“No, no Mustafà”, gli rispose l’amico, “fai tirare qualcun altro”.
Il capitano girò la testa verso i suoi giocatori per cercare in uno di quei nove volti un segno di approvazione.
“Tiro io”, disse improvvisamente Arez uscendo dalla calca.
“Tu?”, disse incredulo l’uomo.
“Si! Se per te va bene, tiro io”.
Mustafà guardò il cielo, questa volta non per osservare la posizione del sole, ma per cercare un segno di Allah. Oramai il primo tempo stava per finire.
“Va bene”, disse al ragazzo portandogli la mano sulla spalla,
“ma non guardare mai il pallone, hai capito? Tira senza guardare il pallone, ma solo la porta”.
Il ragazzo si avvicinò alla sfera e tirò un lungo respiro. Il portiere avversario si sistemò le strisce di cuoio che aveva legato alle mani come fossero dei guanti e vi sputò sopra per aumentarne la presa. Ariz fece due passi di corsa e colpì il pallone con tutta la sua forza. Ebbe appena il tempo di vederlo scivolare sotto il fianco del portiere e oltrepassare la linea di porta, che le braccia dei suoi compagni lo sommersero per festeggiarlo. I giocatori gli si buttarono addosso e lo coprirono completamente fin quasi a farlo sparire.
“Va bene, va bene”, disse con voce roca, “ora alzatevi però che così mi state soffocando”.
Mustafà gli allungò la mano per aiutarlo ad alzare mentre con l’altra accarezzò i capelli ancora impolverati in segno di affetto.
“Ti avevo detto di non guardare il pallone, non di chiudere gli occhi”.
“Hai ragione”, gli disse Ariz sorridendo, “ma avevo troppa paura”.
Un colpo di fucile indicò la fine del primo tempo. Le due squadre si raggrupparono vicino le rispettive panchine e si passarono dei secchi pieni di acqua per dissetarsi.
“C’è la possiamo fare”, disse Sufyan ai compagni di squadra.
“Certo!”, gli rispose Ariz con la testa mezza infilata nel secchio per bere, “Quest’anno vinciamo noi.”
Dopo poco le squadre si ripresentarono nel rettangolo di gioco. La sentinella aspettò che tutti i giocatori si fossero sistemati e poi sparò nuovamente in aria per bucare il cielo.
Mohammed si presentò in campo con due cambi, evidentemente non gli era piaciuto come avevano giocato i suoi giocatori per quei primi quarantacinque minuti. La squadra rossa si mostrò invece molto più tattica e si conservò le riserve per gli ultimi venti minuti di gioco.
Il caldo oramai era diventato insopportabile e si faceva fatica a correre. La sabbia era incandescente e si andava ad infilare nei buchi delle scarpe dei fortunati, pochi in verità, che non correvano scalzi.
Improvvisamente con la coda dell’occhio Sufyan vide Mustafà correre lungo la fascia sinistra. Calibrò una palla che passò sopra numerose teste che invano cercarono di raggiungerla.
Il capitano la controllò con il petto e la calciò proprio sotto l’incrocio della porta.
“Gol, gol, goooollll!!!!!!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Quella fu l’ultima azione della partita. Tre colpi di fucile indicarono che i novanta minuti erano appena finiti. I giocatori della squadra gialla restarono ammutoliti, mentre la squadra di Mustafà correva per il campo agitando a festa le magliette rosse.
Un altro campionato era finito, in un certo senso un altro anno di prigionia stava terminando. Mhoammed si avvicinò al capitano della squadra avversaria e gli strinse la mano.
“Complimenti. Questa volta è toccato a voi. Va così la vita.
Oggi si perde, domani si vince”, gli disse mentre si sfilava la maglietta gialla.
“Già!”, rispose Mustafà ricambiando il saluto, “Così va la vita”.
Le due squadre si disposero l’una di fronte all’altra. Le sentinelle scesero dai muri di cinta e si andarono a sistemare lungo la fila della squadra perdente. Ugualmente i dieci giocatori di Mustafà fecero altrettanto andando di fronte a quel lungo serpente triste e sudato che si era appena raddrizzato dopo la sconfitta. I ventidue uomini si scambiarono le magliette, mentre le sentinelle si tolsero i fucili e la divisa e le diedero alle riserve che gli stavano davanti. Per l’anno che sarebbe venuto, e per tutto il nuovo campionato, sarebbe toccato ai marocchini fare la parte dei vincitori, scandire i tempi delle interminabili giornate, mostrare i fucili e comandare la ritirata. A tutti quegli uomini dimenticati in una assurda guerra dimenticata non restò altro da fare se non fingere che, almeno in quella prigione, esistessero davvero dei vincitori e dei vinti.
“Che giorno è oggi?” chiese Mustafà all’amico Sufyan che, divertito, si stava osservando la maglietta appena indossata.
“Che giorno è? Ma, credo sia giovedì”, rispose lui.
“Sedici anni fa sono diventato padre”, disse Mustafà guardando il cielo.