Habemus Moretti
di Maurizio Canosa
Arriva per tutti il momento della vertigine. Un desiderio di fuga ti possiede d’impulso e ci si sente all’improvviso inadatti a un ruolo. Non è la vocazione a vacillare, ma il dubbio atroce di non esser capaci di assolvere al compito del proprio destino. Talvolta, è questo il segno dell’umanità più profonda, perché è lo stesso smarrimento che colse Cristo nell’atto di caricarsi il peso del mondo sulle spalle. Ed è questo che succede all’umano, troppo umano pontefice di Habemus Papam. L’ultimo, prezioso lavoro di Nanni Moretti, per nulla dissacrante, gioca sul filo sottile del grottesco, evitando qualsiasi grossolanità anticlericale. Ma c’era da aspettarselo. Nei confronti di chi indossa abiti di fede, il cineasta romano ha sempre avuto uno sguardo rispettoso e talvolta venato di tenerezza. Da sincero ateo “non praticante”, ha nutrito sin dagli esordi un’ammirazione senza riserve per ogni autentico percorso di spiritualità (qualcuno ricorderà, in Sogni d’oro, l’unico momento di pace dello scorbutico alter ego Michele Apicella, all’interno di un convento di suore). Anche per questo sembrano davvero risibili le critiche scandalizzate di alcuni vaticanisti che, autoproclamatisi evidentemente censori della santa fede oltre che cinefili sopraffini, hanno bollato il film perché, testuale, “offende la nostra religione”. Niente di tutto questo, naturalmente, e dunque non vale neppure la pena di spenderci troppo tempo, se si vuol parlare di cinema. In Habemus Papam, il nostro torna all’antico, padroneggiando le stravaganze che lo hanno reso famoso in pellicole di culto come Ecce bombo e Bianca, privandosi di quella cattiveria un po’ narcisistica e lasciando da parte la sardonica cupezza autodistruttiva che ne avevano verniciato il carattere. E’ un tragitto, in realtà, che ha intrapreso da tempo, ma in questo film più decisamente (e perfino allegramente) sembra tornare al gusto per i suoi personaggi eccentrici e vagamente borderline. Sviluppando un’idea semplice e astuta, Moretti ha buon gioco nel piazzare le proprie visioni nel mezzo di una situazione comica che si racconta da sé: uno psicanalista alle prese con la crisi d’identità di un Papa. Il resto, segue, in una vicenda che probabilmente non sarebbe dispiaciuta a uno scrittore come Dino Buzzati, maestro ironico di inquietudini sospese (e infatti, piccolo inciso, non c’era bisogno di dilatare più del dovuto la sequenza dei cardinali che si affrontano nel torneo di pallavolo, con tanto di tifo organizzato di sacerdoti e suore). La parabola della crisi è affrontata con pudore e affabile empatia. A questo contribuisce il volto del ferreriano Michel Piccoli e le interpretazioni di illustri comprimari, da Renato Scarpa a Jerzy Stuhr. In più, impreziosita dalle musiche del fedele Franco Piersanti, la storia acquista in leggerezza senza perdere sostanza. Alcune sequenze hanno impresso il marchio di fabbrica del regista: dall’urlo disperato del pontefice al momento dell’annuncio, alla danza dei cardinali in attesa, all’impasse del vaticanista intervistato dal giornalista Mannoni. Ma il colpo allo stomaco arriva in coda, quasi a ricordarci che fare i conti con i propri fantasmi non è un esercizio da prendere alla leggera. Perché è nell’angoscia che s’ innesta una coscienza, nelle crepe della maschera che mostriamo ogni giorno al mondo. Il discorso del grande Piccoli richiama l’ultima scena de La messa è finita: la straziante quiete di una presa d’atto, quando il peso di una troppo grande responsabilità, se è vero che siamo uomini, rischia d’infrangere l’ancoraggio della fede.