Granelli di sale, Andrea Rinaldi_Roma
Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani
Immagina un pennacchio di luce scintillante, gettato verso il cielo dal respiro di una balena, gonfio dell’odore del mistero smeraldino: immagina di fermarlo nel tempo, nell’istante che ancora lo lega alla lastra di mare che è sua origine, mentre tende alla cupola del cielo. Non è più uno zampillo: è una ragnatela, tesa verso l’alto, di collane di perle di sale d’acqua. Si potrebbe descrivere in mille altri modi, ma immaginatela così: una ragnatela i cui fili sono collane, le cui perle sono gocce d’acqua salata. E le gocce d’acqua sono potenzialmente infinite, volendole scomporre: e ancora più infiniti sono i granelli di sale in esse disciolti. Ora, immagina che ciascuno di questi granelli sia una storia: avanti, afferrane uno e leggilo. Da dove inizi la tua storia? Ogni storia che si rispetti inizia da un viaggio o da un amore: quindi forse ti ritrovi d’improvviso su un treno e il trambusto che fa sulle rotaie subito prende il posto della calma piatta del mare. La tua giacca beige è appoggiata sul sedile accanto: è estate fa troppo caldo per indossarla, ma è una compagna iconica e insostituibile, e ti serve tenerla accanto come surrogato di una compagnia che ora non hai, ma che presto sarà tua. Inspiri impettito e sorridi al mondo fuori dal finestrino, dipinto d’oro e arancio dal sole che ha imbevuto anche le nuvole. Lei ha detto di sì: a quale domanda non ha senso chiederselo, è ancora da decidere. Ma ha detto di sì a una domanda forse anche troppo matura: i frutti che se ne potranno cogliere li vedrai poi. Ora non puoi che sentirti felice: ti senti felice per un nulla, in barba a pesti e carestie, a crolli di muri e rivoluzioni, che in confronto alla felicità della tua piccolezza non valgono niente! Sei consapevole di non essere che un granello di sabbia nella clessidra del mondo, in continua tensione verso l’abisso; ma finché l’abisso è lontano e non lo guardi negli occhi, sei il solo granello che conti e ti senti felice; e per un brivido d’insignificanza ti senti sollevato al di sopra dei dorati confini del cielo. Chiudi gli occhi: pensi alla felicità, te la figuri come distese di canti, come fiumi di giubilo, come grappoli di dolcezze. Ma quando li riapri senti le palpebre già onerate dalla fatica del ritorno: le sbatti per scacciare la delusione del sogno sbiadito, della felicità che già ti pare quella di un’altra vita – forse sepolta sotto le nuvole d’oltremare, che ora se guardi fuori dal finestrino vedi dall’alto? Torni a casa dopo un viaggio di lavoro: un successo enorme, senza precedenti, hai duplicato i profitti, triplicato, centuplicato – qual è la differenza, in fondo? Che sono i numeri? Domani cinque sarà tre, e nove sarà mille, e pi greco si potrà leggere, vada tutto alla malora!… questa tua ribellione ti stupisce. Ti riempie d’inquietudine perché preferisci la felicità del saggio capitalista, quella felicità che non ti rende la gioia del presente ma ti genera solo rilassanti piani per il futuro. Sia quel che sia: torni forse da Lisbona, forse da Londra, forse da Tokyo o forse da Cartagine: che ne sai? I granuli di luce delle città non bucano il limite delle nuvole, non sai dove stai andando tu come non sai dove stanno andando le tendenza borsistiche; il sedile accanto a te è vuoto; nulla può raggiungerti più nella tua trascendenza materialistica, non le preoccupazioni, non le gioie: e unico tuo compagno di viaggio è il computer, surrogato della tua vita, archivio di ogni cosa che abbia valore di te. Forse gli occhi ti si fanno lucidi e senti anche un umore – parola a te quasi sconosciuta – scenderti lungo il viso: e pensi al tempo perso nella ricerca spasmodica di risparmiarlo, pensi alle cose insignificanti. Quando hai iniziato a pensare a queste cose? Non lo sai. Ma ti coglie un’inusitata nausea, al pensiero di dolcezze che non conosci, come se non fossero ancora mai esistite: come se fossi il primo uomo del mondo. E s’infrange il metallo che ti teneva comodo e sospeso oltre i confini che Icaro varcò due volte, s’infrange e ascende in un guizzo di luce. E tu cadi: e cadi in un secondo Eden. Alzi gli occhi al cielo a vedere quelli di tuo Padre: non lo vedi da tanto, perché non riconosci più il suo volto. Ma quest’oggi è diverso: nel gioco di cerchi concentrici, di triangoli equilateri, di paradossali simultaneità che è il suo volto riconosci il tuo: forse perché oggi sei nato, ora che hai avuto a un tempo la consapevolezza della gioia nelle sue declinazioni più distanti e hai avuto la consapevolezza di due te e dei loro solitari viaggi. “Adamo”, ti chiama tuo padre: e ti porge un raggio di luce che s’incarna in una mano. “Tu sei la mia ultima opera; mi tradirai, e io ti punirò. Ma ora non conosci quello che è negativo: e non sai che cosa vogliono dire queste mie parole, e le capirai solo quando si avvereranno; perché fino ad allora, al di fuori della mia mente, non avranno significato. Gioisci nel tuo giardino incantato, Adamo, finché potrai senza sentire l’immane peso della vita”, ti dice. Non capisci le sue parole, ma ti suonano bellissime: specialmente l’ultima. In verità non l’hai ancora sentita, tuo padre parlava troppo veloce e troppo difficile, ma proprio per questo è la più bella: perché è tua. E pensi, senza sapere perché, a quanto sarebbe bello se non fossi solo: a quanto sarebbe piacevole poter cogliere una mela senza doversi curare della propria fame, a quanto belle devono apparire le acque di un fiume che si infrangono su un altro corpo. E nel fianco cominci a sentire il dolore di quella parola che prima avevi trovato bellissima. E continui a pensare ancora, a segreti che ti si affacciano alla mente come ricordi, ricordi però di un tempo che non esisteva: pensi che vedere il movimento di un altro corpo ti aiuterebbe a riconoscerti, e che il confronto di un’altra mente ti aiuterebbe a sfidarti; pensi che il sorriso di un altro volto dev’essere la chiave della più alta felicità e il rifiuto di un altro pianto un destino peggiore di qualsiasi morte. E il dolore si fa sempre più forte: ti aggiri per il tuo giardino, che meraviglioso all’inizio ora non puoi più sopportare di esplorare da solo, perché senti di non essere abbastanza per accoglierne tutta la bellezza; ma che al tempo stesso la sua bellezza non è abbastanza per riempirti, perché non abbastanza per rispecchiarti in lei: nelle acque turchesi rifletti il tuo volto, ma in che rifletti la tua gioia e il tuo dolore, la tua paura e la tua curiosità? Il male ti dilania, la costola dentro il tuo fianco palpita e tenta la fuga. “Lo sento, Padre, sento tutto il peso della solitudine – così interpreti quella sua parola – liberami” dici, e crolli all’indietro, steso per terra. Guardi tuo padre: di nuovo lo riconosci e gli porgi la tua mano, lo indichi, additandolo come causa del tuo dolore e unico al mondo capace di interromperlo: e lui addita te come sua creatura unica e unica fonte possibile di altra creazione. Poi si copre il volto con un panno, la testa con una cuffia: e la luce infinita che pervadeva tutto il suo cielo si rinchiude in un cerchio di neon, fastidiosamente abbagliante. E già non è più tuo padre: ma è uno che per giuramento prima e per lavoro poi serve la vita. Il matrimonio della morale e della convenienza che ti dice di spingere: e il dolore ti dilania ancora. Quello non è che il tuo primo figlio, ma senti di aver già vissuto quel dolore: la terribile agonia della creazione di una nuova vita per avere qualcosa nel mondo in cui rispecchiarsi. Qualcosa – qualcuno che è la tua massima aspirazione, e per cui tu non sei che il punto di partenza: non è forse la massima esplicazione del sacrificio e la più grande forma d’amore, quella consapevole dell’asimmetria totalizzante dell’importanza dell’uno e dell’altro lato? Tra questi pensieri anneghi il dolore, e viene al mondo la tua fine: il servo della vita sorride, la tiene in braccio con una tenerezza indifferente al sangue e al dolore. Quello è il passato ormai: il nuovo nato per te è la fine; te per lui l’inizio. E il nuovo inizio si lascia indietro l’incertezza di queste prime parole. Ti portano fuori dalla stanza; assieme a quell’anello abbagliante di neon e al medico, entrambi tanto familiari, ti abbandonano i ricordi che sembravi avere di un giardino incantato e lontano. Nell’asettico bianco dell’ospedale attendi, tanto affaticata da dimenticarti del dolore che prima ti aveva dilaniato, ma non abbastanza da mitigare l’ansia con cui attendi che il pargolo ti sia portato. L’hai creato tu. E ti chiederanno di dargli un nome: ti sovviene l’idea di chiamarlo Michelangelo, non sai nemmeno tu perché; ma senti che lo saprai, se solo andrai avanti e… volterai ancora una volta pagina, signora – ti dice il medico, tornato tenendo Michelangelo in braccio. Sì, ormai si chiama così. E crescerà senza padre, perché lui non è mai arrivato – a questo si riferiva il medico: tu l’hai creato da sola, lui ha solo aiutato a tirarlo fuori dal tuo dolore. Il medico lascia te e Michelangelo da soli: lo stringi con dolcezza tra le braccia, accogli il suo odore, accarezzi la sua morbidezza e sazi la sua prima fame. E in compagnia del suo primo silenzio non senti più il peso della solitudine. Tutto – la stanchezza, la soddisfazione delle attese, il suo respiro leggero – ti calano delicatamente nel sonno. Nei tuoi sogni è una sera dei primi di novembre, una di quelle sere ancora per poco tanto fredde, proprio prima dell’estate dei morti: ti stringi nella tua giacca beige, che forse ormai è troppo leggera, però è di una bellezza insostituibile. Sorridi tra le guance paonazze per il freddo: che strana cosa, i brividi! Più sono insignificanti e più ti scuotono. Ti fermi un attimo per la confusione a questo pensiero. Non capisci esattamente che cosa voglia dire; ma è un qualcosa che hai già saputo e che forse saprai di nuovo. Una foglia rossa ti si adagia sui capelli e ti fa sobbalzare, interrompendo quella reminiscenza, e ti fa rendere conto di dove sei: un’insegna al neon, familiare come il sorriso che cerchi, ti indica la strada. Scendi per quelle scale che l’abitudine non ha reso meno ripide ed entri nel bar che è già stato ospite nel corso della tua vita di centinaia di ricordi che ora non ti sovvengono, addensati nella tua mente come sabbia in una clessidra. Scendono e se ne vanno a intervalli rapidi e costanti, ed è impossibile accorgersene: perché non appena ti accorgi che una storia è stata sostituita, te ne dimentichi. E rimani solo a chiederti cosa sono quei bagliori che vedi ancora ai lati del campo visivo… ma subito qualcos’altro cattura la tua attenzione: la ragazza dietro al bancone ti sorride mentre pulisce un bicchiere incrostato di schiuma. “Il solito?” ti chiede, quando ti siedi di fronte a lei, con il mento appoggiato al palmo della mano. Lei ha i capelli biondi raccolti in alto, gli occhi grigi e intelligenti; le labbra un elegante arco di circonferenza, simile a quello delle palpebre, calcate sulle iridi da ciglia sottili. Nell’indice della mano destra ha un taglio che ancora sanguina, ma non se ne cura, continua a sorridere. “No, oggi non voglio nulla: passo solo per salutare” rispondi. Lei non smette di sorridere e tu non puoi che assecondarla. Senti il bisogno di dirle qualcosa, ma non sai cosa, non sai che risponderebbe. Però sai di doverlo dire, perché quella notte deve nascere qualcosa: e allora fai per lanciarti in avanti, per prenderle la mano sul bancone e blaterarle qualcosa sulla malinconia; ma ti interrompono. “Una notte storica per i berlinesi e per il mondo intero…” gracchia la televisione da un angolo del bar. Tutti si girano a guardare e ad ascoltare, ansiosi di sapere che cosa può essere successo: sono i primi di novembre e una parte del mondo riconquista la propria libertà. E tu sai di dover fare lo stesso, di dover cogliere ogni tuo coraggio e abbattere i tuoi muri. Ma è così difficile, e lei è così lontana: e si allontana sempre di più… ti alzi e te ne vai, non notato, poi esci dal bar: forse hai lasciato il coraggio che tanto cerchi là fuori, assieme all’ombrello. E quando esci controlli nel portaombrelli, ma non trovi nulla. Che stavi cercando? Le chiavi? No, ce le hai in tasca. E poi oggi nemmeno piove. Vabbè. Controlli nella posta: ancora nulla dall’università. Vabbè, Storia dell’arte è a numero aperto. Se Medicina dovesse andare male, ci sarebbe sempre quello… sospiri scendendo le scale, sempre teso tra il senso di dovere verso la vita e il senso d’amore verso la bellezza. Quando esci, fai attenzione a non passare sotto le scale che gli operai che stanno lavorando – vogliono abbattere un muro per ampliare il cortile, sembra – hanno lasciato lì, perché non hai certo bisogno di altra sfortuna. Ti infili la mano in tasca, superi il tagliente ostacolo delle chiavi e afferri le cuffiette, imprechi sottovoce quando le tiri fuori e vedi in che stato sono: in mano ti trovi un groviglio inestricabile. Tra te e te sbuffi, non capisci come facciano ogni volta a ridursi in quello stato, vedendo tutte le spire che ha creato il cavo: non se ne capisce l’inizio, la fine, non si capisce quando curva, quando si annoda, non si capisce da dove si deve iniziare a leggere e cosa si deve capire… ti arrendi e le sciogli quel tanto che basta per indossarle, al di là della comodità: d’altronde non serve per forza capire tutto, sempre, fino in fondo. Poi fai partire le canzoni dal tuo iPod: e nel frattempo afferri al volo un giornale e controlli il tuo oroscopo. 9 novembre 1989, questo dice dell’inizio della tua vita la carta d’identità: nel centro dello Scorpione. Cinque pallini a fianco della scritta “Amore”. Sorridi perché forse la vita ti sorride, e ti sorride in maniera davvero dolce, come nella luce soffusa di un bar di vent’anni fa: pensi che forse potresti davvero chiedere a… ma poi t’interrompi. Non hai nulla da chiedere a nessuno, che vai pensando? Ma magari conoscerai qualcuno oggi stesso, magari durante il viaggio in metro… qualcuno che riuscirà a cambiare il tuo modo di vedere le cose, a palesarti l’esistenza di un segreto che non avevi mai saputo. Con rinnovato ottimismo imbocchi le scale della stazione e nelle cuffiette parte Autogrill di Guccini. “Strano” pensi, ascoltando le parole con un attaccamento del tutto nuovo. Quelle parole non ti sono mai sembrate così tue come in quel momento. Sceso l’ultimo gradino lo spazio intorno si apre: una cupola alta ti sovrasta come il cielo, decorata del meglio che un solo uomo abbia saputo offrire all’universo. Cammini tra archi e colonne secolari, e con riverenza e silenzio volgi lo sguardo verso l’alto: un immenso complesso di affreschi si presenta ai tuoi occhi, tutti opera di una sola mano. E per quanto siano tutti oltre ogni possibilità descrittiva ce n’è uno che ti colpisce in particolare: un uomo steso su un fianco che indica suo padre, con mano morbida e stanca; e al tempo stesso suo padre indica lui, con mano morbida e autoritaria. Negli occhi dell’uomo steso percepisci il dolore e l’inquietudine: comprendi che su di lui gravano l’immane peso della solitudine e una consapevolezza che sai di non poter nemmeno lontanamente contenere, ma senti di dover capire. E quello sguardo a metà tra il disilluso e lo speranzoso e quel dito puntato ti angosciano. Ma nella mano carnosa del padre leggi la concessione dell’esistenza, della compagnia, dell’amore… i tuoi turbati pensieri sono interrotti da una voce flebile, proprio accanto a te. È una madre con la solitudine negli occhi e un’orgogliosa stanchezza nel parlare. Sta dicendo al figlio mentre lo tiene per mano: “Questo l’ha dipinto Michelangelo”. Ed entrambi si mettono a ridere e tu non capisci perché; dev’essere un loro segreto, non può che esserlo, ma senti che dovresti capirlo anche tu. La madre e il figlio si allontanano, ancora ridendo, scompaiono dietro qualche altro ingegno, e tu rimani lì, divorata da un dubbio che non conosci. Come se grazie a loro due riuscissi a vedere il contorno di una figura straordinaria e riuscissi anche a capire che cos’è, ma ti mancasse la parola per dirlo: quella parola che sia l’uomo che il padre stavano indicando l’uno nell’altro, quella parola che la madre sottintendeva per il bambino, quella parola che nasconde tutte queste idee folli e segrete che continuano a stupirti. Ti senti mancare l’aria, come se quella parola continuasse a sfuggirti, secondo dopo secondo: e la segui di corsa fuori dal luogo della redenzione, voltando le spalle ad Adamo. “Sono in ritardo!” ti dici, presa dal panico: chissà che penserà lui? Dopo una domanda e una risposta entrambe attese così a lungo, non vedendoti arrivare, che cosa potrà pensarne lui? Dardeggi con lo sguardo smarrito da una parte all’altra del ristorante. Riconosci la sua insostituibile giacca beige attaccata alla sedia di un tavolo per due e quell’arco di circonferenza che è il tuo sorriso ti torna sul volto con un sospiro. Ti basta spostare lo sguardo per trovare anche lui. Sta appoggiato al davanzale di una finestra, in una mano una sigaretta, nell’altra una clessidra che fa roteare con acrobazie delle dita a invertire e far perdere continuamente la direzione giusta a tutti i piccoli granelli che la abitano. Tu vedi lui, lui vede te. Vi sorridete come ogni altra volta nel corso dell’eternità e vi sedete a tavola. Non ha senso chiedersi cosa vi siate chiesti e cosa vi siate risposti, è ancora da decidere, è ancora tutto da decidere. Lui, distrattamente, ha posato la clessidra orizzontalmente: e tutte le storie di tutti i tempi, in quel momento, per quella sua azione hanno smesso di muoversi e di scorrere. Vi fissate in un momento eterno e forse vi va anche bene così: vi va bene che non si possa ancora decidere un finale, perché non avete finito di guardarvi, perché ancora non vi serve districare completamente e capire il senso della matassa intrecciata delle vostre vite. Ma soprattutto non avete finito di osservare quanto è più bello il mondo visto da due paia di occhi e ascoltato da due paia di orecchie: il tintinnio dei vetri diventa la prima delle sinfonie se a farlo sono i vostri due bicchieri. Una sola domanda buca la cupola di indefinito che vi avvolge e che ha sublimato ancora una volta tutte queste storie: “Mi passi il sale?” ti chiede lui. Il dubbio scompare nelle sue parole: non c’è niente più da decidere, è una richiesta categorica, che si impone su ogni incertezza. E nel chiedertelo ti porge una mano morbida quanto autoritaria, con un dito rilassatamente puntato a indicare l’oggetto della sua richiesta: e quella sua mano ti ricorda qualcosa, forse che hai vissuto, o forse solo un’immagine. Ti scrolli di dosso la sensazione e cerchi di ignorare la gravosa certezza di quelle parole: ma nell’avvicinarti alla saliera senti il peso di una scelta irrevocabile che ti è stata data e, a qualche centimetro, ti fermi e pensi: “Porta male passare il sale”. Perché mai adesso ti viene di pensare a questo? Di nuovo scuoti la testa e afferri la saliera: ma quando tendi il braccio a lui, che ancora indica la saliera, ti sfugge di mano. Il coperchio si stacca e i granelli di sale esplodono sulla tovaglia, raggiungendo ogni suo punto, ciascuno con mille voci, mille volti, mille spire, mille intrecci, mille amori, mille gioie, mille dolori, mille nomi e giacche e computer e bicchieri e cuffiette e treni e aerei e frutti e fiumi e figli e affreschi e televisioni e muri e stelle e oroscopi e annunci e canzoni, e con mille brividi. Tu e lui, quasi meccanicamente, afferrate la tovaglia e la tirate a voi: lo stesso fanno due camerieri agli altri due angoli. La tirate e la stendete e rimanete lì, immobili garanti di quella stasi. Qualcheduno, scrivendolo un tempo in un qualche libro, sostenne che il mondo fosse questo, questa cosa che tu hai ora creato: una tovaglia quadrangolare, tirata da un angelo a ogni angolo, stesa sul vuoto. E coperta di infinite storie di cui è impossibile leggerne una senza influenzarle tutte; eppure, ciascuna piccola e insignificante come un granello di sale. E finalmente ora ti sovviene la parola che stavi cercando e che hai trovato, senza saperlo, in tutte le storie che hai letto, passando senza averne coscienza da una all’altra, senza mai capirle finché non le hai fatte scoppiare tutte contemporaneamente: vita.